E’ salita a Firenze. Me ne sono accorto perché è riuscita a svegliarmi: dormivo da almeno un’ora e lei si è avvicinata al mio posto e ha sbattuto con malagrazia un libro sul piccolo tavolino che dovrebbe separarci. Ho aperto gli occhi e notato i suoi goffi tentativi di farsi aiutare per sistemare la valigia sopra la nostra testa: ho finto di niente, più per l’irritazione di essere stato svegliato che per mancanza di galanteria. Sono gentile, di solito. Molto gentile. Lei ha guardato in giro e ha visto un uomo in giacca scura, che si è alzato e l’ha aiutata a piazzare l’enorme borsa al suo posto.
Si è seduta, poi. Ha afferrato il libro senza aprirlo e mi ha osservato nascosta dietro un paio di occhiali da sole dozzinali, di quelli che usano quasi tutte le donne: lenti ampie e griffate, poca sostanza e molta apparenza. Ma sono cattivo, oggi: sarà la sveglia alle quattro e mezza, sarà la cena di ieri sera che non ho digerito, sarà questo viaggio inutile stupido completamente fuori senso, ma ho voglia di prendermela con il mondo. Senza pietà. Senza dare spazio a sensi di colpa.
Comunque.
Questa donna di fronte a me ha i capelli castani con qualche stria bionda inventata da un parrucchiere poco creativo, indossa un cardigan marroncino con qualche stupido strass e un orologio d’oro. Di quelli che potrebbero anche piacermi, se non fosse oggi se non fossimo qui e se non si trattasse di lei. Che mi ha svegliato lanciando un libro con un’irruenza che una donna non dovrebbe conoscere. Tenta di leggere, adesso, ma ha nelle orecchie gli auricolari di un piccolo aggeggio che squilla spara eiacula musica a volume spaventoso: come possa leggere e capire quel giallo da due soldi che ha in mano è incomprensibile. Devo bere un caffè. Sta passando il baracchino che scampanella, ho visto che per un euro di può avere un caffè stitico in tazza piccola: l’uomo me lo porge ma prima afferra l’euro. Bevo. Così forse mi passa la nausea. Oppure dimentico per qualche istante la sveglia di questa mattina e la stazione vuota con due poliziotti e un cane che mi ha annusato, il treno pieno di zanzare, la donna lamentosa dietro di me che non ha stampato il biglietto e pretendeva di avere ragione con il controllore, e lei. Lei qui davanti, con la faccia da stronza e il coraggio di svegliarmi sbattendo un libro sul tavolino. Questa arpia con la musica a palla nelle orecchie mi ricorda la ragazza che avevo al liceo. Si chiamava Clara e i suoi genitori erano morti in un incidente stradale: la aiutavano tutti, perfino i professori, perché era orfana. Ma io la conoscevo bene. Perché la scopavo. Era cattiva, cattiva dentro, e la morte dei genitori non c’entrava affatto: doveva essere il DNA, quell’insieme di geni che non si sa bene da dove venga a renderla tanto sgradevole. Se la prendeva con il mondo e sembrava trarre piacere dal tormentare provocare stuzzicare offendere la sensibilità di chi aveva la sfortuna di incrociarla. A me piaceva perché allargava le gambe senza fare storie e non disdegnava la mia creatività nelle pratiche sessuali più estreme. Le piaceva, anzi, che le chiedessi di provare cose nuove. Per un po’ feci finta di non notare la sua assoluta mancanza di grazia, la maligna bestialità, poi mi stancai: le posizioni sessuali erano diventate sempre le stesse e non mi divertivo più. La donna qui davanti ha chiuso il libro. Guarda impettita, con una ruga antipatica ai lati della bocca, una tizia che legge qualcosa. La giudica, sono sicuro: esistono persone che giudicano all’istante, come se fossero convinte di essere nate per quello. Non mi piacerebbe vivere con una donna così, e non è solo perché non ho mai vissuto con una donna: il problema è che ho in mente il modello preciso di femmina che vorrei, e non riesco a trovarne uno in carne e ossa. La dolcezza, quella pulizia che solo una donna può avere sono utopie. Forse. In ogni caso, non vivrei mai con la donna che adesso mi sta fissando.
