Non sono sicura che la luce sia amica, oggi: l’ho tentata ma il dolore è aumentato, una scintilla cattiva mi ha costretta a spegnere di nuovo. Per cercare l’ombra. E il silenzio.
Ho visto il mare.
Una balena nuotava e sembrava leggera: l’acqua era blu, ho pensato a quei delfini incontrati nel Tigullio l’anno scorso. Quelli che giocavano e sembravano ridere. Mi hanno portata per mano a una storia, ricordo. La storia ai delfini.
Comunque.
La luce fioca di oggi sfiora la mia testa che strilla. Da questa mattina strilla e non capisco perché. I chilometri, forse, oppure le ore trascorse con un peso che non conoscevo ma ho visto, finalmente. Per stringerlo in mano.
- Sono stati giorni duri
ho detto a un amico che non c’era, ma era vicino. Perché sapevo che era lì. Ha sorriso con la voce lontana.
- E’ un periodo difficile
ho scritto a una donna che chiedeva aiuto. Ha finto di niente ringraziando: sa che domani le darò qualcosa. Questo le basta. E io dimentico il valore di un no, della parola semplice che non so dire.
Ho lavorato lenta in cucina: verdura che scioglieva la vita nell’olio caldo e cous cous integrale, chissà perché. Poi carne che rotola nell’acqua e bolle bolle bolle, ma non per me. La dimentico, ormai. Ho appoggiato il taccuino sul tavolo vecchio e sporco di anni, con la cerata che devo avere tagliato da qualche parte ma non ricordo dove: taglio sempre le cerate, sono distratta. Poi le butto via, quando le ferite si aprono come bocche per ghermire le mie dita stupide o solo ingenue.
Scrivo. La penna è scura e solida e importante, il pennino luccica ammiccando: è il ricordo di un compleanno mio e solo mio, scivola sul foglio per dire che esiste. Che esisto io, anche se le spalle sono curve e la testa strilla.
Non capisco il senso del dolore.
Non il mio. Non quello di una testa stanca e vuota e triste. Il dolore dei secondi dopo secondi e i visi e la vita che corre dove vuole. Mentre la guardo e tento di capirla.
Tutto è giallo, qui. La luce che piove dall’alto e abbraccia il tavolo vecchio e l’insalata nel cellophane e il cuos cous misto a verdure morte sul fuoco, e questo taccuino nero che si copre di righe con la testa che tintinna dolore. Su dolore. Su dolore.
La luce è gialla.
Ridono le chiavi di casa lasciate sul tavolo accanto alla mano: forse lo farò anche io domani, riderò della lentezza vuota di un silenzio che ho cercato. Tutto il giorno. Riderò e nasconderò il dolore scoperto e rimosso e allontanato con altre parole altri aiuti altre mani strette perché così devo fare.
Basta. Filosofia da niente.
Non ho saputo dire no, oggi.
Solo un piccolo no.
Alzo la testa alla serratura che gira, un ciao mi sfiora le labbra.
Ho tolto la porta della cucina, molti mesi fa. Mia sorella ha portato un come-si-chiama da Nizza, tanti pendagli di plastica colorati che scendono dallo stipite e mi intrappolano ogni volta che li attraverso. Sembrano mani che giocano. Qualche volta li strappo, poi li riappendo. Danno gioia, come il buddha seduto sul tappeto là in fondo, all’ingresso di casa: osserva e ride, accoglie placido gli ospiti temporanei della vita.
Pausa. Acqua nella pentola dei piselli.
Oggi sono entrata nel negozio della verdura buona, sei euro un cespo di insalata. Fa niente. Piselli e verdura mista e insalata. E un succo di pera con fruttosio. Bolle tutto, adesso, tranne il succo che ho bevuto. La verdura mista al cous cous e i piselli verdi e grandi, ricordano quelli che i vicini portavano da noi dopo il solleone. Forse. Erano grandi e duri, sembravano meno buoni di quelli del supermercato.
Non so cucinare.
So scrivere.
Aiuto e sorrido.
E non so dire no.
Probabilmente dovrei aprire il sacchetto di cellophane dell’insalata, adesso.
La luce gialla che piove dal muro disegna l’ombra sul calorifero, ed è un arco di passato. Quello che oggi ieri sabato scorso mi ha aggredita con unghie taglienti. Gli alberi fuori – li vedo dalla finestra aperta – tentano di parlare, e forse li sento; c’è una casa là in fondo, e i bambini giocano con le mamme che siedono su panchine scrostate.
Scrivere in questa luce gialla, con la testa che infiamma dolore.
Tra poco aprirò il sacchetto dell’insalata.
Pare di sentire il mal di testa nelle frasi brevi. Quasi uno zoppicare. Bella l'intervista con Marco Mazzanti.
Scritto da: ego | 04/03/2007 a 16:11
Anche questa volta con il taccuino e la tavolozza in mano colori d'arte la vita e i suoi misteri di anime e di corpi.
Scritto da: Ro di Sale e pietre | 04/03/2007 a 16:15
Ciao Maria Giovanna, quant'è che non passavo di qui.
Ogni tanto cresco un pochino con le tue fiabe ma è dura accettare che il mondo giri in senso contrario a me.
Un abbraccio.
Scritto da: Ferdy | 04/03/2007 a 16:42
Il giro contrario della vita spegne i colori. E rende le fiabe lontane. O necessarie? Grazie per le visite e le parole...
Scritto da: MariaGiovanna | 04/03/2007 a 17:17
"LUCE
gialla di una cucina muta!".Certo che,per restare "fiaba" i colori ci debbono essere e,intensi per giunta che,senza emozioni la vita decade o si racchiude in una "cucina" senza neanche la luce gialla! Le favole,però,oltre a "quegli abiti della festa" vanno alimentate dalla continuità dell'attenzione che è anche fatica ed impegno perchè tutto quello che si è messo in moto ha bisogno d'essere anche compreso e tradotto in quel personalissimo linguaggio che ognuno di noi è il solo a parlare.E la "felicità d'esistere" non può venire da una cucina e,forse quella donna di cui Mariagiovanna parla,ha capito che non ci si può attaccare a un uomo quando questi,non è in grado di restituirle quello che lei gli dà.Si può credere nel libero amore come nelle scelte libere e non condizionate,si può avere anche nel proprio DNA l'incanto di un'avventura e,ogni volta autentica e vera nella sua originalità che,il rispetto della persona e della sua diversità rendono ogni incontro un'esperienza unica dentro un'appello alla vita,ma non è ammissibile che,il "filo della melodia" diventi "filo da maglia" di cui si possa dimenticare il punto di partenza e,ci si perda per via...Fulvia
Scritto da: FULVIA | 04/05/2007 a 12:05