racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
C'è voluto un po' per prendere questa fotografia, e nonostante tutto qualcuno è riuscito a infilarci una spalla. Poco male. La mia lunga visita alla Biennale e a Punta della Dogana ha fatto nascere la voglia di inserire figure umane nelle installazioni. Veramente, l'idea sarebbe di mettere in un angolo, in una stanza buia e nera con un'installazione al centro, una coppia che fa l'amore in piedi. E' il perpetuo rinnovare un rito bestialmente sacro e pagano insieme, la copula dell'arte nell'arte. Ho immaginato uomo e donna con le spalle al pubblico (l'uomo dà le spalle al pubblico, la donna è nascosta dal corpo di lui) e le onde lunghe dei movimenti sincroni del bacino. I gemiti sarebbero corona perfetta per i passi attutiti dei visitatori nella stanza. Con l'amore che si consuma e ripete, in eterno. Il pubblico paga il biglietto, legge o ascolta la guida, cammina, visita e assiste al sesso sudato e indifferente della coppia nell'angolo della stanza nera. Vivo, erotico, per niente pornografico se ci pensate.
Insomma, in questa domenica mattina di pioggia ho la valigia messa sul pavimento, piena. Accanto c'è il solito zaino nero ricolmo di libri e cavi di telefoni, ebook e aggeggi vari. Il computer non è ancora pronto, sta sulle mie gambe e i tasti picchiettano per tirare fuori qualche idea. Ripenso a ieri sera, quando ho abbandonato le riflessioni sulla Biennale e sono scesa a terra, in un centro commerciale stracolmo di gente che spingeva carrelli e si affannava a riempirsi la casa di roba. Il centro commerciale è un narcotico potentissimo: l'ottundimento che raggiungo in pochi secondi sarebbe difficile da ottenere in altra maniera. Entro, respiro la folla, mi confondo per i troppi prodotti esposti e disponibili per le mie mani, mi perdo. Ho la sensazione che cumuli di oggetti inutili ma intriganti mi sovrastino, rischino di cadermi addosso soffocandomi con un odore di plastica a poco prezzo. Vedo volti che sfrecciano lungo i corridoi con l'accordo implicito di rispettare un ordine: si entra e si svolta a destra, e dove ci sono i salumi il flusso dei carrelli va verso il pesce, mai viceversa. Io vado viceversa: non lo faccio di proposito, mi capita così. Non seguo l'ordine dei corridoi tanto per lasciare passare il tempo, penso a cosa mi serve nel rallentamento felpato del cervello e imbocco gli ingressi a caso, come mi viene. Non è così che si fa. Ma non mi importa, mi importa sempre meno di ciò che si fa ormai.
Comunque. Ero in un centro commerciale verso le sei, ho avuto la prima illuminazione davanti al bancone dei formaggi. Ho visto mio marito afferrare il pecorino e chiedermi: "E' questo che mangio?". Ho annuito, sì era quello. Mangia quello, di solito. Ho preso il prezzo con il bip della macchinetta del prontospesa e capito che lì sta il segreto dei matrimoni, delle coppie che restano insieme per anni: "E' questo che mangio?". La donna deve avere un gene speciale nel suo DNA, che è la memorizzazione dei bisogni dell'uomo: quella microscopica, infinitesimale frazione di codice genetico rende ragione della durata della coppia. Perché il sesso, l'amore, la complicità sono destinati a finire, ma la consapevolezza delle abitudini, l'applicazione dei codici di queste abitudini nel quotidiano è il segreto che rende difficile l'idea della separazione. Se so che l'uomo che da anni sta con me la mattina beve l'orzoro (amiche, piano con le battute sull'orzoro: il tizio dell'orzoro si alzava la mattina e mi spiegava addirittura come scioglierlo bene in poche dita di latte, ne ho avanzato un quantitativo che causerebbe problemi di reimmissione sul mercato, sto ancora cercando qualcuno che accetti in regalo la mia fornitura fiorentina ma è più difficile del previsto: non ho incontrato altri esseri umani apparentemente adulti propensi a nutrirsi di orzoro, credo che scriverò un saggio su questo, insieme a uno psichiatra), questa mia conoscenza rappresenta un vantaggio sulla giovane e rampante nuova pulzella che tenterà di sottrarmi le attenzioni di colui che fa coppia con me. Perché ho visto uomini, e tanti, ma credetemi: non ne esiste uno realmente libero. Soprattutto se si tratta di rinunciare ad abitudini noiose ma tanto rassicuranti. Si scatenano in dichiarazioni di indipendenza folle, ballano sudati fino alle quattro del mattino rischiando l'occlusione coronarica o il TIA, fanno spallucce e ostentano una smorfia quando alludono alla moglie da cui "tanto sono separati di fatto", ma nel segreto della loro casa infilano le pantofole e tengono il telecomando tra pollice e indice chiedendo a gran voce un brodo leggero. La donna realmente motivata (tale non sono, ahimè), spinta da atavica necessità di badare a se stessa, capta in breve tempo i punti deboli dell'uomo, cioé le sue abitudini quotidiane, e si rende indispensabile in quanto vestale di tali abitudini, guardiano del solito e ovvio scorrere della routine. Per l'uomo non vale lo stesso: ammetto che di recente ci sia stato un uomo capace di ricordarsi che non mi piacciono i finocchi e neanche la rucola, e sapeva perfino che nel caffé non metto zucchero, ma a mia memoria queste informazioni gli sono servite solo per fare capire all'uditorio che aveva una relazione con me quando ciò era bello e comodo e favorevole per l'immagine: "Ragazzi, so che non le piacciono i finocchi, capito? Significa che me la scopo". Pezzo di DNA simile, uso completamente diverso delle informazioni.