- Che cosa legge?
Mi ha parlato. Ha aperto la bocca all’improvviso e ha emesso suoni, e ora aspetta che risponda.
- La vita di una poetessa russa.
Ho dovuto risponderle. So che non capirà: a malapena sa che cosa sia una poesia, si vede dagli occhi porcini e dalle sopracciglia arcuate. Infatti mi fissa senza espressione.
- Chi è?
Stiamo scivolando nel dramma. Nella discussione inutile paradossale sterile. Vuole riempire il vuoto della sua testa con qualche minuto di chiacchiere.
- Una poetessa morta suicida.
Il suo telefono squilla. Meno male. Appoggia all’orecchio un aggeggio colore della sabbia e dell’oro da mercato arabo, dal quale pende un’insulsa treccina marrone, e pigola.
- Ciao, Anna. Sono in treno. Parlavo di poesia con un signore.
“Un signore che hai svegliato sbattendo un libro giallo da dementi sul tavolino, un signore che ti trova odiosa e non vuole parlare con te. E ha capito benissimo che tu di poesia sai al massimo la litania che ti hanno insegnato all’asilo per la festa della mamma”. Sì, sono nervoso, ma non posso farne a meno. Non sopporto che si invada la mia vita come sta facendo questa donna.
- No, non so come si chiami.
“Mi chiamo Sergio ma la cosa non ti riguarda, e se me lo chiederai ti dirò che mi chiamo Mario”.
- Come si chiama?
Banale. Mi sorride come se fossimo complici.
- Mario.
- Si chiama Mario. Sì, esistono ancora uomini con un nome così.
Fantastico. Vorrei che in questo vagone ci fosse un Mario incazzoso quanto lo sono io: mi piacerebbe vederlo alzarsi e schiaffeggiare questa cretina che squittisce dentro un cellulare improbabile.
- Non so, ora chiedo. Lei scende a Roma?
Non posso mentire. O Roma o Napoli, non si sbaglia.
- Sì.
- Sì, scende a Roma. Bé, ora vado. Chiudo, la linea va e viene e non sento ciò che dici.
Clic. Mi guarda con gli occhiali da sole da maliarda.
- Va a lavorare, a Roma?
“No, ogni mattina mi alzo alle quattro e mezza e prendo questo treno del cazzo perché mi diverto”.
- Sì.
- Peccato, avremmo potuto bere qualcosa insieme.
Bere qualcosa insieme. E’ peggio di quanto credessi. E’ una donna che non esita a proporre una bevuta al primo uomo che incontra in treno. Dopo averlo sgarbatamente svegliato con libri sbattuti, rintronato con musica vomitevole e disturbato nell’unico tentativo di leggere qualcosa.
- Magari un’altra volta.
Ho cercato di essere neutro. Non dico gentile, ma neutro. Lei sorride.
- Non ha proprio tempo per un caffè?
I miei occhi cercano aiuto. Siamo a Roma, ormai: lo capisco dalle quattro case con le scritte sui muri e dai cavalcavia annodati come serpenti.
- Va bene.
Avrei voluto evitare, questa volta. E’ già successo e so come è andata. Devo lasciare stare le donne come lei: sono cattive vuote stupide e se scopano lo fanno con astio, quasi volessero dimostrarti che sei un porco. Come tutti. Però il “Va bene” mi è scappato, e non posso più tirarmi indietro.
- Benissimo!
Il treno è in stazione. Scendiamo senza parlare.
- Abito qui vicino, posso invitarla a casa mia?
Ci penso solo due secondi: non fa differenza ormai, ho messo il mio libro in borsa e deciso di non pensare. Di non notare la faccia arcigna di questa donna che mi provoca e non si rende conto.
- D’accordo.
La casa è piccola e buia: l’odore di chiuso soffoca la gola, lei apre la finestra e si appoggia al davanzale.
- Ho visto come mi guardavi.
Annuisco. Tanto sarebbe inutile spiegare.
- So che mi vuoi.
Le altre volte. Le ho tutte davanti come scene di un film in bianco e nero. Le mani prudono, vorrei uscire. Sono ancora in tempo.
