racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
Fa un po' impressione. Sto cercando frasi adatte e non le trovo. Questo blog è la storia del mio rapporto con i lettori, è stato l'inizio della parte della mia scrittura condivisa con la gente. Mi ha portato i primi contatti con gli editori e relazioni umane che vanno oltre e al di là dei libri. E' più di uno spazio, più di un giornale online: è luogo di scambio, scoperta e discussione continua. E adesso trasloca. Nella rivoluzione dei quarant'anni e della vita, metto in valigia quattro cose e parto.
Da oggi, niente più post in questo blog: con i miei racconti, con i pezzi di parole e i libri, e le fotografie, vado nel nuovo sito internet. Proseguo il cammino là, questo è l'indirizzo:
Vi aspetto nel sito internet, quindi, basta fare click e memorizzare quell'indirizzo: pubblicherò là, nella sezione blog, tutto ciò che di nuovo mi verrà da scrivere, e potrete lasciare commenti esattamente come avete fatto qui.
Ci sono storie banali da raccontare piano, con la voce che fa fatica a trovare il tono e scivola sul respiro casuale di chi ascolta. Ho letto da qualche parte (nel blog di una scrittrice, credo) che la scrittura non ha motivo, esiste per se stessa e non trova spiegazione. Non so, lascio che siano altri a pensarlo, a me manca il tempo per badare alla filosofia da due soldi. Sapete, se la salute tentenna si impara a rendere relativo il frutto del tormento della fantasia e a badare al concreto. Perfino quando si è scrittori. Ho capito che la vita va rincorsa, e la bellezza afferrata ogni volta che si può. Ho fretta di godere, assaggiare, riempirmi della passione che, rara, capita sulla mia strada. Ho l'ansia di cancellare alcuni errori incuneati nel mio passato. Soprattutto, ho scoperto che no, non rifarei tutto esattamente uguale: lascerei perdere cose e persone, scelte e incontri causali. Altri invece li terrei stretti, come gemme profumate sugli alberi in primavera. La scrittura, insomma, e vado a raccontare.
Ferma, osserva lo schermo e le parole che si sciolgono dalle sue dita ticchettando la tastiera. Ha deciso di scrivere perché vuole ritornare dentro il mondo che si è costruita perché le dia l'essenza e la protegga, deve sputare, fermare il tempo e tirare fuori. Qualcosa. Molto oppure niente, non è sicura. Ma scrive, e sa dove ha voglia di arrivare.
"Ha dentro un esercito di autoanticorpi, sa cosa sono?". Il medico massiccio e famoso dalla parlata toscana le balza nel cervello con l'aggressività che ama. Non è gentile, e lei non vuole che lo sia: le dice cose che le sono necessarie per sopravvivere, evita di caricarla di farmaci che tanto rifiuterebbe di prendere. La ferma quando la strada è troppo sbagliata. Insomma, le piace. Ha annuito, quando le ha chiesto se conoscesse gli autoanticorpi: si era preparata prima, aveva capito che sono anticorpi come gli altri ma rivolti verso il suo corpo, piccolissime e infinitesimali parti di lei scatenate per distruggerla. "Bene, se lo sa allora le è chiaro che questi autoanticorpi possono fare molto male. Perde le gravidanze perché loro bloccano e uccidono il feto, più o meno, e fanno anche altro: per questo ha la malattia alla tiroide, infatti la tiroide non funziona, ha i dolori articolari e...". Ha aspettato senza intervenire, con il luminare toscano non osa aprire bocca. Sorride quando le chiede dei suoi libri, ma lascia che sia lui il più forte, deve esserlo per farla stare bene. "... e possono capitare altre cose perché la malattia è complessa. Ha una malattia autoimmune complessa che può colpire diversi organi, la secchezza dei suoi occhi e delle labbra è evidente". La secchezza degli occhi, della pelle, delle labbra: inchiodata al lettino, seduta nuda davanti a lui, ha pensato alle tonnellate di crema e ai litri di acqua, alle battute delle amiche inconsapevoli sui soldi che spende per idratarsi. Perché da sola non ce la fa. E' andata a leggere qualcosa sulla malattia che prosciuga, quella che gli autoanticorpi scatenano se gira loro di fare così: ha deciso di morire, se succede, se diventa completa, e non pensarci più. Morire o nascondersi, e forse è lo stesso. Il professore ha continuato a parlare. Ha spiegato cose, la memoria ne ha archiviate alcune nei riposti meandri dell'oblio. Sa che erano dolorose, non sa altro. Altre invece sono rimaste in superficie, e una su tutte è chiara: "Deve vivere tranquilla, se uno stress scatena gli autoanticorpi le succede di ricadere nelle malattie che sa, o in malattie nuove". Ha capito. Conosce il problema. Si è svegliata nelle mattine nere con una mascherina rossa a chiazze che accavallava il naso, ha finto di credere che fosse il calore del cuscino. Ma no, che non lo era, la farfalla spiaccicata sulla pelle era là e la guardava, il computer sputava verità e lo stomaco digeriva dolci a raffica per dimenticare. Lupus, il lupo. E ancora. Autoanticorpi, bombe rivolte contro di lei e da lei stessa prodotte. Le è capitato di fermarsi nel centro di una delle città che immagina sue, con un dolore lancinante a impedirle il cammino, le è successo di chiedersi "E adesso come faccio?". Colpi a caso, raffiche sparate a altezza d'uomo, senza segni premonitori.
Colpi a caso, e me li sparo addosso da sola.
"Si ricordi, deve essere egoista. Se permette allo stress di diventare eccessivo scatena la malattia, e non si sa dove gli autoanticorpi colpiscano. Non lo posso sapere a priori, ma i danni a volte sono gravi. E non è solo questo, la malattia va tenuta in silenzio per altre ragioni, altri rischi più o meno connessi. Tumore al seno, e all'utero, si controlli, può succedere". Un anno dopo, è capitato un anno dopo, metà profezia quasi avverata. Con gli occhi spalancati e il fiato a mezzo, ha preso la penna e macinato parole, ha visto manoscritti e copertine e sì e no da editori. Ha infilato le testa nel bozzolo quieto della scrittura, con le parole del luminare toscano a martellarle la mente. "Calma, deve essere egoista e buttare via i problemi. Lei scrive, no? Si nasconda là". E si è nascosta, ha pensato a quando da bambina si tagliava con il bisturi, poi al dopo, a quando mangiava tanto da morire. Contro di sè, sempre contro se stessa. Come gli autoanticorpi che si scatenano se lo stress le disarticola la vita.
Controllo con gli esami del sangue se i proiettili che mi sparo contro dormono o sono scatenati per uccidermi.
Scrive. Ha un mondo di silenzio e uno di emozione. Spacca il sorriso e cerca il corpo dell'uomo che la perde di piacere. E' felice, a volte. Ma le mani, quelle devono ritornare. Spesso. Sempre. Al silenzio denso della scrittura che le dà l'essenza.
Scrive, il sorriso stampato a metà sul volto. E' stata una giornata di emozione, i suoi autoanticorpi dormono di certo. Però. La domanda. "Cosa è la scrittura per te, perché è così importante?". Ha risposto che la scrittura l'ha salvata, ma non ha detto da cosa. E non lo dirà. Si limiterà a lasciare sospese le frasi, tanto non importa. Fissa lo schermo e ci si ferma, tiene le mani sulla tastiera nella solitudine di silenzio che ha voluto. E' questo bozzolo di serenità densa che la solleva dal corpo e dai suoi dolori a rendere la scrittura così importante, funziona meglio delle bustine di antidolorifico che butta giù senza l'acqua, sciogliendole sotto la lingua.
E chissà cosa sia per te, la mia scrittura, amico mio. Intanto, io ho deciso di smettere di spararmi addosso e mirare altrove.
Lasciare andare le mani, è questo il senso. Abbandonarsi alla scrittura e decollare, lasciando indietro ciò che non ha relazione. Ciò che non è, in effetti, perché l'altro dalla scrittura non ha consistenza, la assume negli spazi liberi, nei vuoti silenziosi che altrimenti rischierebbero di implodere nel buco nero dell'inedia. Scrittura oppure niente, e il niente da riempire. Ho ascoltato brani a decine: lunghi, brevi, con l'audio storto oppure gestiti da professionisti della comunicazione. Scrittori a me simili e da me distanti hanno spiegato cosa sia per loro la scrittura. Li ho sentiti e decifrati nelle lingue diverse che sono riuscita a possedere, ho interiorizzato e paragonato a me personalità opposte e scritture aliene. Oppure aspirazioni comuni come quella casa nella campagna francese che avrei voluto insieme alla quiete, e ai libri, e al sorriso pacato e radioso di tortuosa consapevolezza. Di chi, sta a voi scoprirlo: la Rete è piena di bellissime interviste che spero non vorrete perdere.
Cosa è la scrittura, ecco la domanda che non può mancare: arriva a ogni incontro con i lettori, nelle interviste, nei discorsi da bar (non vado al bar, ma lo immagino) o con gli amici al ristorante. Qualcuno non chiede, tenta di ipotizzare poi si corregge nell'esitazione imbarazzata inevitabile del mio sguardo stentoreo: "La tua passione per la scrittura", "Il talento", "L'hobby", "Il bisogno". Non c'è bisogno che dica che passione e hobby ricevono sputi metaforici che a stento evitano di concretizzarsi in gesti carnali; l'istinto, il bisogno e ogni altro azzardo si perdonano di più, ma sono "uno" e non centrano l'obiettivo. Uno, non la molteplicità frammentaria e condensata in mistero segreto che è per me. Bisognerebbe evitare di chiedere, oppure tacere sulle ipotesi. Cosa importa cosa sia la scrittura per me? Quale significato ha interpretare le mie mani che scivolano sulla tastiera o sui taccuini, la testa impastata a una storia, ossessionata da un finale che manca, tormentata dall'incipit che deve essere perfetto? Nessuno chiede a un usignolo perché canta. Forse perché l'usignolo non saprebbe rispondere, o riderebbe mascherando l'ilarità con un gorgheggio apparentemente stolido.
Cosa sia la scrittura per me è affare che non riguarda il mondo, e non riguarda me. Perché non me lo chiedo, esiste e basta. Sono la mia scrittura, qualunque cosa significhi. Mi vengono in mente le critiche, di solito mascherate da pseudonimi o anonimato (chissà poi perché), e le so, adesso, rinforzate dalle mie parole: "Sono la mia scrittura", evidenza becera per alcuni, sorprendente per altri, assoluta per me. Eppure, se ritorno con la memoria a mesi, anni fa capisco che la scrittura è metamorfosi plastica e incagliata nelle pieghe necessarie dell'anima: non direi adesso ciò che ho creato prima, non confido solo nell'istinto e nell'immediatezza delle frasi fluenti, credo alla tecnica e all'autocritica, non accetto che chiunque possa dirsi scrittore. Ho perso la democrazia e il buonismo, forse per effetto dell'età oppure perché ho visto pubblicare opere raccapriccianti che hanno occupato indegne uno spazio tolto ad altri. Lo spazio di un'uscita che avrebbe potuto cambiare la storia, e il modo di pensare, e il piacere di chi sa cosa significhi leggere. Leggere, a proposito. La connessione tra scrittura e lettura non vede d'accordo i più. Il talento è talento, si può scrivere senza leggere: non lo dico io, non mi sognerei di farlo. Credo al DNA che ci determina e, con le associazioni casuali delle basi azotate, decide se io sappia scrivere o no, quindi posso ammettere che si possa scrivere senza amare la lettura, ma la mia limitatezza di quarantenne arrivata dalla Brianza fatica a immaginare che si possa essere scrittori e non leggere le opere altrui. Che retorica, sono partita da A e non arrivo a Z. Sono arrivata al solito pistolotto sulla lettura, penso che a breve arriverò all'esortazione ai giovani e mi alzerò in piedi sulla sedia, caracollando sulle ruote che non stanno ferme. Perdonate voi che leggete, e chi si è fermato dopo le prime righe perché ha capito che non è un racconto lieve e nemmeno un'allusione erotica non ha il problema di riflettere e digrignare i denti.
