Avrei tanto voluto che lei si fermasse. Non che desiderassi tenerla con me tutta la settimana, tutto il mese oppure tutto l’anno, ma quel giorno avrei fatto qualsiasi cosa per farla rimanere. Avrei… Bé, in realtà rimasi fermo a guardare la porta che si apriva, Silvia che usciva e la tenda della finestra che ondeggiava per lo spostamento d’aria.
Ho sempre sostenuto che un uomo debba vivere solo. Esistono spazi e silenzi che non possono essere condivisi. E' così per tutti, ma pochi hanno il coraggio di ammetterlo.
Vivo da solo e ne sono contento. Ritorno a casa dopo una giornata di lavoro e non sono costretto a raccontare a una donna sorridente e troppo curiosa di avere assunto una nuova segretaria, licenziato il custode e strizzato l’occhio alla cameriera del bar all’angolo. Mi spoglio lasciando i vestiti su una sedia senza l’assillo di qualcuno che raccoglie ciò che io ho buttato scompostamente, con un rimprovero bonario che comunque è sempre un rimprovero. Mangio all’ora che preferisco, sul divano davanti al televisore oppure con il computer acceso, e posso anche bere una birra senza versarla nel bicchiere perché non c’è una voce che mi incita a comportarmi civilmente "per rispetto di chi mi vive accanto". Esco la sera e torno molto tardi: da solo per dormire, con un amico per chiacchierare, con un’amica per parlare quel che è necessario e divertirmi un po’ di più.
Una vita perfetta.
Comunque.
Ho conosciuto Silvia in ospedale.
Mio fratello aveva avuto in incidente stradale e io correvo verso il pronto soccorso: non sapevo se fosse vivo, ogni passo era un misto di desiderio di vederlo subito e istinto di scappare per fingere che nessuno avesse chiamato in ufficio per avvisarmi. Detesto l'ansia e non tollero la paura.
Andai a sbattere contro Silvia e la feci cadere.
- Scusi, signora.
La aiutai a rialzarsi, arrabbiato con me stesso per la disattenzione.
Lei si mise in piedi, non toccò il suo vestito per pulirlo come mi ero aspettato che facesse e mi fissò.
- Si figuri. Niente di rotto. Se anche avessi una frattura sarei nel posto giusto per farmi aggiustare, non crede?
Sorrise.
Pensai che fosse una bella donna. Non alta, non bionda, niente occhi azzurri come Nadia, la mia compagna di quel periodo, però davvero bella: si era illuminata quando aveva sorriso, il viso era semplice e regolare e i denti bianchi e perfetti. I capelli scuri le ricadevano sul volto nascondendo il sopracciglio destro: erano lunghi fino alle spalle, con qualche riflesso più chiaro. La sua fronte arrivava più o meno a metà del mio braccio.
Camminando all’indietro gettai uno sguardo al suo corpo: un semplice vestito rosa e tre o quattro chili di troppo che probabilmente contribuivano a dare la sensazione di armoniosa morbidezza che, se ne avessi avuto il tempo, avrei volentieri approfondito.
Le risposi in fretta, stupito per il suono stridulo della mia voce.
- Spero di non averle fatto male. Le chiedo scusa, sto andando in pronto soccorso per mio fratello…
Non parlò: alzò la mano destra allargando il sorriso, si voltò e andò via.
Raggiunsi un corridoio scuro pieno di gente: lettini e barelle erano allineati lungo una parete e alcune persone sedevano su sedie bianche probabilmente scomode. Un’infermiera distribuiva bigliettini verdi e rossi, valutando la gravità di ogni caso con qualche domanda o con brevi esami fisici. Mi sentivo oppresso: la vista della sofferenza e della morte non dovrebbe fare parte del quotidiano, rifuggo gli ospedali e i ricoveri per anziani riservando alla malattia qualche raro pensiero per lo più rimosso.