Si avvicina.
- Sei uno di poche parole. Mi piacciono gli uomini come te, sembrano sempre un po’ cattivi.
Cattivo. No, non sono cattivo. Io. Sei tu a rendere tutto difficile. Allontanati. Le altre volte non sono riuscito a scappare, prima. Solo dopo. Oggi voglio andare via. E’ meglio anche per te.
- Non essere ritroso. Mi piaci. Forza, sii coraggioso.
Mi tocca. Ha messo la mano sui miei pantaloni.
- Eddai.
Non capisce, non riesce proprio a capire. Muove la mano e io mi sto eccitando. Adesso che la guardo da vicino vedo che è vecchia, ha gli occhi freddi e non conosce dolcezza. Sono sicuro che faccia la stessa cosa con tutti gli uomini che incontra. Tutti. Le mie mani prudono di più, sono sul suo seno adesso.
- Bravo, così.
Sospira e chiude gli occhi. Non posso fermarmi, non ci riesco più. Ma è colpa sua. Solo sua. Ero in treno e dormivo, mi ha svegliato con un libro giallo sbattuto sul tavolino, ha voluto parlare e portarmi a casa sua. Ha messo la mano lì e ora mi bacia. E’ lei che insiste. E non posso fermarmi, adesso.
- Il letto è di qua.
Mi prende per mano, andiamo in una camera ancora più buia. Sposta il copriletto che sa di polvere: sono sicuro che dovrò lavarmi molto bene. Non sopporto la sporcizia, mi si attacca al corpo e non se ne va più. Mi sdraio accanto a lei e la spoglio: sembra contenta mentre lo faccio. Sembrano tutte contente. Sempre.
- Bravo.
Sospira. Le mie mani le piacciono.
- Continua.
Non posso continuare. E’ tutto il corpo a prudere adesso. Sarà la sporcizia di questo posto, sarà lei che mi disgusta sarà che mi sono svegliato presto, devo finire. Finire subito. Per andare via.
Apre le gambe e mi accoglie. Sembra avere capito come andrà a finire. Sospira ancora e ancora mentre lo faccio.
Poi.
Sono le mani, come le altre volte. Non le posso comandare. Si avvicinano al suo collo e lo sfiorano. Lo afferrano come per caso.
E stringono. Stringono. Stringono ancora.
Diventa blu: i suoi occhi mi fissano stupiti, li vedo attraverso la nebbia della stanza. Mi guardano tutte così quando le mie mani stringono forte: forse si chiedono perché. Eppure dovrebbero saperlo: si offrono al primo che arriva, lo trattano senza dolcezza poi chiedono perché. E’ un nonsenso.
Stringo.
Non respira più. Devo chiuderle gli occhi, non sopporto che mi guardi. E lavarmi, subito. Per andare via.
Non voglio pensare al suo viso bovino e al libro che ha sbattuto sul tavolino, agli occhiali da sole dozzinali e a questa casa buia con la puzza di chiuso.
Spero abbia tanto sapone in bagno. C’è molta polvere qui.