Scrivere cambia la vita. La vita cambia lo scrivere. Parole e versi, facce sbattute nella telecamera ammiccanti e senza sorriso (avete notato che gli scrittori raramente sorridono? Me l'ha detto anche un bambino, un paio di anni fa, a un incontro con i lettori: non sono uno scrittore vero perché sorrido troppo), musichette di apertura e chiusura di clip che su YouTube vanno a mille. Ognuno di noi tenta, prima o poi, di produrre il proprio video in cui regala la scienza esatta sulla scrittura. Perché scrivo? Aspetta che te lo dico, stai fermo un istante che mi immortalo nel video o in questo blog e sputo fuori parole che potrai regalare agli amici o citare nelle diapositive sulla creatività. Già che ci sono, ti racconto perché Picasso dipingeva, o perché lo faceva Monet: pensa che bomba. Scopriamo l'essenza della creazione, l'essenza di ciò che è arte. Peccato che la creazione non si dica. La creazione è.
Le mani scivolano bestiali e fluide, la tastiera rende eterno il pensiero affastellato che tiro fuori per voi. Sto scrivendo, sto raccontando, sto facendo la stessa cosa senza l'ausilio del video: nella sequenza delle frasi viene fuori la scrittura, e cosa penso. Cosa sia la scrittura per me, questo vedete se vi concentrate e se avete avuto il coraggio di arrivare fino qui. Chissà quanti siete: mi piacerebbe proseguire a lungo, con ragionamenti che portano lontano, per il gusto torbido di trascinare con me i più motivati, gli annoiati o i pazzi. Non so se lo farò, il motore della scrittura in questi pezzi di non-narrativa, non-saggistica, non-qualcosa è imprevedibile. Si accende, parte e non si sa quando finisca il carburante. Scopro sillaba dopo sillaba di avere qualcosa da dire, si materializzano concetti discutibili o aleatori su uno sfondo bianco niveo sporcato da caratteri neri tozzi che, al termine, ridurrò a dimensione 14. Scrivere, questa bestia agognata e temuta, questo obbrobrio da criticare perché pericoloso, o stimare se ci solletica l'amore di noi. Tu che mi guardi, vuoi che racconti di te o taccia? Vivi nella paura che prima o poi mi scappi un'allusione oppure sogni di diventare il protagonista di una storia tutta sesso, forza e crudeltà? Scrivere: lo fanno tanti, troppi, e troppi si illudono che sia letteratura. Mi illudo, io? Taccio, ma non per pudore: semplicemente, non lo so. Non sono io a doverlo dire, non mi pongo il problema, non adesso e non qui. Me lo pongo, credetemi, in altre sedi con un tormento dentro grosso come la morte. Perché la responsabilità dei vostri occhi addosso pesa sulle spalle, è piacevole e tremenda. Non credete a chi dice che scrive per se stesso, ma poi pubblica: l'atto in sé, la scrittura è autoerotismo puro, anzi più dell'autoerotismo, è piacere impossibile da riprodurre in altro modo, ma l'intenzione nello scrittore è sempre parcellizzata e ricomposta in miliardi di immaginari. E l'immaginario dello scrivere solo per sè è improbabile. Dopo un po', si impara a intuire il guizzo, la natura, la qualità dell'istante: ci sono scritture che sono davvero per sè, nascono e si sviluppano in un certo modo, con un sentire peculiare, e scritture che da qualche parte andranno, e riempiranno pupille e mani tese per afferrare la carta e la copertina e l'inchiostro impresso. Si sa che i pezzi che escono avranno un bersaglio, un lettore o mille.
Di recente, voglio raccontarvi, uno scrittore amico ha suggerito alcune cose che mi hanno spinta a riflessioni oltre. E oltre. E oltre. La verità esce nitida dalla foschia e sembra tanto semplice da assomigliare all'ovvio, ma mi succede di avere bisogno di una mano altrui che tolga il velo. Insomma, si parlava di critiche e della definizione di "scrittrice bulimica", definizione che in fondo non può offendermi perché ho dichiarato in "Diario di melassa" di avere sofferto di binge eating disorder (altro che bulimia!). Chi mi chiama bulimica lo fa per alludere al quanto, cioé al numero di libri e racconti e pezzi sul blog, e l'accezione è negativa. Insomma, qualunque sia l'intenzione non ha importanza: c'è chi scrive stitico, cioé pochissimo e con fatica (avrei nomi di scrittori notissimo ed eccellenti), chi scrive normale (non mi vengono in mente nomi, o forse uno sì) e chi scrive bulimico. Come me. Accettare lo stato dell'essere è saggezza ma anche passività pericolosa, quindi la bulimia scriptoria mi ha chiesto la riflessione. Sono proprio sicura sicura sicura che niente si possa fare? Che sia giusto così? Sono certa di rinunciare a un periodo sabbatico che forse potrebbe rivelarmi pezzi che ancora mancano? Ho sconfitto il binge eating disorder perché era malattia, perché non concentrare lo sguardo sull'eccesso delle mani che corrono sul foglio o sulla tastiera? Lascio sospeso il dubbio, che non mi tormenta proprio per niente ma che, come tutti i dubbi essenziali, da qualche parte mi porterà.L'amico scrittore ha squarciato un velo, nei miei neuroni cala il silenzio della gratitudine e di una corazzata da quattro colpita e affondata, come nella battaglia navale che mi piaceva nelle ore di ginnastica o religione.
Poco prima di iniziare questo delirio ho salutato via email Gianluca Ferrara, il mio editore Creativa. Si parlava de "Le parole del buio", esaurito, e di una possibile ristampa. Oggi, proprio "Le parole del buio" è stato il regalo che, insieme alla mimosa, le donne di Novellara hanno ricevuto dal Comune. Che vita misteriosa, i libri, imprevedibile e stupenda. Oppure squallida e triste, potremmo dire, per alcuni. Viaggiano, si fermano e perdono il fiato, poi qualcosa, un canto leggero in fondo alla foresta, li tira fuori. E, come un vento allegro e dispettoso, pungono la faccia con energia nuova.
La scrittura, che mistero irrisolto, ameno per me, che arma pericolosa e stupida e micidiale, che sollievo e piacere e buiolucebuioluce. Che essenza indistinguibile dal mistero.
Il Comune di NOVELLARA ha sempre accolto la mia scrittura con l'entusiasmo e la disponibilità dei veri amici. L'amica Ebe Mirka Bonomi, che insieme a me ha incontrato più volte i lettori rendendo i reading indimenticabili grazie all'interpretazione unica, è presenza costante e stimatissima in questo blog.
Ringrazio con amore Ebe Mirka e il Comune di Novellara per l'amicizia e per questo grandissimo dono: l'8 marzo insieme alle mimose le donne di Novellara riceveranno dal Comune "Le parole del buio", il secondo romanzo che ho pubblicato con Creativa nel 2008.
Dovrei imparare dal gatto Camillo: quando ritorno a casa lo trovo in un sonno placido e innocente tra i cuscini del letto, sotto il copriletto che sembra perfetto, liscio e impeccabile come se non fosse stato spostato. Invece Camillo è sempre lì sotto che dorme: si infila languido e sinuoso tra il margine del copriletto e la testiera, scivola sotto e si nasconde. Per le dormite più immemori e placide che si conoscano. Camillo ha ragione: dovrebbero esistere momenti di scivolamento pigro e silenzioso sotto ripari perfetti che non lasciano impronta. Probabilmente i ripari esistono, il problema è che non tutti sanno vederli; se anche li vedono, rimandano indefinitamente l'istante in cui il ristoro si cerca e la figura si cela per qualche ora alla rapina altrui.
La notte scorsa, verso le due, ho ricevuto un sms. Il mio sonno è molto leggero, è bastato il piccolo pic pic per svegliarmi e darmi una strizzata di angoscia. Ho letto il messaggio e i pensieri sono partiti senza controllo. I miei pensieri partono spesso senza controllo, chi mi conosce lo sa. Comunque, ho messo il telefono di nuovo sul comodino, chiuso gli occhi e dedicato una riflessione lirica a chi non ha minimamente riflettuto sull'opportunità di scrivermi alle due di notte sottolineando un possibile motivo di preoccupazione. Dopo la riflessione ho cercato il sonno. Invano. Non avevo il copriletto sopra la testa, non avevo badato a procurarmelo e, cosa ancora peggiore, avevo lasciato il cellulare troppo vicino e troppo acceso. E' come quando dò retta alle persone che vanno dietro a pensieri neri: so che esistono persone così, so che inevitabilmente i loro discorsi finiscono in imbuti depressivi o ansiogeni, so anche che sono troppo sensibile per considerarmi immune dal contagio nevrotico, eppure non riesco a trattenere la curiosità di incontrarle quando me lo chiedono. Niente copriletto, anche lì, niente pisolo rilassante lontana dagli occhi della gente.
Ho acceso il computer con il respiro di Camillo sotto il copriletto, dopo una doccia fredda e un minuto di occhi chiusi e orecchie vuote. Giornata così. Così, proprio così. Non saprei che altro dire. Esistono argomenti che si possono spalmare in un blog e argomenti che dovrebbero (condizionale d'obbligo) restare nella mente, o nel cicaleccio bello di pochi. Insomma, lavorare nell'ambiente oncologico può portare giornate così, per tante ragioni: ciò che si vede, ciò che si soffre, ciò che si osserva increduli scuotendo la testa. O un misto di tutto, variamente shakerato. A volte capita di riflettere sulle priorità che cambiano all'improvviso di fronte alla malattia: come è vero, davanti agli occhi balena la fine possibile e la testa si ribalta, l'elenco di ciò che importa è stravolto in pochi attimi. Poi. La vita cammina, e non sempre la rivoluzione delle priorità resta quella dell'emergenza: si ricomincia ad arrabbiarsi per il banale, per le diatribe tra colleghi, per l'amante che non risponde a sms erotici, per piccoli grandi torti che immaginiamo di subire. Ci si arrabbia per il parere di un agente letterario, per esempio (un giorno pubblicherò un'analisi genetica degli agenti letterari: hanno proprio un DNA a parte), oppure si riesce a ridere per una critica perché di fronte si ha una donna di venticinque anni cui è stato diagnosticato un tumore e allora, lasciate che ve lo dica, dell'agente letterario non frega assolutamente niente. Come ondeggiano i nostri valori, come ci si sente forti o deboli, belli o brutti, vincenti o sfigati e in balia del vento! Forse andiamo a giorni, o, al massimo, a settimane: umore, ormoni, eventi, sensazioni, un ottimo polpettone di eccellenti motori spinti al massimo. Fino all'incoerenza. O alla mutevolezza, che incoerenza non è, solo accettazione del tempo che scorre e porta via.
Vi succede di sentirvi sbranati? Tagliati a pezzi slabbrati e dolorosi, abusati, rapiti, defraudati della dignità e del minimo spazio vitale? A me capita, e a niente valgono gli insegnamenti remoti delle suore: non sono felice a priori e grata per il cinguettio degli uccellini, ho imparato a ammettere in modo salutare che alcune cose no, proprio non mi piacciono. E non le accetto. Vedo tanto di più la bellezza dell'amore, vedo la gioia, vedo la fortuna quando c'è: vedo anche che ogni giorno, perfino quello che sarà ricordato come il peggiore, è sempre un'alchimia di bello e brutto. Poche cose apprendo nella retorica, ma una vale: la vita offre e toglie nello stesso momento, sempre. Mai tentare un bilancio, ma guardare con occhi puliti sì. E ammettere che insieme all'orrore c'è anche anche la luce, e viceversa.
Ho già detto che dovrei fare il predicatore. In un'altra vita ci penserò su. Ho visto lo spazio bianco nel blog e avuto voglia di scrivere, di parlarvi senza la metafora dei racconti rischiando di annoiare. Chi si annoia ha già smesso di leggere, quindi non mi preoccupo. Davanti ho la foto di mia nipote che mi augura buon compleanno: questo è bello. Nella testa ho una donna che oggi ha avuto un trauma terribile e non ho potuto fare altro che starle accanto: questo è brutto. Domani sarò con Nicoletta Carbone a radio24: questo è bello. Ho avuto l'ennesima discussione apparentemente utile ma di fatto complicata con un agente letterario: questo è brutto. Esistono persone che stimavo e mi hanno deluso, e anche persone false: questo è brutto. Ho intorno a me persone che mi amano, riamate: questo è molto bello. Ho in programma tante presentazioni di "Diario di melassa": questo è bello. Ho persone care in serissima difficoltà economica: questo è tanto brutto. Potrei andare avanti, e anche voi: sono sicura che abbiate seguito la mia cantilena e sostituito i miei piccoli dettagli con i vostri. La mia vita con la vostra. L'altalena del bello e brutto prosegue per tutti.