Il pianto di un bambino mi fece paura. Pensai di ridurre al minimo la mia presenza in quel corridoio, qualunque cosa fosse successa a mio fratello. Fermai un uomo con il camice bianco: posi la domanda rapidamente, per non dargli il tempo di evitarmi.
- Buongiorno, chiedo scusa. Mio fratello è stato portato qui dopo un incidente stradale. Può aiutarmi?
L’uomo si guardò intorno, esitante.
- Non lavoro in pronto soccorso… Credo che lei debba chiedere in accettazione.
Non ebbi il tempo di manifestare la mia impazienza: una mano si posò da dietro sulla mia spalla.
- Venga con me.
Vidi Silvia, anche lei con un camice bianco: mi invitava a seguirla con lo stesso sorriso di quando l’avevo aiutata a rialzarsi dalla caduta. Non feci commenti. Camminai dietro di lei con ansia crescente: nessuno mi aveva ancora detto in quali condizioni fosse mio fratello.
Entrammo in una grande stanza suddivisa in ambienti ovattati da tende candide. L’odore di disinfettante era insopportabile. Sentii un brusìo di sottofondo da sinistra, dove notai un gruppo di medici intorno a un letto. Un’infermiera sceglieva rapidamente tra decine di flaconi di vetro su un carrello.
Silvia mi guardò con espressione seria e disse, facendo qualche passo verso di me:
- Venga, è l’ultima tenda in fondo.
La seguii ancora, sperando che il mio cuore non accelerasse ancora il suo ritmo disordinato.
Luca era sdraiato su una barella e parlava tranquillamente con un medico: aveva una spalla immobilizzata e i capelli in disordine, non sembrava ferito gravemente. Per un attimo fui combattuto tra l’istinto di correre ad abbracciarlo e il desiderio di prenderlo a pugni per la paura che avevo provato fino a un minuto prima. Lo raggiunsi.
Prima di sedermi accanto a lui mi voltai per cercare Silvia. Era sparita, non l’avevo neppure ringraziata per il suo aiuto. In realtà non sapevo neanche che si chiamasse Silvia.
- Chi cerchi?
mi chiese Luca.
- La donna che mi ha accompagnato fin qui, credo sia una dottoressa.
- Se ne è andata subito.
Non pensai più a lei. La vita ritornò a correre.
E poi.
Un paio di mesi dopo osservavo pigramente il cielo sdraiato nel pozzetto della barca da pesca di un amico chirurgo: mi ero lasciato convincere da Nadia a raggiungerla a Santa Margherita per un fine settimana marino. La mia storia con lei stava finendo, ma la pigrizia che ha sempre contraddistinto le mie decisioni in materia sentimentale faceva sì che continuassi a vederla e a simulare un discreto interesse nei suoi confronti. Oltretutto era molto bella e mi piaceva che mi accompagnasse alle cene con i colleghi dell’azienda.
Quel sabato la osservavo con gli occhi socchiusi apprezzando il suo corpo in bikini e ricordando la notte trascorsa con lei nell’appartamento a San Michele di Pagana, mentre Alberto, il mio amico chirurgo, chiacchierava con i gestori del pontile discutendo di livelli dell’olio nel timone.
- Dormi?
La voce di Nadia mi riscosse dal beato torpore in cui ero caduto. Scossi la testa.
- No. Mi dedico al relax. Quando salpiamo?
Alberto si spostò a prua e controllò una cima.
- Tra poco arriva una mia amica e possiamo uscire.
Nadia non seppe trattenere la curiosità.
- Che tipo di amica?
Riuscii a sentire la risata del mio amico.
- Non il tipo che pensi tu. E’ una collega molto simpatica, ma decisamente lontana dalle mie preferenze in fatto di donne.
- Che cosa intendi?
Mi alzai e andai ad aiutarlo.
- E’ una donna molto libera. Intelligente, indipendente. Non vuole avere legami. Io sono un po’ più tradizionalista, lo sai.
- E’ la donna per me, quindi…
sussurrai ad Alberto sperando che Nadia non sentisse. Lui annuì e controllò subito che lei non lo avesse notato da poppa.
