A volte succede. Sei lì che guardi il cielo la finestra la strada la luna la gente e ti passa per la testa che tutto potrebbe essere diverso. Distante o sbiadito, oppure pieno dei colori che non hai mai visto: quelli banali, sciocchi, vivi, inutili, che riempiono il cuore. Senza i quali sembra non abbia senso esistere. Fu così quel pomeriggio. Ero a New York e osservavo il vuoto e la neve sulla strada trenta piani più sotto: l’albergo non mi piaceva perché era impersonale e pieno di niente, si alzava come un monumento funebre al fianco della Quinta Strada e non accoglieva. Ti faceva dormire e al massimo ti nutriva se avevi scelto l’opzione business, e quando volevi un taxi te lo chiamava con le propaggini nere dal cappellone a tuba. E un fischio che si perdeva nell’aria frettolosa.
Insomma.
Guardavo la neve di dicembre e ricordavo gli impegni della giornata: c’era una giornalista che aveva chiesto di incontrarmi, sbrigativa e pratica come tutti gli americani, poi dovevo andare dal mio amico Virgilio al Memorial per visitare il suo studio che non avevo mai visto, quindi mi aspettavano nella Cinquantasettesima Strada sopra la libreria, nei grandi uffici pieni di luce e sogni spezzati. Su e giù, e magari una passeggiata da sola a Central Park con lo zoo chiuso e le panchine lucide e coperte di bianco.
Arrivò all’improvviso. Fu prima una sensazione vaga e lontana, estranea: sembrava che qualcuno mi fosse passato accanto nella stanza vuota e avesse toccato con dita leggere e dispettose il mio stomaco placido e inconsapevole. Torcendolo con gesto crudele e una risata sbilenca. Poi crebbe, e fui costretta a distrarre il pensiero dalla neve sui tetti e dalle limousine nere: fu un’ondata di tenebra che mi strinse l’addome, poi prese il petto, arrivò al collo e provò a soffocarmi. “La nausea”, disse incredula una voce flebile dentro di me: diagnosi semplice, che accese una luce che non avevo mai visto. Mi alzai in piedi e provai a camminare: dal letto al grande vetro vuoto e pulito, dal grande vetro al bagno, dal bagno al letto. Poi ancora al vetro, dove percepii finalmente l’altezza orribile di quel trentesimo piano. L’onda nera non si ritirò: continuò a massaggiare maligna il mio corpo, con il cervello paralitico che si chiedeva che cosa avessi mangiato. Pur conoscendo la risposta: niente. Avevo la nausea e non avevo mangiato niente.
Non so come accadano certe cose: alla scuola di giornalismo non mi hanno insegnato a gestire emergenze come quella che mi capitò nel grande albergo d New York. Perché non ebbi paura né ansia né dubbio: sparirono la neve e la città, la gente centinaia di metri sotto e le macchine che scivolavano composte all’incrocio sulla patina bianca e grigia e molle, e vidi solo una verità che non avevo mai considerato. Ero incinta.
Camminai ancora e ancora nello stretto spazio della stanza. Non volevo che l’onda nera e ignota passasse, nonostante il malessere e le gambe prive di forza: finalmente e quasi fuori tempo condividevo la consapevolezza il terrore lo smarrimento il dubbio di una gravidanza. Ed ero felice. Sconsideratamente felice.
Mi sedetti sul letto e provai a respirare lentamente. Ripensai alle settimane precedenti. Rividi lui e una notte, quella notte di passaggio tra un treno e una cena di gala: seppi che non avevo bisogno di ricostruire niente nel passato più recente. Perché sapevo. Sapevo molto bene. E l’avevo voluto.
Mi avvicinai al vetro e di nuovo guardai nel vuoto. La neve continuava a scendere e la gente era ancora lì: sembrava sempre la stessa, destinata da un incantesimo a camminare in tondo sotto il mio sguardo identico e diverso allo stesso tempo. Il mio sguardo. Non era più quello della giornalista che mi aspettava da qualche parte, dell’amico Virgilio al Memorial e degli uffici sopra la libreria. Ero sempre io, ma centinaia di anni lontana.
Squillò il telefono.
“Hallo” .