C'è una madre che oggi avrei voluto consolare o addormentare perché non sapesse e non vedesse, una donna cui voglio bene. C'è una figlia che ho visto diventare donna, con fiducia e energia mi ha accanto in un periodo difficile. Ma c'è anche la mia libertà, sapete? E la libertà adesso dice che per questa madre e questa figlia, e per il padre ovviamente, sono veramente incazzata. L'amore per loro e la sensazione che alcuni eventi siano contro natura mi fanno piangere e arrabbiare. Quando tolgo il camice e lascio la faccia di gomma della sicurezza appesa all'attaccapanni mi inferocisco per l'ingiustizia del caso e della malattia. Le suore non sarebbero d'accordo.
Ho voglia di un film vecchio, scontato e senza impegno, oppure di un copriletto impeccabile che mi nasconda la testa. C'è un nucleo di felicità inspiegabile che brucia dentro, non è coperto del tutto dal mutismo calato su di me appena entrata in casa. Ma come, un attimo fa ero arrabbiata e ora parlo di felicità? Sono arrabbiata e triste, lo sono tanto, eppure percepisco il soffio sottile di un'energia che posso chiamare vita e, senza capire il motivo, felicità. Attribuite l'insensatezza delle parole a un deperimento precoce dei miei neuroni o al tormento sconclusionato dell'artista, affari vostri e non miei. Io mi sono chiara, finalmente. Se dovessi raccontare a una ventenne il vantaggio dei quarant'anni in incipit che sto vivendo forse direi che ci metto meno tempo a eliminare la zavorra e vedo una strada per affrontare anche i problemi più grossi (magari la immagino, magari non è reale, ma la vedo, e mi ci aggrappo). Chissà.
sarò in diretta con Nicoletta Carbone a "Essere e Benessere", su RADIO24.
Parleremo di "Diario di melassa" e di cibo: quale rapporto abbiamo con il cibo? Cosa rappresenta per noi? Potete proporre argomenti e riflessioni in tema inviando un messaggio email a [email protected], oppure lasciando commenti nella pagina Facebook dell'evento.
Un'altra notizia per me bellissima è che Sara Caminati e Innovation Marketing hanno creato per me un sito totalmente rinnovato. Li ringrazio di cuore e vi invito a vedere:
L'azzurro offende. Se non fosse velato da pochissima ovatta di nuvole appena accennate sarebbe difficile da guardare. L'aria che entra dai vetri aperti sul patio e, più giù, sul mare, rimbalza e avvolge il suo corpo nudo un po' chino. E' in piedi, il braccio destro appoggiato al muro di intonaco fresco: sente lo spessore massiccio della casa, la carezza della pietra levigata e resa candida da strati e strati di pennello. Dietro le tenda, resta in piedi e guarda fuori. Sente il respiro di Paola dietro di sè, con un vago odore di sesso misto al profumo che usa da anni. Sempre lo stesso.
- A cosa pensi?
Tuffa gli occhi nel mare. Non sa se sia più fermo del cielo, sembra così dall'altura dove è stata costruita la casa. Ogni tanto una barca si ricorda di passare e muovere le onde, e raramente si vede l'aliscafo che però fa un giro più largo e non ce la fa a farsi sentire. Cielo e mare hanno un confine che bacia e si interseca, sono uno dentro l'altro come era lei con Paola, pochi minuti prima. Adesso si affrontano con un azzurro che diventa verde in basso, ma non si capisce dove, e lei e Paola si affrontano stanche e rilassate una davanti all'altra: Paola è nel letto, pigra e coperta a malapena dal lenzuolo stropicciato, i capelli scuri impiastricciati dalle sue mani e dal cuscino che ha raccolto da terra e piegato dietro la nuca, lei invece osserva cielo e mare e si chiede banale e retorica dove finisca e uno e inizi l'altro. O forse si chiede altro, non lo sa.
- Giulia.
Sente la voce, ancora. Eppure il rumore delle onde, assente e solo immaginato, vorrebbe che andasse dietro ad altro e non a discorsi che in questo momento non ha voglia di fare.
- Giulia, mi ascolti?
"Sì". Pensa di risponderle, la sente forte e chiara, ma è lenta. Ha il suo sapore, la sua pelle morbida in mano, gli abbracci desiderati per giorni e sciolti nei primi minuti, nelle prime ore del loro incontro all'isola, i sussurri e i gemiti ancora addosso. Non avrebbero bisogno di parlare, non ha senso. Il sesso è compiuto in sé, come l'amore. E' pasta densa che si modella tra le dita, riempie ogni piccolo e nascosto anfratto e non chiede parole. L'ha vista arrivare alta e piena, snella dove le piace e rotonda, soffice da esplodere sotto la camicetta nera aperta e scollata dove ha subito immerso il desiderio. Le ha sorriso, ha allungato le mani per toccarla. Le succede così: deve toccarla subito, sentirne la consistenza e il calore, immaginare i momenti in cui affonderà le labbra e i denti e la lingua e la sentirà gridare. L'ha lasciata avvicinare e le ha detto che ha sentito la sua mancanza, ha accolto i suoi ti amo socchiudendo le palpebre perché non si perdessero subito, troppo in fretta. Poi l'ha portata in casa, ha accostato le tende lasciando le finestre aperte e l'ha spogliata, respirando il profumo solito e il velo di sudore che le copriva la pelle.
- Giulia!
Le spalle si riscuotono, le tira un po' su. Sospira.
- Sì.
- A cosa pensi? Sei ancora qui?
- Certo che sono qui, dove vuoi che sia?
- Altrove. Sto cercando di attirare la tua attenzione. Invano.
Ride.
- L'hai avuta tutta, la mia attenzione. Ero concentratissima su di te, non ti sei accorta?
- Scema, non quella. L'attenzione della testa.
L'attenzione della testa. Come se le testa fosse staccata dal corpo che gode e la fa godere, o dai sentimenti che la trascinano a cercarla con un bisogno che assomiglia alla sete, a un'apnea indomabile e disperata. Ragionamento da donna, vorrebbe dirglielo. Non riesce proprio a capire che la testa è là, con lei, anche se sembra avvolta nell'oblio del muro fresco contro il braccio destro e della tenda che svolazza mimando l'allegria contro il cielo e il mare che si possiedono intersecandosi di azzurro e verde, con qualche stria bianca dove le nuvole sono pietose. La testa, enfasi razionale che significa niente. C'è la testa quando la bacia, c'è quando pensa a lei e ha voglia di incontrarla, c'è quando sa di amarla tanto da perdersi. Ma Paola è donna più di lei, è una femmina vera, e non può accettare l'assenza di parole, il silenzio dopo la fatica erotica di prendere l'essenza di lei.
- La testa è qui, amore. Hai visto che meraviglia. Abbiamo avuto fortuna con questa casa.
- Lo so. Toglie il fiato.
- Potremmo abitare qui.
La sente muoversi, è in imbarazzo.
- Giulia, non so. Siamo, abbiamo.
La ferma con il gesto di una mano, non si volta a guardarla.
- Stavo scherzando. In un'altra vita, abbiamo detto. Non preoccuparti. E' che l'isola mi rapisce, non vorrei ripartire. L'ha fatto dal primo giorno, è diventata l'oggetto della scrittura e lo scenario della mia pace.
- Pace, tu? Non hai mai pace.
- Appunto. La trovo qui.
- Voglio che mi parli di Fausto.
Le si ferma il respiro. Paola fa così: lancia la bomba nel mezzo di un discorso molle che non fa paura. Colpisce a tradimento quando la vede con le difese annullate. Finge, simula e arriva dove vuole. Da settimane vuole parlare di Fausto, accenna e fugge, chiede di rimandare, ma ci ritorna con soffi caldi di pensiero e allusioni becere oppure ridanciane. Ha aspettato il momento, ha voluto scegliere. Prima si è lasciata prendere e ha preso, l'ha sfinita di piacere, poi ha scelto. E affondato la lama.
- Fausto? Oh no, dai.
- Perché no? Secondo me ti piace.
- Che scoperta. Sono stata io a dirti che mi piace. Non è una novità, può succedere. Anche tu...
- Ferma, non stiamo parlando di me. Io ho un compagno ed è l'unico uomo che accetto.
Ride.
- Come la Titti in amici miei?
- Cioé?
- Non ricordi? Ho cercato il pezzo su YouTube l'altro giorno. Mascetti pedina la Titti, la sua amante minorenne, perché è convinto che lo tradisca. La trova a letto con una donna, lei lo guarda e dice "Beh? Non ti avevo giurato che sei l'unico uomo della mia vita?". O una cosa del genere. Mi ricordi la Titti, ecco. Il tuo compagno è l'unico uomo della tua vita.
- Lo è. Non ne accetterei altri.
- Io voglio essere l'unica donna.
- Lo sei.
- Io l'unica donna, lui l'unico uomo. Hai un compagno, la cosa mi fa incazzare a morte, ma almeno è il solo uomo che ti tocca; hai un solo uomo, me lo ripeto ogni giorno.
- Tu no, invece.
La voce di Paola si è fatta acre. Punge e taglia la distanza tra loro, rallenta il ricordo molle dei corpi uno sull'altro, uno dentro l'altro, nell'amore circondato dalle pareti spesse e bianche.
- Io no. A volte non sono la Titti. Ma solo a volte.
- E c'è Fausto, adesso.
- Puntualizzo che c'è solo Fausto, solo lui. Che, tra l'altro, non esiste sul serio. C'è solo il pensiero saltuario di Fausto. E qualche sms, niente più di questo.
- Finirete a letto insieme.
- Non credo. Mi sembra un teorico. Tante parole se gli gira, troppo silenzio nel resto del tempo, niente concretezza. Anche piuttosto abusato.
- Cioé?
- Ma niente, lo sai. Un uomo di tante e nessuna, uno che gioca ma non ha il coraggio di saltare avanti. Di me, poi, ha un terrore evidente. Sarà la scrittura, oppure il fatto che si vede benissimo che le mie passioni sono violente e totali. Chissà, in fondo non importa. E' divertente, mi piace molto la sua intelligenza e mi piace che sia attento e presente, le poche volte che c'è, adoro parlare con lui e ascoltarlo. Lo adoro meno quando diventa banale nella sue fughe, era intrigante solo all'inizio quando evaporava nel niente, alla lunga i silenzi e le fughe diventano noia. Probabilmente ha altre quattro o cinque donne come me, lancia messaggi poi sparisce e si sottrae. Promette incontri che non vuole veramente. Non credo debba preoccuparti, secondo me quando vede i miei messaggi controlla due o tre volte il nome prima di rispondere, non vuole confondermi con le altre.
- Sei sempre così negativa con gli uomini. Non capisco perché ci vai a letto.
- Perché ogni tanto uno di loro mi piace, puoi farlo anche tu se vuoi.
La risata di Paola fa male. E' una specie di urlo che strazia la quiete del mare e la brezza piacevole che le raffredda il corpo nudo. I capezzoli si strizzano di orrore. Chiude gli occhi, beve il dolore che sente nei gorgheggi ironici e acuti così diversi dai gemiti rochi che suscita quando la tocca.
- Posso farlo anche io? Che stronza presuntuosa e cattiva! Ma se sei gelosa marcia! Possessiva e dispotica, ossessionata dall'idea di avermi solo per te.
E' vero, sa che è vero. Non sopporta l'idea che altre mani la tocchino. Non tollera l'immagine del piacere di Paola addosso ad altri.
- Forse sono così. Non mi pare ti dispiaccia.
- No, sono anni che non mi dispiace. Sono solo tua. Sei una droga, una strega affascinante ed erotica, sai amare come nessuno e dannare di tormento. Sei antipatica da fare vomitare, sgradevole e noiosissima quando soffri, meravigliosa da avere nella vita. Scrivi e mi fai reinnamorare ogni volta, fai l'amore e mi confondi. Come si fa anche solo a pensare ad altri? Sono tua!