Questa donna di fronte a me ha i capelli castani con qualche stria bionda inventata da un parrucchiere poco creativo, indossa un cardigan marroncino con qualche stupido strass e un orologio d’oro. Di quelli che potrebbero anche piacermi, se non fosse oggi se non fossimo qui e se non si trattasse di lei. Che mi ha svegliato lanciando un libro con un’irruenza che una donna non dovrebbe conoscere. Tenta di leggere, adesso, ma ha nelle orecchie gli auricolari di un piccolo aggeggio che squilla spara eiacula musica a volume spaventoso: come possa leggere e capire quel giallo da due soldi che ha in mano è incomprensibile. Devo bere un caffè. Sta passando il baracchino che scampanella, ho visto che per un euro di può avere un caffè stitico in tazza piccola: l’uomo me lo porge ma prima afferra l’euro. Bevo. Così forse mi passa la nausea. Oppure dimentico per qualche istante la sveglia di questa mattina e la stazione vuota con due poliziotti e un cane che mi ha annusato, il treno pieno di zanzare, la donna lamentosa dietro di me che non ha stampato il biglietto e pretendeva di avere ragione con il controllore, e lei. Lei qui davanti, con la faccia da stronza e il coraggio di svegliarmi sbattendo un libro sul tavolino. Questa arpia con la musica a palla nelle orecchie mi ricorda la ragazza che avevo al liceo. Si chiamava Clara e i suoi genitori erano morti in un incidente stradale: la aiutavano tutti, perfino i professori, perché era orfana. Ma io la conoscevo bene. Perché la scopavo. Era cattiva, cattiva dentro, e la morte dei genitori non c’entrava affatto: doveva essere il DNA, quell’insieme di geni che non si sa bene da dove venga a renderla tanto sgradevole. Se la prendeva con il mondo e sembrava trarre piacere dal tormentare provocare stuzzicare offendere la sensibilità di chi aveva la sfortuna di incrociarla. A me piaceva perché allargava le gambe senza fare storie e non disdegnava la mia creatività nelle pratiche sessuali più estreme. Le piaceva, anzi, che le chiedessi di provare cose nuove. Per un po’ feci finta di non notare la sua assoluta mancanza di grazia, la maligna bestialità, poi mi stancai: le posizioni sessuali erano diventate sempre le stesse e non mi divertivo più. La donna qui davanti ha chiuso il libro. Guarda impettita, con una ruga antipatica ai lati della bocca, una tizia che legge qualcosa. La giudica, sono sicuro: esistono persone che giudicano all’istante, come se fossero convinte di essere nate per quello. Non mi piacerebbe vivere con una donna così, e non è solo perché non ho mai vissuto con una donna: il problema è che ho in mente il modello preciso di femmina che vorrei, e non riesco a trovarne uno in carne e ossa. La dolcezza, quella pulizia che solo una donna può avere sono utopie. Forse. In ogni caso, non vivrei mai con la donna che adesso mi sta fissando.
- Che cosa legge?
Mi ha parlato. Ha aperto la bocca all’improvviso e ha emesso suoni, e ora aspetta che risponda.
- La vita di una poetessa russa.
Ho dovuto risponderle. So che non capirà: a malapena sa che cosa sia una poesia, si vede dagli occhi porcini e dalle sopracciglia arcuate. Infatti mi fissa senza espressione.
- Chi è?
Stiamo scivolando nel dramma. Nella discussione inutile paradossale sterile. Vuole riempire il vuoto della sua testa con qualche minuto di chiacchiere.
- Una poetessa morta suicida.
Il suo telefono squilla. Meno male. Appoggia all’orecchio un aggeggio colore della sabbia e dell’oro da mercato arabo, dal quale pende un’insulsa treccina marrone, e pigola.
- Ciao, Anna. Sono in treno. Parlavo di poesia con un signore.
“Un signore che hai svegliato sbattendo un libro giallo da dementi sul tavolino, un signore che ti trova odiosa e non vuole parlare con te. E ha capito benissimo che tu di poesia sai al massimo la litania che ti hanno insegnato all’asilo per la festa della mamma”. Sì, sono nervoso, ma non posso farne a meno. Non sopporto che si invada la mia vita come sta facendo questa donna.
- No, non so come si chiami.
“Mi chiamo Sergio ma la cosa non ti riguarda, e se me lo chiederai ti dirò che mi chiamo Mario”.
- Come si chiama?
Banale. Mi sorride come se fossimo complici.
- Mario.
- Si chiama Mario. Sì, esistono ancora uomini con un nome così.
Fantastico. Vorrei che in questo vagone ci fosse un Mario incazzoso quanto lo sono io: mi piacerebbe vederlo alzarsi e schiaffeggiare questa cretina che squittisce dentro un cellulare improbabile.
- Non so, ora chiedo. Lei scende a Roma?
Non posso mentire. O Roma o Napoli, non si sbaglia.
- Sì.
- Sì, scende a Roma. Bé, ora vado. Chiudo, la linea va e viene e non sento ciò che dici.
Clic. Mi guarda con gli occhiali da sole da maliarda.
- Va a lavorare, a Roma?
“No, ogni mattina mi alzo alle quattro e mezza e prendo questo treno del cazzo perché mi diverto”.