Una voce allegra ci distrasse.
- Ciao Alberto! Eccomi qui! Ho fatto tardi?
Strinsi le palpebre per focalizzare l’immagine della donna che, senza accettare l’aiuto che il ragazzo fermo sul pontile le aveva offerto, stava saltando agilmente sulla barca con una grande borsa di tela rossa su una spalla. Non fui sicuro di riconoscerla subito, tuttavia il sorriso che mostrò appena recuperò l’equilibrio riuscì a togliermi ogni dubbio. Era Silvia.
- Silvia, questo è Carlo. Carlo, la mia collega Silvia.
Strinsi la sua mano pensando che lo stretto abito prendisole le donasse molto. Lei non mi riconobbe. Nadia la salutò squadrandola dal suo mezzo metro di superiorità in altezza: sicuramente aveva notato quei tre o quattro chili di troppo che avevano attirato la mia attenzione in ospedale, e segretamente ne gioiva ammirando la propria figura snella nel riflesso dell’acqua.
Non amo raccontare i dettagli dei giorni felici: nel ricordo assumono contorni malinconici che tolgono i colori e il significato alle sensazioni. C'è una parte di noi che non esiste più, e il senso della perdita è intollerabile. E' sufficiente dire che quando ritornammo in porto Nadia andò a San Michele da sola e io accompagnai Silvia a San Rocco di Camogli, dove ci rinchiudemmo in un piccolo monolocale fino al lunedì mattina successivo. Ci nutrimmo di gallette del marinaio e pomodoro nelle poche pause concesse dalla nuova e reciproca passione.
La frequentai per mesi, prima due o tre volte a settimana poi ogni notte a casa mia, attendendo il suo arrivo senza riuscire a concentrare l’attenzione su altro che non fosse l’orologio appeso alla parete della camera da letto. I secondi trascorreva troppo lenti quando la aspettavo senza mangiare, senza accendere la televisione, senza telefonare a un amico per distrarmi, ma correvano a precipizio appena la stringevo tra le braccia.
Silvia diventò rapidamente ciò che tutte le altre donne non erano riuscite a essere: anche adesso che i suoi contorni fanno parte del passato ho la sensazione di avere perso l’unica persona in grado di stare nella mia vita occupando uno spazio non importuno. Qualche giorno dopo il nostro incontro a Santa Margherita disse che non si sarebbe mai fidanzata con me e non avrebbe accettato di rendere la nostra storia un legame vero: accettai tutto, pensando che i suoi desideri fossero anche i miei. Mi sentivo attratto dal suo corpo, dal sorriso che le illuminava gli occhi, dalla sensualità che non riusciva a trattenere quando il desiderio la spingeva verso di me con urgenza. Mi inorgogliva pensare che una donna gelosa della propria intimità e fiera della propria solitudine dedicasse a me le sue energie più segrete.
Credo di averla amata.
Non ricordo esattamente quando arrivò il primo errore: sono sicuro però che a un certo punto i suoi occhi diventarono incerti, la passione più trattenuta. Disse di avere qualche impegno in ospedale e non venne più a trovarmi ogni notte. La inseguii, pensando che frequentasse un altro uomo. Andai a cercarla in reparto, in ambulatorio, al pronto soccorso. Le telefonai a casa e al lavoro. La attesi una notte intera sotto il suo appartamento, arrabbiandomi nel vederla rientrare al mattino.
Quando venne a casa mia per l’ultima volta fece l’amore senza parlare e chiuse gli occhi quando raggiunsi il piacere dentro di lei.
Si rivestì lentamente, mi guardò e chiese:
- Carlo, che cosa vuoi da me?
La mia risposta uscì da un luogo che ancora oggi non so ritrovare.
- Voglio che tu venga a vivere con me.
Chinò la testa.
Si voltò con un sospiro.
Uscì dalla porta di casa e io rimasi fermo a guardarla.
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