- E di Luca.
- Luca è il mio compagno. E' un'altra cosa. Non barare. Abbiamo un'immagine e un ruolo, sai cosa succede se si scopre che...
- Che ci amiamo?
- Nessuno parla di amore se il sesso delle due persone è il medesimo. Più facilmente è perversione, lo sai? Sei poi sono due donne è la fine.
- Me ne frego.
- Tu, io no. Comunque non ritorniamo su questo. Fausto.
- Ecco, Fausto. Oh, che noia, Paola.
- Che noia. Mi tradisci!
- Non ti tradisco affatto. Non ci sono mai andata a letto.
- Ci andrai, e comunque non serve andarci a letto. Ci pensi, si vede.
Batte lo stipite della finestra con un dito, cerca un rumore qualsiasi per sfogare il nervosismo. Non le piace che si mettano in luce i suoi percorsi tortuosi nell'incoerenza, non è utile farlo e non trova il senso. Comunque Paola ha ragione, ci pensa. Pensa a Fausto e si diverte con lui, in qualche momento raro che non confesserà ha creduto di avere incontrato un uomo che vale la pena aspettare. Perché sono mesi che aspetta: si arrabbia, si lascia convincere, si allontana e ritorna, si infiamma di gelosia feroce per le donne che intuisce nella sua vita. E aspetta, per un sottile intuito nascosto o per l'illusione che lo sguardo intelligente e disponibile sia vero. Più vero di altri che in passato l'hanno portata su strade sterili senza importanza. Fausto le piace, è piacevole pensare che potrebbe innamorarsi di lui senza farsi male: non vuole ribaltare la vita, ma un complice come lui sarebbe un compagno di viaggio piacevole. Se solo non fuggisse sottraendosi ogni volta che tenta di credergli. Non può dirlo a Paola, non capirebbe. E' donna, troppo donna per accettare di essere diversa da Fausto. Sono anni che nessuno la mette in discussione, anni in cui è rimasta salda e assoluta come l'amore. Anzi, come il contrario dell'amore, che non è mai saldo e assoluto. Eppure, Paola è amore e non c'è uomo che potrà cambiare le cose: il suo corpo, il corpo di Paola, è il desiderio della testa e dei sensi, degli ormoni che sono nati così e non hanno intenzione di cambiare. Per Paola potrebbe uccidere, con lei è dispotica (lo sa) e possessiva, e gelosa da non sapersi controllare. E' altro, molto altro rispetto a Fausto e a chi l'ha preceduto. Ma non potrà capire. Capirebbe Fausto, forse, se lo sapesse: è uomo, sa cosa significhi dividere i sentimenti in scomparti che non si toccano, non si incrociano, non interferiscono tra loro. Chissà, però. Il segreto di Paola deve restare un segreto perché le reazioni degli uomini sono imprevedibili: capacissimi di sentirsi inferiori a una donna, di andare in ansia da prestazione a letto con l'idea che una donna sappia fare meglio. E di più.
- Giulia, cazzo, mi rispondi?
La sente urlare.
- Scusa, amore, non ho sentito la domanda.
- Non ho fatto una domanda. Ho detto che pensi a Fausto. Si vede.
- Paola, è un uomo.
- Lo so, e lo odio.
- Fai male. E' l'uomo più simpatico e gentile che abbia conosciuto. Ti piacerebbe.
- Voglio ucciderlo.
- Sarebbe un omicidio sprecato, non è in conflitto con te. Tu sei tu, nessuno ti toglierà mai il posto che occupi nella mia vita.
- Che posto è?
- La mia compagna. Ti amo, Paola.
Il tempo si ferma, la rabbia di Paola cristallizza nello stupore. Ti amo, le ha detto così. Succede raramente, ha orrore delle parole che mimano la retorica dell'amore. Ma lo sente, questo amore. Ce l'ha sul serio. Ascolta il respiro di Paola, improvvisamente le viene voglia di lei. Ancora.
- Sei la compagna della mia vita.
"Potrei innamorarmi di Fausto se solo fosse presente, invece è solo un gioco. Sarebbe un amore divertente e discreto, un complice bellissimo. Ma non temere, amore, non c'entra con te. E non si avvicinerà mai". Completa la frase solo nella mente, non potrà dirle cosa pensa davvero di Fausto: la ferirebbe senza una ragione. E di dolori senza ragione è stanca da tanto, tanto tempo.
- Ho voglia di te, adesso.
La voce di Paola, calma e lenta, sussurra alla sue spalle.
- Sembri un uomo.
Sorride, china la testa prima di socchiudere le tende e raggiungere il suo corpo perfetto sotto il lenzuolo sottile stropicciato dai loro abbracci.
Lei e le altre bambine al seguito della sposa. Lei, con i capelli neri.
Nel vederla esclamavano: e questa cosa c’entra?
E lei schiva, come in colpa. Come a scusarsi.
Sì, in mezzo a quelle bambine tutte uguali e bionde. Con i capelli fini e la frangetta, e gli occhi azzurri. E saltellanti e garrule.
Lei era umbratile.
In seguito comprese che non voleva i capelli biondi, ma la loro frivolezza e la loro levità.
Ugualmente pianse e pianse al liceo a leggere Tonio Kroger.
“Ma il mio amore più profondo e più segreto va a coloro che sono biondi e hanno occhi azzurri, che sono chiari e viventi, ai felici, a coloro che sono amabili e usuali.”
Ancora adesso se qualcuno le si rivolge con bontà, crede non stia parlando con lei.
Imparò. Distinse le smorfie dalla sostanza.
Vide le parole. E vide che rimanevano tali.
Sì, perché spesso può sembrare che quelli che parlano le pensino le cose che dicono e che, quindi, le facciano.
Ma quasi mai i verba si fanno carne.
Rimangono lì, le parole, a lusingare e a sedurre.
E lei le lasciò lì. Sempre.
Proseguì.
Non ha mai confuso le storie sentimentali con l’amore.
E di quest’ultimo non sopporta quell’immagine romantica, un po’ infantile e un po’ mielosa.
Qualcuno dice: da alpha privativo, a-mor(t)e.
Sottrarre morte. Finché si può.
Che sia questa la chiave di tutto?
C’era un temporale quella notte. E loro in trasfusione diretta. Da braccio a braccio.
I tuoni spaccavano qualcosa dentro. I lampi erano viola e arancioni.
Ha provato tante altre volte quel frastuono, quei tuoni e quella lacerazione.
Quel senso di irreparabilità. Abbagliante. Viola e arancione.
Cos’hai adesso?
Paura.
Ci sono io.
Sì, ci sei tu.
“Questo è il dolore della vita: che si può essere felici solo in due.”
Tu non puoi fermare il tempo.
Siamo un insieme di sostanze chimiche a contatto con agenti chimici. Io lo so.
E i sentimenti? Reazioni chimiche.
Produzione o diminuzione di endorfine, scatenamento di dopamina … serotonina … e che altro diavolo.
Eppure un giorno, quando mi ammalai, mi misi in testa di capire quando tutto fosse cominciato. La prima mutazione.
E se ero su una spiaggia, o se stavo mangiando la pizza …
Allora ho preso un treno. E sono andata sul luogo dove secondo me è cominciato tutto.
L’ho fatto una volta sola. Ma l’ho fatto.
(“ … ogni delirio ha le radici nella storia personale di quel solo individuo che lo dichiara.”)
E mentre ritornavo e correvo … Ehi, vuoi ancora essere bionda?
Non serve dire che scrivere erotismo mi piace, lo sapete. Probabilmente è anche superfluo raccontare che Giulio Perrone è tra gli editori del mio cuore: l'ho detto qua e là e l'ho dimostrato partecipando volentieri alle iniziative di questo editore. L'ultimo piacere che ho deciso di regalarmi è stato il racconto erotico "La sua presenza, fuori" nell'antologia "Danzando nel sapore dell'uva", in uscita oggi per Perrone LAB.
Sorride. Le parole scivolano pigre e non si possono afferrare. E' Flavio a crederlo: lancia battute e discorsi pesanti frullati in una miscela che crede impalpabile, sorride, bacia e va via. Parole, niente altro: crede che Lucia non afferri il senso, è convinto che, persa nella morbidezza languida delle sue labbra, non analizzi lucida il motore delle sue fughe. Lei invece le beve pezzo per pezzo e non le dimentica, ne affastella il significato segreto da mesi costruendo idee e certezza, scavando nel desiderio che lui finge o, qualche volta, riesce a provare. Nei giorni che scivolano come sabbia e diventano niente.
- Hai la malattia del cibo. Ma stai dimagrendo, dimagrisci da quando mi conosci.
A vent'anni avrebbe pianto, a quaranta ride. E scuote la testa tirando avanti. Non riesce a spiegare, sarebbe inutile. Conosce l'immagine che lo specchio le regala: è bella per tanti, meno bella per altri. Non è più grassa, ma non è - non sarà mai - una donna magra. E' questo che Flavio non ama. Più del carattere mutevole che lo fa sentire sulle montagne russe, più dell'aria saccente o troppo umile o depressiva o euforica. Più delle amanti che già ha e gli riempiono le ore. Lucia le ha osservate, queste donne: magre, tutte. Belle o brutte non importa, sono magre. Nessuna ha la morbidezza che ha lei. Le accompagna alla fermata dell'autobus e scherza con loro, le guarda al bar oppure chiede che lo accompagnino nei viaggi di lavoro (per fermarsi in un albergo, se capita), riceve telefonate e sms e si districa ridendo di loro (e con loro, si augura quando lo vede e prova pena per voci di donna che riesce a captare nell'aria rara di discorsi vuoti). Donne. Magre. Diverse da lei.
- Ma questo è banale!
Nella testa le proteste degli uomini che ha avuto, quelli che sono riusciti a sfiorarla sul serio. Immagina Giuliano: ama le sue forme rotonde e i seni pesanti che riempiono le mani. Contesterebbe l'idea, anche solo l'idea, che Flavio la rifiuti perché non è magra. La sensualità è altro, direbbe, e penserebbe al suo erotismo che esplode e toglie la memoria, ai gesti lenti da geisha e alla voce roca sussurrata, sommessa, alle mani che trattengono la schiena o la allontanano, alle labbra piccole che baciano ogni centimetro e si fermano e succhiano. Penserebbe, insomma. Ad altro, e altro ancora. Ma non al corpo che è parte ma non tutto.
Ma non è Flavio. Flavio lascia cadere parole che Lucia ha decifrato da tempo. Troppa carne intorno alle ossa, l'estetica dell'eros non stimola altro che baci perfetti. Lucia sa, ha visto. I frammenti di occhi e inerzia e frasi si sono infilati nelle orecchie e negli anfratti spessi di ragionamenti che non può fermare. Scherza con lui e non permette che arrivi nel fondo di lei: l'avrebbe voluto, le sarebbe piaciuto pensare a un amico complice capace di ridere e toccare e respirare zitto nel piacere di istanti segreti. Ma è troppo giovane per rassegnarsi al desiderio costretto, e troppo vecchia per credere ancora che si possa fare qualcosa per la leggerezza mancata di un amore morto.
Ci sono uomini che ti amano perché sei. Altri per lo spazio che occupi.
Imbarazzante. Non credevo l'avrei detto di lei. Si è alzata dal tavolo rotondo, ha sorriso alle due donne che sedevano con lei e si è voltata. Ho pensato che andasse in bagno, lì per lì non l'ho riconosciuta. Poi si è messa a camminare e il fare goffo e sensuale insieme mi ha aperto gli occhi. Improvvisamente, ho notato lo sguardo mobile e acuto, i capelli corti spettinati con un taglio costoso, la maglia infallibilmente scollata su un seno pesante che riempie le mani. Il seno, mi vergogno ma mi sono ricordato i capezzoli: le piaceva che li mordessi e torturassi, che mi ci attaccassi quando ero dentro di lei e conficcava le sue unghie nella mia schiena. E' andata avanti, due o tre passi credo, poi mi ha visto. Il sorriso di luce si è spento, lo sguardo si è perso nel vuoto verso un punto qualsiasi diverso da me.
- Hai visto chi è? Cosa fa qui?