Una voce secca ripeté le indicazioni per l’appuntamento con la giornalista. Allungai la mano con una lentezza che non riconoscevo e afferrai l’agenda: la aprii sul giorno sbagliato. Non cercai di correggere l’errore, non importava.
“Yes”, dissi senza controllare, e riattaccai dopo un saluto. Le dita frugarono i fogli coperti di grafia regolare e scura: cercai quella sera, la notte di fuga e passione. Con lui che doveva partire, con me che pensavo al viaggio in Giappone. Con la penna disegnai un piccolo fiore e mi sentii stupida: sembrava che l’onda nera avesse svegliato una gioia futile piccola e infantile, nascosta da qualche parte e destinata a restare nel silenzio. Fino al momento della nausea davanti al vetro pulito e vuoto sopra New York.
Mi alzai e indossai le prime cose che trovai nell’armadio: non badai ai colori o alla forma, volli solo essere certa del calore. Della protezione di quel qualcosa che stava rivoltando il mio stomaco da una profondità improvvisamente rivelata. Uscii con la nausea che non dava tregua, masticando una galletta recuperata in fondo alla borsa.
Arrivai nel locale e vidi la giornalista seduta a un tavolo vicino a una tenda rosa: il viso era serio, gli occhi raggiungevano nervosamente l’orologio a intervalli rapidissimi. Sapevo che cosa stava pensando: “Le italiane sono sempre in ritardo”, e forse era vero. Non avevo controllato l’ora: non importava più. Le mie nevrosi sulla puntualità l’intervista la carriera e la vendita del libro negli Stati Uniti sembravano irrimediabilmente sepolte sotto il manto di neve che aveva coperto New York. Mi sedetti con un sorriso che percepii radioso e fuori luogo.
“You are late”: lo disse con rabbia. E ciò che accadde a me fu qualcosa che ancora non so spiegare: senza una certezza, con lo stomaco massacrato ritorto strizzato come unico segno di ciò che avevo deciso (ero incinta, incinta, incinta!), dissi solo “Yes, sorry, I am pregnant”. Mi guardò senza comprensione: sono certa che decise in quel momento di essersi sbagliata, di avere chiesto con insistenza un’intervista a una donna che non meritava altro che una rapida menzione poco sotto i necrologi. Fui sicura che si stesse chiedendo come avessi fatto a scrivere i libri che lei doveva avere letto prima di incontrarmi. Sorrisi: “Let’s start”.
Fissai la sua penna che correva su un taccuino e notai che la sua agenda era piena di appuntamenti: come la mia, e chissà perché. Ormai sembrava tutto lontano. Trovai sciocche ma gradevoli le sue premure recuperate dopo i primi minuti di diffidenza, e non riuscii a rallegrarmi dell’invito a una festa in casa di un giornalista televisivo molto famoso. Sorrisi appena, mentre riflettevo su quale ospedale italiano mi avrebbe accolto al momento del parto: in quel momento pensavo che fosse fondamentale decidere il nome del ginecologo, perché al ritorno in Italia potessi subito chiamarlo per fissare un appuntamento. Neanche per un attimo prestai reale attenzione alla giornalista, che finì per sorridere: “You are really nice”, disse, e non capii che cosa le avesse fatto cambiare idea su di me. Le strinsi la mano pensando a una sciarpa che avevo visto in Madison Avenue: doveva essere molto calda, per proteggere mio figlio (o figlia?) era perfetta.
Camminai e camminai. Incontrai Virgilio e andai nella Cinquantasettesima Strada. Con la neve che non dava tregua. Come la nausea. Neanche per un attimo pensai di telefonare a Luca oppure di mandargli un breve messaggio per dirgli che ero incinta. Che avevo deciso di essere incinta. Perché in fondo non importava che lui lo sapesse quel giorno, mentre il mio sguardo accarezzava la città frenetica sotto la neve. Lo sapevo io, e questa era l’unica cosa importante.
LE NAUSEE
ci sono,ci saranno e infine passeranno.Ciò che importa è la GIOIA di quella rivelazione.Segreto custodito e protetto da una "pancia" che l'ha voluto prima ancora di saperlo! Sei forte,Mariagiovanna! Bianca 2007
Scritto da: BIANCA 2007 | 04/08/2008 a 17:25