Il centro commerciale mi ha travolta, come sempre. A un certo punto, immersa nella riflessione sulle coppie che restano insieme perché la donna conosce la marca giusta di pecorino, ho visto un fantastico cubo elettronico che prometteva la prenotazione dei libri. Annoiata oltre il lecito mi sono avvicinata, e come nei peggiori copioni di quarta categoria ho cercato il mio nome. Ero pronta allo sberleffo, a una pernacchia che avrebbe raggiunto anche le cassiere del lato opposto del gigantesco megastore. Invece no. Eccola lì, MariaGiovanna Luini, con le sue fiabe, e avrei anche potuto ordinarle. Tranquilli, mi sono trattenuta. Ma per un istante mi sono risollevata dalla preoccupazione dell'orzoro da regalare a qualcuno per liberare la casa di Firenze e dell'idea opprimente della valigia da riempire con tacchi e merletti qualche ora dopo, e non ho nemmeno sentito mio marito che diceva: "Senti ma come facciamo per mangiare questa sera?". Perché non so cucinare, la tradizione dice così. Ho sorriso, l'ho preso per mano e accompagnato ai surgelati che ormai contemplano ogni genere di luculliano pasto compresso, vaporizzato, piegato dentro buste di plastica riempite di quadretti gelidi e promettenti.
Gli ho mostrato i primi, i secondi già pronti, i gelati, la verdura con colori che neanche nell'orto sono tanto vivaci. "Ecco, ti basta scegliere". Non ha potuto obiettare: cibo è cibo, inutile stare a discutere. E con una bottiglia di vino di lusso potremo anche pensare che la leggenda sbagli: sono una cuoca provetta.
E' ora di andare. Ho una pentola con dentro qualcosa, un pezzo di carne trovato nel freezer galleggia immerso in un misto di acqua, dado e spezie. E' il mio tributo al ruolo prima di scendere, accendere il motore e partire per Riva del Garda. Vi lancerò segnali da VeDrò, intanto vi lascio con un consiglio di lettura per menti non annacquate. Ho letto due volte questo libro, è straordinario. Qui nel blog trovate anche qualche video con Tiziano Scarpa fantastico performer.
"Kamikaze d'Occidente", di Tiziano Scarpa. Rizzoli
Da domani a VeDrò. Proverò a raccontare, e se le mie (scarse) abilità tecnologiche lo permetteranno pubblicherò immagini e brevi video. Ecco di seguito il comunicato stampa.Potete trovare il programma di VeDrò qui: http://www.vedro.it/
"Tornano a Dro, in Trentino, dal 30 agosto al 2 settembre 2009, i protagonisti più giovani della vita del Paese sollecitati dal pensatoio VeDrò di Enrico Letta, Annamaria Artoni, Giulia Bongiorno e Luisa Todini. Circa 450 persone, tutte nate negli anni '60 e '70, tra cui professori universitari, imprenditori, scienziati, liberi professionisti, giovani impegnati a vario titolo nella politica, artisti, giornalisti, scrittori, registi ed esponenti dell’associazionismo. Il meeting è stato pensato per discutere dell’Italia del futuro. I temi caldi di questa edizione sono una ricerca sui nuovi lavori, le anomalie del sistema finanziario, l'etica degli affari e l'Italia di oggi vista dal cinema.
Dal mondo dell'impresa arriveranno i leader di Google Italia, Trenitalia, Autostrade. Saranno presenti inoltre l'economista Oscar Giannino, gli scrittori Folco Terzani, Antonio Scurati e Giampaolo Pansa e il giornalista Filippo Facci. Un appuntamento esclusivo, per il taglio generazionale e per l'assoluta trasversalità (politica, culturale, professionale, religiosa), che riunisce giovani di belle speranze e la futura classe dirigente del nostro Paese".
“VeDro' e' un'occasione straordinaria di riflessione e lavoro concreto. Ciò che faremo del nostro futuro dipende dal nostro impegno di oggi, soprattutto dai contenuti culturali che vorremo approfondire, discutere, estendere alla società.” Afferma Maria Giovanna Luini, scrittrice e senologa all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. “Scienza e letteratura, i due mondi solo apparentemente distanti che sono la mia vita, trovano nel lavoro a VeDrò opportunità di studio critico ed effetto reale sulla politica e sulla società.”