Ha sussurrato Daniela, e ha messo la sua mano sulla mia ostentando il gesto e un sorriso che non sentiva. Per ribadire un possesso, credo, oppure per farlo vedere a Silvia. Per ricordarle che l'ho lasciata per lei. Detto tra noi, si sente inferiore e ha paura che la frequenti di nuovo per via del livello culturale così diverso: sbaglia ma non mi va di dirglielo, la paura fa bene e la tiene attaccata a me quando il mio umore gira e divento insopportabile o impotente.
- Quelle due donne. Le riconosci?
Non ho risposto, con Daniela non serve. Si fa andare bene tutto e non potrebbe capire, comunque. Ho riconosciuto le due donne, scrivono come Silvia, sono famose e molto intelligenti. Noiose come lei, per come le vedo. Eccessive, snob e rompiscatole come nessuno. Ho visto qualche intervista, ricordo di averle paragonate a lei. Sedevano allo stesso tavolo e parlavano, guardavano Silvia con l'adorazione tipica di chi la conosce e la prende come è. Perché con Silvia non esiste la mezza misura: la si ama oppure ci si perde di odio. Curioso destino, non può che suscitare adorazione oppure odio mortale. Insomma. Mi ha visto, ho visto lei. Il suo corpo più magro, senza dubbio più bello, l'espressione non più trentenne ma gradevole e erotica come la ricordavo, la camminata ondivaga come se non avesse equilibrio, e i tacchi che la slanciano ma non sa portare. Lei, Silvia. La donna che ho amato. E da qualche mese non mi ritorna in mente.
Che imbarazzo. Nei pochi metri che l'hanno trascinata al bagno ho capito che è aliena. Non assomiglia a Daniela, che è alta, magra, bionda, accondiscendente, pacata, capace di starmi accanto ogni giorno, silenziosa e poco problematica. E' bella, Daniela, molto più di Silvia. Bella.
Bella. E.
Strano, parlo della bellezza di Daniela e mi fermo. Come se non ci fosse granché da dire in più, solo che è bella. In fondo è la mia compagna, mi trovo molto meglio con lei che con Silvia. Mah, sicuramente è colpa dell'argomento: parlo di Silvia e non riesco a concentrarmi su Daniela, è fatale che accada. Ritorno a Silvia, e a quei passi stentorei a destra e sinistra, i chili in più (anche se è dimagrita e sta bene, non mi ricordo se l'ho detto), l'aria troppo pensierosa, troppo problematica, tremendamente noiosa. Non so come l'ho amata, ha travolto la mia vita in un fiume di emozioni orrende e parole, e gente che mi presentava o voleva presentarmi, e libri e manoscritti da guardare e criticare. Terribile. Eppure. La prima cosa che mi è venuta in mente è stato il sesso con lei, i capezzoli che voleva le torturassi e il resto, tutto il resto. La fame vorace e imbarazzante di piacere. Imbarazzante, appunto. Come lei. Non nego che mi piacesse averla alle cene e mostrarla alla gente più colta di me: era il mio lasciapassare, polarizzava l'attenzione come Daniela mai saprà fare, però quella personalità evidente ed esagerata è diventata un boomerang. Che fatica starle dietro, la odio retroattivamente se ci penso! In un film ho visto un vecchio intelligente abbandonato da una ragazzina stanca di vivere con un mostro di sapienza: ecco, mi sono sentito finalmente compreso. Nessuno ha il coraggio di ammettere che la gente come Silvia stanca, crea problemi, costringe a confrontarsi con se stessi, non ammette il concetto leggero di banalità quotidiana e ricchezza e scazzo. Si mostra superiore, ma chi dice che lo sia? Piccola stronza saputella sputasentenze. A proposito di scazzo, sapete cosa significa? Non credo, ma è una cosa positiva, l'ho scoperto da quando sono libero di fare quello che mi pare: mi sono lasciato crescere i capelli e li ho tinti di nero, indosso jeans e camicie stretti (anche io sono dimagrito: effetto dell'amore con Daniela, mi sento un altro uomo) e ho abbandonato le automobili noiose da padre per una fantastica Porsche su cui fatico un po' a salire (i sessanta si sentono) ma fila come il vento. Ho pensato a questo mentre Silvia trotterellava via, e l'ho trovata imbarazzante. Fuori posto. Una specie di invasione del mondo perfetto che ho finalmente riguadagnato dopo anni di compressione nelle vesti di padre e marito e uomo d'affari costretto alla serietà. Non voglio ritornare a quei tempi, son finiti. E Silvia, che mi voleva togliere ogni sogno. Come ho fatto a tenerla con me?
Che imbarazzo. L'ho visto all'improvviso, non credevo fosse seduto al tavolo grande con la gente che gridava e raccontava barzellette stupide, non l'avevo notato. Quando Claudia ha indicato il gruppo di persone e ci ha riso su non ho dedicato un istante a controllare chi fossero. Succede così, non mi interessa. Non giudico e non voglio essere giudicata, che non mi rompano le scatole. Così mi sono alzata per andare in bagno impreparata a vederlo, e probabilmente mi sarei salvata se Daniela (so che si chiama così, c'è sempre qualcuno intorno che prova l'insopprimibile bisogno di sfogare con me le proprie perplessità sulla loro storia, senza tenere conto della sovrumana indifferenza calata sull'argomento) non avesse mosso la mano per metterla sulla sua. Gesto stupido e tanto evidente da indicare chiaramente a chi fosse indirizzato. A me. La paura è brutta, tesoro, ho pensato, e avrei voluto ridere. Ero lì lì per ridere, lo confesso, senza trattenermi, ma poi gli occhi si sono aperti sul serio. Per una frazione di secondo ho dubitato, forse sperato, poi ho cercato di cancellare le immagini che si rincorrevano nel cervello. Volevo che restasse Carlo, quello per me vero, anche a costo di mangiare un po' di tenue e appassito dolore nel rivederlo: Carlo intelligente e dignitoso, curioso, intraprendente e geniale. Carlo che leggeva i miei libri e i manoscritti e li commentava a margine. Carlo che trascorreva notti ragionando con me. Carlo morto, ho dovuto dire. Perchè, per ritornare al momento, ho bevuto con le pupille attonite i capelli lunghi e tinti e il look da sessantenne in crisi di giovanilismo. La risata che avrei voluto sputare quando ho notato la mano di Daniela sulla sua si è seccata in gola. All'improvviso, ho pensato all'amore feroce, al desiderio fisico bestiale e perfetto, al dolore quando mi ha lasciato. Indossava, a quel tavolo, un paio di jeans e una camicia scura che aderiva al torace, e i capelli... Oh dio, i capelli! Ho sempre detto che rifiuto gli uomini che tingono i capelli e ho dovuto vedere - vedere, guardare, assimilare, capite? - che l'oggetto del mio passato amore e del mio desiderio fosse il fantoccio ricco e plastificato che sedeva a pochi metri da me. Ho risentito le battute cretine, le barzellette da poco, in un flash ho perfino realizzato di avere oltrepassato una Porsche parcheggiata con ostentazione davanti al ristorante. Niente contro la Porsche, chi se ne frega come spendi i tuoi soldi, ma come entri e esci da quel missile alla tua età? Con i dolori che hai e certo non sono passati, con l'età che ti ha sempre reso affascinante perché mostrata con stile. L'età sensuale e saggia, per me. Fino a quando ho il dono di ricordarlo normale. Ho un brivido cattivo e freddo al ricordo delle nostre notti, e la consapevolezza che per la prima volta l'indifferenza inevitabile del tempo che passa è diventata vergogna. Mi vergogno di vergognarmi di lui.
Imbarazzante. Sono andata in bagno e mi sono appoggiata alla porta chiusa alle mie spalle. Mi è ritornata in testa la luce dell'est, una canzone che quando mi amava ha voluto dedicarmi, e ho visto il buio. Ho capito dai suoi occhi che mi trovava brutta, stonata nel ristorante della cittadina dove è il ras, e non avrei potuto dire altro: con il senso agghiacciante dell'orrore, lo stesso valeva per me. Reciprocamente imbarazzanti, siamo solo questo adesso. Eppure, quando se n'è andato avrei immaginato ogni possibile finale, perfino l'amicizia. Ma l'imbarazzo, quello proprio no.
E' un bel guardare. Si affaccia alla finestra della cucina con i capelli biondi sciolti sulle spalle, si china avanti per fumare la sigaretta e soffiare il fumo lontano: i capelli scendono ai lati della fronte, si aprono in due tende perfette, sgranate di fili sottilissimi del colore dell'oro. Sembrano bianchi quando il sole è più forte, superano le spalle in due archi di seta morbida e scivolano, giocano con il volto immobile e le labbra che circondano il filtro della sigaretta. E lanciano volute di fumo bianco verso di me. Cieco. O meglio, è lei a non vedermi: sono come uno specchio cieco, appunto, ma la vedo perfettamente. La aspetto tutti i giorni, tanto ho niente da fare e il lavoro che cerco senza la voglia di trovarlo lascia il tempo per annoiarsi: tengo d'occhio i vetri e le persiane socchiuse, danno proprio sulla facciata giusta di casa sua. Quella con la finestra della cucina, dove la vedo camminare su e giù e affacciarsi per fumare.
Non so quando sia iniziata. Mi sembra di averla avuta in testa sempre, eppure deve esistere un giorno uno, la partenza di questa ossessione che non riesco a trasformare in parola. Di tutto, del suo corpo snello che vedo negli abiti stretti e corti che indossa in casa, i capelli sono il vero oggetto del mio sogno, dell'amore che vorrei urlare senza sosta fregandomene delle raccomandazione di chi mi vuole bene: non so come faccia ad averli tanto morbidi, ma quando cascano avanti e inondano lo sguardo, accarezzano soffici le spalle e incorniciano il viso nascondendone solo una parte vorrei sdraiarmi sul davanzale di quella finestra e bere la massa voluttuosa e piena fino a soffocarmi, aprire la bocca perché me la riempia e scenda in gola, e giù ancora, fino allo stomaco e nei visceri, per non perdere di lei neanche un atomo. Che magia, quei capelli! L'ho vista spesso camminare per strada: la seguo quando esce da sola, capisco subito se va a incontrare un uomo oppure no, riconosco il profumo più intrigante e sensuale e la gonna più corta, e il respiro rapido e leggermente ansioso se ha un appuntamento con qualcuno che le piace. Le vado dietro, tanto non mi nota, non alza la testa per salutare. Passo dopo passo, ascolto i tacchi sul selciato e fisso con gli occhiali da sole neri i capelli che dondolano sulla schiena, formano archi orizzontali e ricadono, imprigionati alla testa ma liberi di farmi dannare. Di impazzirmi di desiderio.
Desiderio. So che penserete che sono un maniaco. Non è così. Il mio corpo non può darle il piacere, non ha mai potuto raggiungere la profondità di una donna e prenderla, possederla per generare una vita. Nel tempo, mi sono abituato: non riuscire ad amare una donna è diventato normale, tanto da convincermi che l'amore possa esistere ugualmente, altrettanto appagante e lascivo e sensuale. Basta guardarlo con gli occhi giusti. No, ciò che voglio è l'odore dei suoi capelli, il sudore pulito e leggero che copre di minuscole gocce il suo corpo, l'alito di sigaretta quando segne il mozzicone contro la facciata della casa e lo butta giù, nella strada dove poca gente passa e ancora meno di ferma. E i capelli, oh come li voglio! Li vorrei stringere in mano, annodarli alle dita e giocare, poi scioglierli e sentirli vibrare della tensione istantanea che rammollisce subito, vorrei respirarli e inabissarmi in loro mentre la sento dormire, abbandonata al mio amore. Difficile da capire? Non credo: se fate fatica è perché non li avete visti, quei capelli dorati o bianchi che illudono con un bagliore diverso ogni mattina. Sono magia e sogno, verità e menzogna, dipinto e fotografia. Sono matasse di erotismo proibito che saprei districare con le mani, se solo avessi il coraggio di avvicinarmi.