- Sì.
- Peccato, avremmo potuto bere qualcosa insieme.
Bere qualcosa insieme. E’ peggio di quanto credessi. E’ una donna che non esita a proporre una bevuta al primo uomo che incontra in treno. Dopo averlo sgarbatamente svegliato con libri sbattuti, rintronato con musica vomitevole e disturbato nell’unico tentativo di leggere qualcosa.
- Magari un’altra volta.
Ho cercato di essere neutro. Non dico gentile, ma neutro. Lei sorride.
- Non ha proprio tempo per un caffè?
I miei occhi cercano aiuto. Siamo a Roma, ormai: lo capisco dalle quattro case con le scritte sui muri e dai cavalcavia annodati come serpenti.
- Va bene.
Avrei voluto evitare, questa volta. E’ già successo e so come è andata. Devo lasciare stare le donne come lei: sono cattive vuote stupide e se scopano lo fanno con astio, quasi volessero dimostrarti che sei un porco. Come tutti. Però il “Va bene” mi è scappato, e non posso più tirarmi indietro.
- Benissimo!
Il treno è in stazione. Scendiamo senza parlare.
- Abito qui vicino, posso invitarla a casa mia?
Ci penso solo due secondi: non fa differenza ormai, ho messo il mio libro in borsa e deciso di non pensare. Di non notare la faccia arcigna di questa donna che mi provoca e non si rende conto.
- D’accordo.
La casa è piccola e buia: l’odore di chiuso soffoca la gola, lei apre la finestra e si appoggia al davanzale.
- Ho visto come mi guardavi.
Annuisco. Tanto sarebbe inutile spiegare.
- So che mi vuoi.
Le altre volte. Le ho tutte davanti come scene di un film in bianco e nero. Le mani prudono, vorrei uscire. Sono ancora in tempo.
Si avvicina.
- Sei uno di poche parole. Mi piacciono gli uomini come te, sembrano sempre un po’ cattivi.
Cattivo. No, non sono cattivo. Io. Sei tu a rendere tutto difficile. Allontanati. Le altre volte non sono riuscito a scappare, prima. Solo dopo. Oggi voglio andare via. E’ meglio anche per te.
- Non essere ritroso. Mi piaci. Forza, sii coraggioso.
Mi tocca. Ha messo la mano sui miei pantaloni.
- Eddai.
Non capisce, non riesce proprio a capire. Muove la mano e io mi sto eccitando. Adesso che la guardo da vicino vedo che è vecchia, ha gli occhi freddi e non conosce dolcezza. Sono sicuro che faccia la stessa cosa con tutti gli uomini che incontra. Tutti. Le mie mani prudono di più, sono sul suo seno adesso.
- Bravo, così.
Sospira e chiude gli occhi. Non posso fermarmi, non ci riesco più. Ma è colpa sua. Solo sua. Ero in treno e dormivo, mi ha svegliato con un libro giallo sbattuto sul tavolino, ha voluto parlare e portarmi a casa sua. Ha messo la mano lì e ora mi bacia. E’ lei che insiste. E non posso fermarmi, adesso.
- Il letto è di qua.
Mi prende per mano, andiamo in una camera ancora più buia. Sposta il copriletto che sa di polvere: sono sicuro che dovrò lavarmi molto bene. Non sopporto la sporcizia, mi si attacca al corpo e non se ne va più. Mi sdraio accanto a lei e la spoglio: sembra contenta mentre lo faccio. Sembrano tutte contente. Sempre.
- Bravo.
Sospira. Le mie mani le piacciono.
- Continua.
Non posso continuare. E’ tutto il corpo a prudere adesso. Sarà la sporcizia di questo posto, sarà lei che mi disgusta sarà che mi sono svegliato presto, devo finire. Finire subito. Per andare via.
Apre le gambe e mi accoglie. Sembra avere capito come andrà a finire. Sospira ancora e ancora mentre lo faccio.
Poi.
Sono le mani, come le altre volte. Non le posso comandare. Si avvicinano al suo collo e lo sfiorano. Lo afferrano come per caso.
E stringono. Stringono. Stringono ancora.