Perché non riesco ad andarle vicino. La seguo, riesco a guadagnare qualche metro se è rilassata e non bada al tempo e agli appuntamenti: passeggia persa nei pensieri e non sa che le sono dietro, che annuso il suo odore e capisco dal profumo se è stata a letto con un uomo. Non vede che mi specchio con lei nelle vetrine dei negozi, non può immaginarlo. Perché faccio fatica anche io ad accettare di esistere. Cammino e la sfioro, non so aprire bocca per salutarla. Contemplo i suoi giorni, idolatro i suoi capelli, fantastico sul corpo che vorrei leccare mentre, ferma, ansima di piacere, ma non mi avvicino. E' la sua salvezza, forse, o la mia. Chissà che non sia la dannazione di entrambi. Fu Sonia la prima, quella che determinò tutto: aveva i capelli rossi in grossi ricci disordinati, li pettinava con orgoglio e me li faceva vedere tirandoli su con le mani.
- Ehi, stupido, viene a vedere? Ne vuoi una ciocca? Dì la verità, ti piaccio. Mi guardi e sbavi, perché non vieni qui? Conosci l'amore, stupido? L'hai mai fatto? Dai, che ti piaccio.
Rideva di me, con quei riccioli che riflettevano il sole e lo incendiavano. Il mio corpo sapeva di non poterla prendere, le mani volevano toccare le forme tonde e piene e i chili di troppo che amava ignorare, ma ricadevano morte lungo le cosce, con le dita a stuzzicare i pantaloni. E non mi muovevo.
- Eddai, mica ti mangio. Vieni qui, stupido!
Diceva così. Sapevo che sbagliava. Dentro di me ero sicuro che, se non si fosse fermata, prima o poi avrei disobbedito al medico e a mia madre e l'avrei raggiunta in casa sua. E lei non si rendeva conto: qualcuno ha detto così, dopo. Avrebbe dovuto fare come questa donna, la mia dea con i capelli biondi: ignorarmi, perché solo questa è la salvezza. Ma Sonia non mi ignorava: mi disprezzava e incitava, e se era sola si ostinava a chiamarmi perché entrassi in casa. Il resto lo sapete: sono entrato in casa sua appena prima della prigione e del manicomio, le ho tagliato i ricci ma non me li hanno lasciati tenere. Li ho chiusi con delicatezza in un foglio di giornale e ripiegati in tasca; me li hanno portati via nonostante fossero miei e mi accompagnassero nelle notti lunghe del sonno cupo dei farmaci e dei sogni tagliati male. Erano perfetti, scivolavano nelle mani come polvere: li ho lavati con cura due o tre volte, prima che qualcuno me li rubasse senza più restituirli. Dicono che l'ho uccisa, ma non me lo ricordo. A me importava solo la sua testa, gravida di enormi volute rosse che incendiavano il sole. Sonia, che donna. Peccato non averla rivista.
Ma il sole sfiora il bianco dorato della mia musa, adesso. Ha aperto la finestra e si è sporta per fumare. Questa mattina ha accennato un sorriso quando ci siamo incontrati nel vicolo per ritirare il latte.
- Buongiorno.
Ha detto, con la erre blesa. Fantastica, non immaginavo che parlasse così: la voce è roca, opaca, fa pensare al sesso. Ho avuto la tentazione di seguirla in casa, anche se non si è sognata di invitarmi. E i suoi capelli chiamavano, avreste dovuto sentirli: un canto di sirene a gesti lunghi e pigri, baluginavano l'illusione di un sonno carezzevole dei nostri corpi fusi insieme per l'eternità.
E' un bel guardare, l'ho confidato a padre Angelo, che mi ha chiesto di stare fermo e non parlare mai con la signora. Ha controllato che prendessi le pillole e facessi i colloquio con il medico nell'ambulatorio del venerdì. Ho promesso che starò buono, cosa mi costa promettere a un prete? Non penso che sappia cosa sia l'amore per quei capelli, l'odore leggero del profumo e del sudore e la certezza di seguirla quando incontra un uomo. Non sa, non può sapere. Che per una donna così si può morire.
Siamo ridicoli, è bene che tu lo sappia. Il peso della consapevolezza non deve ricadere solo sulle mie spalle: se si fa a metà non c'è sollievo, ma almeno non esiste il rischio teorico dell'ingiustizia. Equità, suvvia! Siamo ridicoli, sta tutto lì. Conosco il brivido subdolo del barlume di dubbio, e mi viene da ridere: sto contando a voce bassa i volti e i nomi che in questo momento, leggendo, indicano se stessi con un dito. "Parlerà con me?", anzi, chiedo scusa: "Parlerà di me?". Perché un certo gruppo di affezionati o saltuari lettori di questo blog cerca se stesso (o se stessa) nelle parole che vernicio ogni giorno, e non sempre c'è paura. Il paradosso della scrittura è che, in fondo, si desidera essere presenti. Il fascino irresistibile della menzione pubblica, con la mano di uno scrittore a cesellare identità che tanti scrutano. Perché anche nella critica o nella rabbia si è. Si è qualcosa per chi scrive, capite? Se uno scrittore si affanna a definirmi sbagliata, antipatica, piazzista di libri, becera e bulimica significa che mi pensa! Mi ha in testa! Creo invidia o faccio paura, o suscito rabbia fremente che è parente dell'amore. In un blog può anche essere esercizio da niente (per me non lo è: prendo seriamente il blog almeno quanto i libri che scrivo, ma non per tutti è così), ma se la dotta e malevola citazione si trova in un libro l'orgasmo è immediato. Almeno per me. Certo, la medesima regola si applica al mio scrivere. Oh, quanti mesi ho regalato a pensieri e gente inutili! Quante frasi e righe e paragrafi! Per niente! Dentro di me avevo la percezione esatta della forza storta di cui nutrivo persone che, poi, mi sono apparse nella loro verità. Cioé brutte.
A proposito di bruttezza. Questa sera, nelle vie fredde ma almeno non piovose di Padova, camminavo spavalda e, con il mezzo sorriso stampato sul trucco ibernato dalla passeggiata, pensavo. A cose varie, niente di drammaticamente importante: constatavo di essere serena. Appagata da una scelta leggera di assenza che è arrivata spontanea, come il silenzio che per ore ho desiderato senza ottenerlo e mi è nevicato addosso al termine della conferenza su creatività e dolore. Ho fatto pulizia senza troppo sforzo, mi rendevo conto che i movimenti erano più agili e liberi. "Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora", avrebbe detto il Sassaroli nella gigantesca e tragica opera d'arte di "Amici miei": i tre quarti d'ora sono trascorsi e il respiro è fresco e ampio. Insomma, non divaghiamo. Ero nelle vie di Padova e stavo bene come adesso. Ho incontrato un uomo che non conoscevo: fisicamente, nel buio, assomigliava a un altro che nel passato ho ricoperto di importanza eccessiva. Ho guardato la somiglianza falsata dalle tenebre e mi è venuto da ridere. L'altra faccia, quella del ricordo, mi è apparsa brutta. Ma brutta sul serio, per la prima volta. E mi è venuto da ridere. "Ma quanto eri brutto?", ho chiesto all'ombra spuntata fuori senza pathos né emozione, e ho accettato placidamente che lo stesso si dica di me, se si vuole. Niente di male nell'essere considerati brutti, in fondo. Se fossi amorfa mi seccherebbe, ma brutta può andare bene. A patto che si capisca che bruttezza e bellezza raramente sono universali, ma a rendere relativo l'eventuale concetto di mia bruttezza per fortuna esistono i cosiddetti rinforzi positivi, cioè i messaggi di chi mi ama e ritiene, senza mentire, che per lui/lei io sia bella. Sono certa che anche l'uomo che ho evocato nella notte padovana grazie a un volto visto di sfuggita sia meraviglioso per qualcuno, lo è stato anche per me in un tempo che adesso faccio fatica a mettere insieme in un sospiro.
Sospiri. Ne ho sentiti tanti oggi. L'incontro con l'università popolare su creatività e dolore ha portato emozione. Tanta emozione, anche a me. Ho superato la pigrizia della lettura pubblica e condiviso brani dalle memorie intime di Simenon, da libri di Tiziano Scarpa (ma sì, dai, fate il commentino e tirate avanti: la scrittura di Scarpa mi piace e lo dico fino alla vostra noia; il blog è mio e andrò avanti finché ne avrò voglia), "Diario di melassa", "Una storia ai delfini" (la prefazione di Veronesi) e "Le parole del buio", il diario di Virginia Woolf. E ancora, "Rendez-vous", "Niente di grave", "Ho il cancro e non ho l'abito adatto". Stuzzicando la mia fantasia (forse anche quella di altri presenti in sala, non saprei dirlo) con Hopper, Picasso nel suo periodo blu, Van Gogh e Munch. Abbiamo discusso di dolore e amore, e scrittura, e riflettuto sull'importanza drammatica dei saggi, i libri che possono creare una differenza nella cultura della gente. A proposito di cultura, sapete che cultura è vita? I dati statistici dicono che chi si ammala di tumore ha una probabilità maggiore di guarire se ha un livello culturale alto. Alt, fermi: ho detto livello culturale, NON economico! Significa che chi ha gli strumenti culturali per informarsi e scegliere criticamente le cure fa qualcosa di buono per sé.
Fare qualcosa di buono per sè. Non so voi, care amiche lettrici, ma questo compleanno che mi galoppa addosso crea riflessioni da "i miei primi quarant'anni". Non è che mi piaccia troppo, ma serve. Un assioma: le amiche che hanno vissuto i quaranta e oltre dicono che "adesso inizia il bello", e tutto sommato, se considero la luce e non le ombre che popolano la vita di ciascuno indipendentemente dall'età, posso crederci. Il bello dovrebbe essere un amore per sé finalmente scoperto e reso saldo. Anche nel mezzo di difficoltà e, talvolta, vere e proprie tragedie. Oppure in mezzo ai soliti problemucci di sesso e relazioni altalenanti o solo immaginate. L'amore di sè, fare qualcosa di buono per sè. Rinunciare, per esempio. Udite, udite! La Luini finalmente proclama qualche rinuncia! Temo di sì, ma non la rinuncia alla scrittura e neanche a relazioni e affetti che ritengo meravigliosi, e non rinuncio, sappiate, a qualche abitudine privata che mi rende ciò che sono. Rinuncio all'autolesionismo. A quella spinta orribile nata con me, più o meno, che ha fatto di tanti miei anni un cumulo di tortuose, complicatissime salite con poche radure e quasi nessuna tappa di vero e gratuito refrigerio. Ho sempre pagato tutto, chiunque mi conosca bene lo sa. Pago ogni singolo piacere a prezzo tremendamente alto, sono diventata una bestia feroce perché ho dovuto affrontare ogni genere di ostacolo occulto o palese per raggiungere quello che ho. Ma. In parte ho anche camminato a passi più pesanti perché io stessa appoggiavo alle caviglie una zavorra inutile. Ostinata e convinta della mia potenziale onnipotenza, ero la nemica più sottile di me stessa. Bene, questo non cambia con un compleanno, è già cambiato: la data del 21 febbraio sancirà solo il passaggio ufficiale. Come il capodanno appena trascorso: gli amici più intimi sanno che da mesi preparavo, lentamente, alcune espulsioni da celebrare nell'istante di passaggio tra il 31 dicembre e il primo gennaio 2010. Macinavo pensieri e altalenanti serenità, parlavo o tacevo, ma quelle espulsioni avevano un timer che, effettivamente, è scattato inesorabile e ha funzionato. Intorno a Saturno abbiamo qualche anello in più, ho spedito in orbita perenne persone che ormai erano solo dolore e ostacolo, e credetemi se dico che sono davvero uscite dal mio cuore nel rapido cambiare della data. Quindi. Niente svolte epocali, a meno che non siano preparate da un cammino paziente e lucido. Ciò che accade ora. Ho qualcosa da fare, ancora. Avrò sempre qualcosa da fare nella mia eternità. La tappa dei quarant'anni è fare qualcosa per me, abbandonare l'autolesionismo. E smettere di accettare situazioni da fumetto di serie zeta. Amen.
Oh, che peso questa Luini! Ma no dai, la realtà è luminosa e serena. Qualcuno ride leggendo "luminosa e serena", ma sbaglia: se la luce si accende in testa, o in un posto interno del corpo a vostra scelta, già molto è stato ottenuto.
Mi sento un predicatore americano. Alzate le mani e cantate con me. Nel tocco della pelle con la pelle la piccola scarica di adrenalina sarà sensuale, credetemi. Guardate i miei occhi, lo sguardo è per voi. Sensualità e affetto, perché penso a voi che leggete e non sempre mi siete noti. Quando vedo il numero di letture di questo blog mi emoziono, e quando qualcuno si ferma e mi tocca la spalla e sussurra "Lei è la scrittrice del blog, vero?" (come è accaduto martedì scorso) ho la nettissima sicurezza di amare. Amo gli occhi che leggono, le mani che commentano e quelle che invece restano ferme accanto alla tastiera del computer, amo chi fa finta di non leggermi e ritorna a dare un'occhiata simulando disinteresse, amo chi si chiede se la mia vita sia quella che si legge qui oppure sia completamente diversa, amo chi si manifesta e chi no. Amo chi ispira i miei racconti: suscita emozioni fortissime, lo dicevo qualche paragrafo sopra, e non solo la rabbia. C'è chi ispira racconti negativi, chi ispira erotismo, chi ispira o ha ispirato amore. O tutto questo insieme. C'è la mia amica Simona, parte di me, che si è chiesta perché non l'abbia mai nominata nei miei scritti: non capisci che sei in ognuna delle parole? Non capisci perché sono diventata ciò che sono anche in ambito medico? Credi davvero che sia stato solo per quel ricordo drammatico che abbiamo condiviso? Secondo te non ho temuto per altri, non ho pianto, sperato, tremato, pregato? Simona, sei qui adesso ma non serviva che ti menzionassi. La natura di noi è fusa nelle mie parole.
Uh, quanta roba. Raffiche di follie e aliti di niente. Cielo! E tutto è partito da cosa? Ah, certo. Dal fatto che siamo ridicoli. Parlo di te, vedi? So che hai letto fino in fondo, adesso sei fermo su queste sillabe che si rincorrono una a una. Nella tua testa hai costruito spiegazioni plausibili per la nostra ridicolaggine, e sono costretta a deluderti: non è così complicato. Siamo ridicoli come tanti altri: sono stata ridicola così con altre persone che, come te, mi sono piaciute molto. Abbiamo messo in atto l'unica forma di stupidità possibile per gente come noi. Non abbiamo avuto la lealtà e il coraggio di parlarci. Sottovalutando la reciproca intelligenza e, anche, sminuendoci un po'. Che peccato. E' come morire senza avere visto il mare.
La osserva in silenzio. Con la mano destra sfoglia un calendario da tavolo, afferra uno a uno con le dita i fogli bianco crema e li solleva, come se volesse spiare lo scorrere del tempo.
- Hai scritto qualcosa?
Scuote la testa.
- No. Il computer si è bloccato a metà di un racconto, non ha salvato niente. Ho perso ciò che stavo scrivendo, non c'è stato modo di recuperare.
Tace. Ha capito l'umore, il cambiamento improvviso e la testa ostinata e china sul calendario da tavolo.
Era sdraiato sul letto, nel pieno della rilettura di una storia da consegnare, con la nebbia fuori dalla finestra e il ticchettio di lei nello studio, a pochi metri. Una parte della testa la sentiva, ne percepiva la presenza oltre il muro: la sapeva quieta e concentrata nella scrittura. Poi il silenzio è diventato muto, la densità l'ha colpito. Si è accorto che da lei non arrivava più vita. Ha posato il computer portatile di lato, sopra il piumone bianco e il lenzuolo blu, si è alzato e l'ha raggiunta. L'ha trovata con gli occhi fissi su qualcosa che dalla porta non è riuscito a vedere, l'espressione chiusa e persa che ormai sa riconoscere.
- Gianna.
Ha lanciato il suo nome, certo che non avrebbe risposto.
- Gianna, cosa c'è?
Si è avvicinato, l'ha sfiorata con il corpo e le ha accarezzato la testa. I capelli morbidi e disordinati, profumati di shampoo e della crema al limone che lui usa per le mani, gli hanno accarezzato il palmo. Per un momento l'ha ricordata calda e sudata, un paio di ore prima: quando è dentro di lei il piacere è un mistero, sa penetrare una dimensione che altrimenti resta proibita, impossibile da indovinare. Era felice e appassionata, disinibita dalla voglia di averlo e dalla fissazione per le sue mani: le succhia e bacia e tiene strette quando fa l'amore, gli chiede di usarle ancora e ancora, come se fossero più importanti di tutto il resto. Più importanti dei baci e del sesso che guarda come se fosse nuovo, e ama da vicino fissandolo lenta, pigra. Ci pensa spesso quando è in viaggio da solo per gli spettacoli: pensa a lei che, abbandonata sulle sue gambe, accarezza il sesso e lo bacia, lo guarda e ci gioca. Lo sfiora a lungo, accompagna le mani con le labbra, con il respiro, con la pelle liscia e tenera del volto. E' un giocattolo, per lei, un oggetto d'amore unico che vuole solo per sé.
- Non so decidere tra lui e le mani.
Ha detto ridendo, e ha voluto entrambi. L'ha accontentata bevendo gli sguardi irrefrenabili misti a rantoli e respiri, ai morsi che, travolta, nemmeno sa di dare alle sue spalle forti e ancora un po' abbronzate.
Adesso, però. Adesso è fissa su un calendario da tavolo e non si muove. La mano sui capelli che la accarezza piano le ammorbidisce le rughe sottili accanto alle palpebre, la voce la riscalda.
- Perché guardi quel calendario?
- Non so, l'ho messo qui e non mi serve. Però mi ricorda che tra poco ho quarant'anni.
- Io li ho superati da un pezzo! E' un'età bellissima.
- Dite tutti la stessa cosa, mi sembra una nenia autoconsolatoria. Perché dovrebbe cambiare qualcosa? A me fa paura pensarci.
- Non è affatto una nenia autoconsolatoria, non dirmi che hai voglia di ritornare indietro.
- Proprio per niente. Anzi, sono felice di essere qui, adesso.
- Allora? Vedi che ho ragione? A quarant'anni e oltre sai chi sei e cosa vuoi. Eccetera, non ripetiamo ciò che abbiamo detto ieri sera a cena.
- Quaranta. Accidenti. Qua-ran-ta. Santo cielo.
Parla molle, emette suoni brevi e pacati, distanti. E' distratta da un pensiero che probabilmente non riconosce.
- Non dirmi che sei una di quelle che detestano invecchiare. Proprio tu! Ma dai, per favore.
- Le tue donne hanno tutte trentacinque anni.
- Non ho altre donne.
- Sì, le hai.
- No, non le ho. Ti fa comodo immaginare che le abbia perché puoi torturarti di gelosia, e torturare anche me. Ma non ho altre donne, non ti tradisco. Lo sai. Se sei onesta lo ammetti.
Il discorso è caduto nel niente. Ha continuato a fissare il calendario e sfogliare le pagine.
- Non hai scritto niente, su quei fogli c'è solo la data e niente altro, a cosa ti serve tenerlo lì?
- Non so, mi dà l'idea del tempo che arriva. Mi corre addosso. Non accelera, non si ferma, spavaldo supera ogni barriera e se ne frega. Mi travolge, cammina su di me e tira avanti.
- Hai scritto qualcosa?
E ha risposto che il computer si è bloccato. Ha sentito la sua rabbia, l'ha condivisa: quando succede a lui chiude gli occhi per non imprecare, per non mettersi a urlare. Gianna invece reagisce in modo diverso ogni volta: strepita, grida parolacce, ride, butta il computer sul pavimento, picchia la scrivania con le mani, se la prende con lui. Oppure tace. Come adesso.
- Senti. Scriverai dopo, sai che non hai il problema della pagina bianca.
- Volevo un racconto erotico. Si è spezzato, non posso ricominciare. Non c'è più tensione.
- E' vero, forse non puoi ricominciare. Scriverai altro, lascia stare l'erotico per ora.
- Forse non riuscirò mai più a scrivere.
Vorrebbe ridere, ma trattiene il fiato per non scatenare la sua rabbia. Sa che è pronta a ferirlo con una scusa qualsiasi, anche se poi chiederà scusa. C'è qualcosa che da giorni le rimescola i pensieri, un'ansia che viene fuori nel sonno e nei gesti distratti, nella foga bestiale quando fanno l'amore. Non ha voluto chiedere, sarebbe inutile e la disturberebbe ulteriormente. Prima o poi ritroverà la calma, oppure esploderà e non riuscirà a tacere. E' capitato spesso da quando stanno insieme: a volte sono i commenti delle fan piazzati senza filtro sul suo sito internet, oppure telefonate di persone che ha chiuso nel passato e non riescono a tacere, o qualsiasi altro motivo plausibile per la perdita della serenità precaria con cui convive.
- Sono una donna complicata.
Ha detto due o tre giorni dopo il loro primo incontro. E' vero, è complicata, ma quello non è il peggio. E' tormentata e ipersensibile, ecco cosa davvero crea la sua arte, cosa la disintegra nel pulviscolo di dettagli che gli altri neanche notano. Riempie le ore di energia e irrefrenabile attività, gioia e risate, ma le succede di cadere. Anche se combatte come un leone, anche se si è rialzata dalle peggiori sconfitte trasformandole in vittoria luccicante invidia altrui. E' sufficiente una parola detta male, una carezza mancata. E le si spezza l'anima.
- Cosa fai, allora? Resti qui a fissare il calendario o vieni di là con me?
Sa cosa ha detto, ha calcato di proposito il tono della voce. E' consapevole di piacerle, conosce il desiderio che suscita nei suoi sensi infantili e tremendamente adulti. C'è un solo modo per strapparla a se stessa: deve travolgerla di passione e prendere da lei la meraviglia del tuono, la dolcezza infinita di un amore che solo lei sa dare. E offrire, deve offrire il suo sudore e la forza, la protezione dei gemiti e delle frasi sputate mentre prende il suo corpo e la vuole di più, più in fondo. E' il linguaggio che Gianna conosce, l'unico che funzioni davvero quando il cortocircuito le impedisce di sottrarsi a ragionamenti che si avvitano su se stessi e le tolgono la voce.
Alza gli occhi, finalmente.
- Hai voglia di me?
Prende tra le dita le sue labbra.
- Ho sempre voglia di te. Adesso più di sempre.
Gli stringe la mano, si alza. Le sue labbra lo baciano, i seni si schiacciano contro il torace.
- Sì, voglio questo. Subito. Anche io.
Lo eccita la voce che diventa roca. La spinge verso la camera da letto. Ascolta i passi sul parquet e pensa che, dopo, butterà via il calendario da tavolo che la perde di angoscia.
Da ragazza e giovane donna tagliava la pelle con il bisturi che rubava dall'armadio dei ferri di suo padre. Vorrebbe dirglielo mentre lo guarda allontanarsi con il passo sciolto e la giacca che pennella la vita stringendosi appena sotto la schiena.
- Parleremo lunedì, oggi c'è il sole e non voglio ascoltare.
Sono state le parole che la appiccicato in faccia, senza sorridere. Si è trattenuto, probabilmente avrebbe preferito picchiarla o gridarle addosso che non si vedranno più. Poi si è voltato ed è andato via, lasciandola lì in piedi, in piazza di Spagna. Il sole la acceca e il freddo penetra, si infila nelle maniche della giacca e nel collo aperto della camicia che lascia intravedere un pezzo dei seni. La gente non bada a lei, non bada ai passi e alle frasi che le muoiono in gola. Siede, ride, fa fotografie oppure passeggia e sospira, senza vederla. Senza accorgersi del suo corpo magro che occupa uno spazio e dei capelli biondissimi, tanto da sembrare bianchi. E' niente per tutti, anche per Giulio che non vuole più restarle accanto.
- Da ragazza mi tagliavo di nascosto, avevo maglie a maniche lunghe per nascondere le cicatrici. Anche d'estate tenevo le maniche lunghe per coprire le cicatrici bianche come collane. Alcune si notano ancora, vedi questo filo bianco sotto la piega del gomito? E questo, questo lo vedi? E' nel mezzo dell'avambraccio, sembra un bracciale portato troppo in alto. Sono colpi di bisturi. Quando incidevo non sentivo dolore: era una sensazione immediata di anestesia e bruciore, un bruciore sottile e fulmineo appena prima che le gocce rosse di sangue sgorgassero e le leccassi per berle e non permettere loro di abbandonarmi. Mi tagliavo, sai? Osservavo il tragitto del bisturi con gli occhi fissi e lenti, senza sbattere le palpebre. Lo facevo per punirmi, me l'ha spiegato uno psichiatra. Giulio, ritorna indietro. Sto tagliando anche te.