Diventa blu: i suoi occhi mi fissano stupiti, li vedo attraverso la nebbia della stanza. Mi guardano tutte così quando le mie mani stringono forte: forse si chiedono perché. Eppure dovrebbero saperlo: si offrono al primo che arriva, lo trattano senza dolcezza poi chiedono perché. E’ un nonsenso.
Stringo.
Non respira più. Devo chiuderle gli occhi, non sopporto che mi guardi. E lavarmi, subito. Per andare via.
Non voglio pensare al suo viso bovino e al libro che ha sbattuto sul tavolino, agli occhiali da sole dozzinali e a questa casa buia con la puzza di chiuso.
Spero abbia tanto sapone in bagno. C’è molta polvere qui.
Potente, spietato. Chapeau
Scritto da: GF | 08/03/2009 a 07:10
SQUALLIDA REALTA'!
Miseria di "entrambe" le umanità restate alla dimensione istintuale della bestia che convive annidata nel fondo sempre pronta a sbranare la vita "altra" e piena che curiosa all'esercizio della scelta consapevole fatta di ben altre sfide.Ri-leggere "questo" in un giorno d'agosto vien voglia d'oceano rifiutando ogni forma di ferma-terra! Bianca 2007
Scritto da: BIANCA 2007 | 08/03/2009 a 09:41
Due letture. Realismo spietato e perfettamente riuscito oppure gigantesca metafora con cui MG vuole rappresentare la donna che si consegna al carnefice per fame d'amore, l'amore immaginario che si nasconde dietro l'atto sessuale. Mi desideri quindi per un istante mi ami. Per fortuna non sempre vince il carnefice
Scritto da: Stregone | 08/03/2009 a 10:06
In questi giorni mi sono fermata spesso a pensare alla responsabilità, condivisa da chi si offre alla mannaia e da chi abusa di questa offerta. Scambi patologici in cui la colpa non è nè potrà mai essere pari. Vittima e carnefice. Il carnefice non può trovare giustificazione nel consegnarsi della vittima, nonostante entrambi soffrano palesemente di disturbi che ne condizionano il comportamento. Non basta, per esempio, dichiarare a parole di essere carnefice, quando i fatti dimostrano un comportamento atto a irretire la vittima. Esiste il carnefice che dice "Con me ti farai male", intanto accarezza e lusinga la vittima con i fatti e i comportamenti. Crudeltà doppia, ma anche debolezza celata dall'ostentazione di sè. O dell'immagine di sè creata ad arte.
Per fortuna la vittima ogni tanto si veglia, e per fortuna il più delle volte il carnefice è impotente. Sessualmente e psicologicamente. Interessante, ho visto per il romanzo che sto scrivendo che la percentuale maggiore di carnefici è sessualmente impotente.
Un certo numero di rapporti patologici si rompe, con beneficio della vittima. Altro punto interessante: la vittima riconosce a un certo punto il proprio stato di vittima, forse lo fa anche il carnefice?
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 08/03/2009 a 10:23
Aggiunta "postuma". Nella responsabilità della vittima c'è il delirio di onnipotenza. "Io lo salverò". ERRORE. Non si salvano mai. Però la vittima può abbattere il carnefice, ne ha le risorse e la forza. L'importante è che riconosca il trucco, grazie al ragionamento (meno spesso) o a eventi traumatici anche casuali che denudino il re.
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 08/03/2009 a 10:28
INTERESSANTE
la delucidazione di MG.In entrambi i casi vige sempre una manipolazione.Manipolo per farmi amare,manipolo per un fondamentale stato di odio che ha invaso il mio Io cosciente e il sottosuolo di quello inconscio che nega lo stato attraverso un tentativo di rovesciare nel suo contrario la minaccia di essere annientato dall'interno,ottenendo il dominio onnipotente sull'oggetto.Incapacità dunque di arrivare alla personalizzazione del Sè portando il sadico-masochista intercambiabile a "fare" appunto nei giochi perversi della sessualità,sostituendoli alla incapacità di relazionarsi e di sfuggire a ogni minaccia di annientamento del suo essere..Scrivo col computer quasi su un ginocchio e col fischio di chi spazientito mi chiama...C'è comunque un taglio maschile in quasi tutti i tuoi racconti MG.Anche questo è interessante.Un bacio,Bianca 2007
Scritto da: BIANCA 2007 | 08/03/2009 a 11:00
Principi taoisti che conoscete, amiche. La forza si vince con la debolezza, il duro con il molle. E ogni situazione e' destinata a trasformarsi nel prorio contrario. Vittima carnefice, carnefice vittima.
Bianca, centrato in pieno l'essere di MG
Scritto da: GF | 08/03/2009 a 11:11
Riprendo i mie studi di psicopedagogia grazie a voi. Scusate, devo frammentare perché fermarmi a digitare sull'iphone dove sono ora non sarebbe opportuno, ma tant'e'. La sessualità e' manifestazione, estrinsecazione o copertura. con il sesso mostro chi sono oppure mi nascondo, Bianca. Certo che sono impotenti MG, e lo sono tanto più quanto più la vittima appare loro pericolosa. Ansia da prestazione e inadeguatezza quindi furia omicida. La vittima desiderabile fa il carnefice crudele, che poi difficilmente accetta al proprio fianco persone di alto livello. Vuole l'inferiore, per non misurarsi e non rischiare di perdere
Scritto da: GF | 08/03/2009 a 11:22
Da assiduo e storico frequentatore di treni notte, immagino l'insofferenza di un viaggiatore nei confronti di una donna che ne ignora lo stato d'animo e crede di poterlo circuire con i suoi argomenti distratti. Mi colpisce il modo crudo e doloroso con cui Maria Giovanna mette in evidenza le dinamiche di una comunicazione divergente, che culmina in un contatto fisico colmo di interferenze sensoriali , e con distanze tra i due impossibili da colmare.
Marco
Scritto da: Marco | 08/03/2009 a 12:07
Concordo completamente. La vittima di valore si consegna senza saperlo al gioco di chi soffre invalidanti complessi mentre mistifica inesistenti solidità,e si abbassa a un livello infinitamente inferiore al suo. Il carnefice autorizza illusioni, vende contraddizioni fumose che costringono a rompersi la testa per cercare di capire e può amare a modo suo solo di un amore malsano che compete per schiacciare. Ma se la vittima è di qualità, arriva il momento che toglie le maschere: e allora, come dice MG, il re è nudo.
Scritto da: Lorenza Caravelli | 08/03/2009 a 12:27
@Bianca. Taglio maschile, mentalità maschile, approccio maschile alla vita. E all'amicizia. Sono consapevole (ora) e trovo interessante il tuo commento, unito a qualcosa che di recente mi hai detto via sms su ciò che troverò. E sulla mia natura.
@GF. La vittima desiderabile fa il carnefice crudele, me ne sono resa conto. Ho letto un po' di cose sugli omicidi seriali, e sui carnefici. E' vero, più spesso sono soli oppure accettano di vivere con donne rassicuranti, che non scatenano in loro forti emozioni o ansia da prestazione. E non dimentichiamo i carnefici donna, il rapporto vittima-carnefice vale bilateralmente.
@Lorenza. La vittima si abbassa al livello del carnefice, dici. Credo sia così. Lo fa per amore, insicurezza, traumi, bisogni. Forse lo fa perché ha bisogno di annullarsi. Si abbassa, di fatto. E' rassicurante, il carnefice, finché non si denuda: sembra forte, determinato, protettivo. Poi perde i suoi vestiti, li getta via oppure un colpo di vento li toglie. E la musica cambia. La delusione è uno dei motori più forti per il dolore, ma anche per la rottura delle catene della vittima. Si è vittima e carnefice in base al momento, lo siamo tutti: me l'ha scritto una persona questa mattina in un messaggio personale. Forse è così, ma esiste la malattia. Se usciamo dall'ambito del fisiologico e andiamo nel patologico la visione è meno leggera e soffice. La malattia esiste.
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 08/03/2009 a 13:55
@Marco. Anche io sono ormai parte dell'arredamento sui treni. E so cosa scatta in testa quando arriva la persona molesta. So anche cosa sia il tentativo di circuire, dato e ricevuto.