La gola è un nodo impastato, le labbra serrate non dicono. Lo segue, vede che non rallenta e non tenta di guardarla, cammina spedito verso via del Babuino e se ne va. Va via da lei.
La giornata era bella, quando l'ha incontrato il bacio l'ha emozionata. I suoi baci la emozionano sempre, sono pieni e affettuosi come gli abbracci che mai ha ricevuto così. Belli, se l'aggettivo non fosse abusato e banale. Giulio sa baciare e, soprattutto, sa come abbracciarla. La tiene e la avvolge, un tramonto rosa o un'alba fresca piena di promesse. E la fa ridere, anche quando non riesce a vedere la luce. In effetti, Giulio è il regalo che la vita le ha fatto quando sembrava che l'amore fosse un sogno crollato e impossibile: si è materializzato come per scherzo e le ha scaldato il desiderio morto. Insomma, è il pensiero di luce colorata che ogni giorno la sveglia e di notte la accompagna a dormire, è l'argomento dei racconti erotici e di quelli dove riesce a infilare poesia. Però riesce a tagliare anche lui.
Tagliava se stessa negli anni malati. Prendeva in mano il bisturi e lo affondava nelle braccia. Non lo fa più, l'hanno guarita, ma adesso taglia la felicità appena ne sente l'odore. Taglia le cose belle perché dice sempre il contrario di ciò che ha in testa. Vorrebbe che lo sapesse, eppure non c'è mai il tempo per dirglielo. E non c'è senso, forse. Il passato è nascosto e oscurato da un presente che sanno riempire di tenerezza. Quando vogliono. Quando Giulio sa regalarle una carezza.
Quella giornata. Ci ripensa e non sa fermarsi. Dopo il bacio, dopo le risate di due battute perfette la rabbia ha rovinato tutto. Non sa perché e nemmeno come. Ha pensato a qualche telefonata di una donna che lo conosce e vuole a ogni costo che lei si allontani, a ricordi e assenze, al niente di scuse che la sua mente ha affastellato una sull'altra per metterle in mano il bisturi e scatenare la distruzione. L'ha aggredito. Ha tirato fuori parole inutili e fuori tempo, fuori luogo, fuori logica. L'ha ferito, per tagliarsi la pelle e la carne e succhiare il proprio sangue gridando di dolore. Ha fatto male a lui per ferire se stessa e disintegrare la felicità che rischiava di fermarle il cuore.
Ogni tanto gli manda qualche fotografia con il cellulare, ci mette dentro l'emozione che vorrebbe succhiargli dalle labbra e il desiderio del suo corpo, della voce sussurrata nell'orecchio; oppure, se ce la fa a fermare le parole, tenta di dirgli che sta male e basterebbe un suo messaggio, la sua mano alzata sui capelli per fare evaporare la furia cieca di un abbandono che l'ha sporcata da bambina. Ma la donna traumatizzata non piace, l'ha capito e per questo mangia ogni confidenza, la mastica per sputarla da sola, lontano. Deve essere forte e sana e allegra e più intelligente degli altri, deve nascondere le piaghe come nascondeva i tagli con le maniche lunghe anche d'estate. A Giulio, poi, tenta di regalare l'immagine che forse gli piace, restituisce le risate che da lui riceve e manda baci densi di passione. Non vuole che se ne vada, le hanno insegnato che per tenere un uomo si deve usare strategia. Nella melma nera di ciò che ha dentro costruisce immagini intrise di magia per trovarla sul serio, quella strategia. Ma poi, poi cade. Come pochi istanti prima, nella piazza con il sole a picco e il freddo che intasa il respiro. Non ha saputo tacere, l'ha insultato e non ha capito perché, mentre la testa urlava che sarebbe bastato un abbraccio. E un sorriso pieno dei suoi. Per cancellare l'orrore.
- Mi tagliavo, sai. Ora sto tagliando te, non lasciarmelo fare.
Sono troppe le cose che vorrebbe dirgli. Il suo corpo alto, sensuale, non si vede più. Lo immagina tra altre braccia meno complicate. Braccia che non hanno cicatrici bianche che assomigliano a fili. Scuote la testa. Forse è meglio che altre braccia lo prendano, con lei non saprebbe altro che tormento.
C'è chi nasce per la solitudine, e se la felicità lo sfiora va tagliata con il bisturi rubato dall'armadio dei ferri chirurgici.
Sono nata mille anni fa sotto la coltre pesante di un cielo che non mi apparteneva. Non ricordo il volto dei miei genitori: qualcuno ha detto che se ne sono andati dopo poco lasciandomi sporca con la voce che gracchiava rabbia, avvolta da un telo grezzo pieno di sangue e cullata dalle braccia maldestre di un pastore che non ha saputo fare altro che crescermi.
Il pastore. Era alto e troppo magro, curvo verso il pascolo che era l'unica ragione della sua vita. Ogni sera mi sdraiavo con lui sul prato fuori dalla capanna calda che puzzava di formaggio e letame, e mi insegnava le stelle. Ha fatto il meglio, mi ha dato il cibo e l'acqua e i vestiti migliori, li faceva tagliare e cucire da una sarta del paese in fondo alla valle: mi permetteva di scegliere i colori ma decideva la foggia, il taglio scampanato e lungo che avrebbe dovuto coprirmi le gambe. Mi voleva goffa e intabarrata nelle stoffe, non permetteva che incontrassi i bambini delle poche baite accanto alla nostra. Aveva una specie di ossessione: era presto, troppo presto. Sempre presto per lasciare che la gente mi guardasse. Perché, diceva, per conoscere l'amore toccava aspettare, e non sapeva spiegarmi perché. Nessuno avrebbe dovuto guardarmi, alzare la mano sulla mia pelle di latte che non sapeva abbronzarsi o insegnarmi altro alfabeto che quello semplice della signorina Cristina, che saliva nella capanna ogni giorno pagata dal pastore una volta ogni due mesi. Dovevo restare sola e prepararmi per una vita altrove, senza le dita sporche dei montanari addosso e con la mente sgombra dal dialetto insipido dei coetanei con la pelle scura.
Insomma, sono nata come voi e cresciuta come si poteva. E un pastore mi ha nutrita. Una storia attraente per una scrittrice. Quando ho raggiunto i diciotto anni ho lasciato il pastore ai suoi pascoli e alla valle dove la sarta non cuciva più vestiti per me, l'ho baciato promettendo che sarei ritornata ricca, colta e laureata. Non mi ha più rivista. E forse, qualcuno dice, è morto maledicendo il mio nome. Ma sono ricca, colta e laureata: sarebbe contento lo stesso, credo.
L'amore mi è stato negato, l'amore è diventato l'obiettivo dei miei giorni.
Non mi interessa spiegare, sono affari che non vi riguardano, però state seduti di fronte a me con gli occhi spalancati e fingete di avere letto i miei libri, e qualcuno ha pagato perché arrivassi qui: perché negarvi il ragionamento che sorge oggi, per la prima volta, da una musica che non ascolterete mai? Vi racconto, e delle parole fate ciò che più vi piace: non le porto mai con me, le lascio andare e provo a dimenticarmi delle ore in cui non sono stata sola. Permetto a menti diverse dalla mia di costruire il mito e amarlo e odiarlo senza requie. Basta che non si ami me, il mio corpo vero. Perché quello è stato toccato da decine di mani, ma resta intabarrato sotto coltri spesse e grezze che non riuscirò più a togliere.
A volte cresci con l'idea che l'amore faccia male. Non ti rendi conto subito, lo scopri quando gli anni hanno costruito strati che soffocano e si sgretolano da soli, coperte calde ma appiccicose che, prima o poi, decidi di buttare via.
L'amore fa male. Lo sai eppure lo cerchi, ne hai più fame degli altri, forse perché ti hanno spiegato che quella cosa impastata di sesso e rabbia e desiderio è l'unico modo per avere qualcuno. L'unica via per non rimanere sola. Lo tocchi, l'amore, non riesci a cogliere i dettagli storti che gli altri invece vedono come se fossero monumenti equestri: spendi tutte le forze che hai per tenerlo, nutrirlo, farlo crescere dentro di te. Nonostante te. Poi. L'amore, il simulacro che hai voluto e strappato con i denti a occhi chiusi, va via. Perché è fatale che accada. E il rischio, dopo che l'uragano si è spento e il dolore ha lasciato il posto alla noia, è che la ricerca continui, e la consapevolezza che faccia male renda storta ogni scelta. Ogni direzione fasulla. Vai avanti e sbagli, raccogli a piene mani (se hai la fortuna di essere bella o sensuale, come dicono che io sia) sudore e sperma e frasi da incanto. E cadi, sempre.
Meno male che esistono gli anni. Meno male che esiste la musica. Questa sera, prima di raggiungervi nell'auditorium dove sedete muti e stipati come le pecore del mio pastore, ho ascoltato una musica scelta per me da qualcuno. E' capitato così: ho trovato il cd, semplice e senza i titoli scritti da qualche parte, ho sorriso (non succede spesso) e l'ho infilato in uno stereo. Per passare un po' di tempo da sola, e capire cosa mi abbia detto la persona che ha registrato le canzoni. Sono rimasta immobile in piedi, al centro di una stanza, e il volto di chi mi aveva regalato la musica sorrideva allegro davanti ai miei occhi. "Allora?", chiedeva, e io non sapevo dire. Ascoltavo ferma, con il cuore finalmente vivo. Il vestito lungo della sarta del paese è caduto ai piedi, lasciandomi nuda. E amavo, senza il sapore acido dei secoli indietro. "L'amore fa male", diceva la testa, ed era la prima volta. Ma proprio per questo, le immagini degli errori e dell'esperienza ritornavano chiare, insieme a infedeltà inutili e rincorse che mi hanno dato solo tagli profondi nell'anima. Il volto fluttuante di chi ha registrato per me questa musica, invece, era saldo e rideva. E ha scavalcato montagne di se e ma, di quando e dove. E troppi perché.
Ho ascoltato, ghiacciata di calore perfetto. Ho rivisto le valli e i pendii, e il pastore solo e vecchio che ogni giorno mi ha attesa seduto fuori dalla capanna sbucciando patate. Ho annusato il formaggio e il letame e l'odore sudato della pelle di chi ha preso il mio corpo in tutti questi anni. Ho cercato il senso nelle canzoni che mi inchiodavano al pavimento e il sorriso raro è diventato riso cantilenante di una felicità ignota.
Ho capito che potrei essere fedele a un'ombra pura come quella che ha registrato la musica per me.
Quando lo stereo si è fermato ho avuto paura: il silenzio mi ha buttato in faccia l'assenza, e le mille donne che ho visto intorno alle mani morbide e tenere di chi mi ha regalato il cd. L'ho visto profumato e gentile, circondato da amori che non saprà spezzare. Che non vorrà spezzare. La gelosia, l'insicurezza hanno creato un vento stizzoso che avrebbe dovuto riportarmi indietro, alle braccia ignote che tengo nel letto quando gli ormoni raddrizzano la voglia, e alle telefonate che lascio cadere perché non mi interessa rispondere. Ma la musica, quella musica, si era incollata in testa. E con un colpo di scure ha tagliato in mezzo la paura. "Qualunque cosa sia, questo amore forse non fa male", ho pensato senza un nesso né una logica.
- Sei pronta? Devi andare.
Lucrezia, rigida sui tacchi alti, mi ha strappata dai pensieri. Imbarazzata, ha tentato di toccarmi.
- Ehi, cosa ti succede?
L'ho spostata di lato e sono uscita dalla porta, lasciandola indietro. E adesso, adesso eccomi qui. Mi vedete seduta e ricca e colta. Strafottente e aggressiva come piace a voi. La figlia di ignoti cresciuta da un pastore firmerà i libri e stringerà le mani. Ma questa notte dormirà da sola, e farà lo stesso domani, e domani l'altro. Perché ha una musica, e un uomo da amare nel silenzio.
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