Crudezza, mi parli di questo. E' l'unico approccio alla vita che conosco. Per questo detesto il buonismo, le bugie pietose, la dissimulazione: li trovo vili.
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 08/03/2009 a 13:57
GF-EGO-O.
La sessualità è copertura solo quando si è profondamente incapaci di rapportarsi con l'altro (anima -corpo)in un'ESPERIENZA completa che,nudamente permetta il darsi-prendere con gioia e senza paura dell'abbandono consapevoli che NON si verrà mai speculati-dominati-usati-ricattati se non per un'aiuto (reciproco) ad ampliare un Sè che altrimenti si priverebbe di una delle più grandi ricchezze della vita attraverso noi e l'altro.Tutto il resto diventa un mezzo d'attività masturbatoriae,di una situazione intrapsichica in atto,distruttiva,altamente pericolosa per solitudine moltiplicata dove anche la capacità di controllo e di regolazione dell'Io può sfuggire portando nella zona più oscura dell'individuo ( annientamento-morte)per eliminare un testimone della propria impotenza a vivere completamente l'esperienza della sessualità."Stringo" "Non respira più" .Bianca 2007
Scritto da: BIANCA 2007 | 08/03/2009 a 17:34
Sono immersa nella scrittura di un romanzo complesso e difficile, quando riemergo vengo qui a leggervi. Bellissimo scambio che mi regala molto più consapevolezza, e anche riflessione utile per il romanzo.
La paura di abbadonarsi nella relazione, nel sesso, è la delusione più cocente per chi vive la passione andando oltre. E' una paura che spesso si concretizza nel terrore che l'altro si leghi e voglia "di più". Errore triste ma irreparabile.
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 08/03/2009 a 18:04
Eliminare un testimone della propria impotenza, Bianca. Concordo con te e invito MG a ri-leggerti molte volte. Si elimina chi ci mette ansia da prestazione, in ogni caso. Ritorniamo li. Comunque Bianca il rapporto sessuale può essere attività masturbatoria, la mia visione maschile non vede turbamento in questo. Solo, nell'attivita masturbatoria si abbia la decenza di non tirare in ballo l'amore
Scritto da: GF | 08/03/2009 a 18:24
GF.
io NON ho parlato d'amore e neppure censurato la masturbazione ma ho parlato di "incapacità a relazionarsi" avente per sostituto la masturbazione e i giochi"puramente" sessuali a difesa di un Sè che mira a negare l'esistenza profonda di una confusione affettiva sviluppando un Super-io con un relativo senso di colpa (inconscio) che costituisce la dinamica di ogni perversione con stato d'angoscia una considerevole perdita di autostima un senso d'umiliazione e d'inferiorità,la paura della perdita dell'oggetto,l'angoscia di separazione e un forte stato ansioso erotizzato che portano preoccupazioni estreme per la propria inettitudine a DONARE il piacere e ad operare la RESTITUZIONE o per l'insuccesso a produrre felicità,appagamento,gioia in una prestazione completa. Credo in ogni caso d'essere stata esaustiva,aggiungere sarebbe solo RIPETIZIONE quindi chiudo in attesa di leggere altro.Bianca 2007
Scritto da: BIANCA 2007 | 08/03/2009 a 18:58
Bianca, sei meravigliosa. So che il messaggio era per GF, ma permettimi un sorriso. Perché credo avesse capito molto bene e schivasse il colpo con abilità. Usando termini che risalgono a quando da bambina giocavo a battaglia navale durante le lezioni di matematica, ti dico: "Bianca, affondato un incrociatore". Brava.
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 08/03/2009 a 19:01
Forse
Scritto da: GF | 08/04/2009 a 07:38
Talvolta la ricerca affannosa del bello, ancorché passeggero e provvisorio ci pone nella condizione di vittima. E non importa se il tragitto si rivela carattrizzato da umilianti mortificazioni. Ci si consegna all'indomabile richiamo di una seduzione, splanacando la soglia sull'impensabile. Fino al mattino in cui la lusinga dei sogni ci restituisce la dimensione inspida e vana della realtà.
Scritto da: Gian Paolo Grattarola | 08/04/2009 a 17:09