Entri nella stanza e sei circondato da volti e corpi a metà, mani alzate oppure giunte sul ventre, occhi scuri nel blu del buio, della pittura a tocchi e sfumature; un applauso esplode all'improvviso con gli ululati da stadio che dalle parete ti cadono addosso, rimbombano in un vuoto che scopri dentro, al centro del petto, poi vomitano fuori, esaltandoti anche se ti vergogni, schiacciandoti al sogno che prima o poi vorresti che capitasse. Sì che lo vorresti, un applauso così solo per te. E tace, in un istante. Ti trovi nel mezzo del delirio di un'illusione di trionfo, il blu ti penetra insieme all'entusiasmo di una folla che vorresti solo tua, poi le voci all'improvviso si zittiscono, la luce si accende mentre le immagini sulle pareti svaniscono e ti fanno sentire stupido. Un povero mentecatto che ha proiettato sui volti blu e le mani alzate un applauso che non ha avuto.Ridono, quei muri che ritornano bianchi e spogli, hanno capito che anche tu come tanti ti sei fermato al centro e hai chiuso gli occhi solo un po', hai lasciato filtrare attraverso le ciglia il tanto che bastava per sentire che intorno le figure diverse ma uguali, livellate dal colore e da dettagli appena percettibili, stessero acclamando te. Il caldo sudore sbavato sulla pelle è evaporato nell'esaltazione di un momento, la cappa opprimente di laguna appiccicosa solo in parte alleviata dalle foglie degli alberi lungo i viali è caduta sul pavimento per metterti nudo, e perfetto, al cospetto di un pubblico che mai avresti pensato di avere. Non hai avuto caldo, non eri stanco, non sentivi più la fame che hai premuto indietro nello stomaco per cogliere il tempo e vedere. Vedere di più. Blu, e applausi. E luce bianca che ha spazzato via l'estasi, quando il sogno è arrivato e stava per sollevarti dalla normalità di una vita come le altre.La Biennale è l'assaggio per eccellenza, non puoi dire di averla vista ma neanche l'hai ignorata. Porti a casa il catalogo completo con l'illusione che ciò che ti è scivolato sugli occhi per stanchezza, per il limite fisiologico di attenzione del cervello umano, ritornerà quando sul divano sfoglierai le pagine con l'aria condizionata accesa. Resti fermo in alcune stanze, in qualche padiglione, quando il brivido dei sensi ti impedisce di proseguire, altre volte corri con la sensazione di perdere e non poterci fare niente. Il catalogo affascina e stimola i ricordi, ma non aiuta: puoi avere il divano e forse l'aria condizionata, ma capisci che devi ritornare. Il taccuino nero su cui scrivi dove, quando, perché, non serve: vuoi masticare la sabbia aspra delle emozioni, e vuoi farlo subito. Come succede nelle installazioni sparse qua e là, che ti acchiappano a tradimento e sono sorprese che si lasciano strappare, ti seguono incollate alla memoria, come il rombo inquietante nel buio quasi totale del Lussemburgo, con le immagini proiettate a scuoterti l'anima su uno squallore da scarafaggio che emerge dalla desolazione della guerra. Oppure la fotografia scattata alla tua ombra, in un altro punto di Venezia che raggiungi se sai seguire le indicazioni sul pavimento: ho visto il mio corpo eretto, con lo zaino floscio sulle spalle e la testa avanti, inconsapevole del flash che pochi secondi dopo l'avrebbe fatto sussultare. Ho guardato la mia ombra e sono rimasta ferma, scoprendomi nuova e diversa da come immaginavo.Alla Biennale, che regalo. Ho pensato di scrivere qualcosa dei miei giorni, poi ho capito che ci vorranno tempo e ordine. E ritornerò, per assaggiare di nuovo e meglio. E perdermi come poche altre volte nella mia vita.Ci sono stati momenti di sorriso, come nel padiglione belga dove ho ricordato i miei tre anni di vita a Bruxelles davanti alla scritta "Etterbeek" su alcune fotografie, e ho considerato che sì, il padiglione rispecchia il popolo. Mai visto padiglione più belga di quello: chi ha vissuto in Belgio può capire il senso quieto di un'apatia non reale, quella specie di sonno che nasconde guizzi vivaci che bisogna essere capaci di cogliere e seguire per non scivolare nella narcolessia. Il Belgio della cortesia, della cena alle cinque e mezza del pomeriggio e dei club privèè indicati con luci al neon: quando ritorni hai nella testa le luci al neon che i belgi usano solo per ciò che è sessuale, e per un po' di tempo guardi con sospetto i locali che a casa tua ostentano le stesse luci e sono semplici ristoranti, o bar, o negozi con la voglia di apparire. E il padiglione del Brasile, con i colori vivaci spinti a ristorarmi che hanno sbloccato finalmente la ritrosia alle fotografie. O l'Egitto, le gigantesche figure con l'odore della paglia inchinate ad accogliere i visitatori: mi sono fermata e ho apprezzato l'amore, in un tempo di scetticismo evidente, osservando due giganti immortali che si baciano teneramente circondati da gatti con le code ritte e le zampe snelle. E ancora, ancora.Scriverò, con più calma. Perché niente può bastare: non bastano giorni di visite, non bastano ore di ricordo silenzioso. Intanto qualche fotografia.
Sembra che si possa passare, calcola la distanza tra due lunghe serie di fili che costituiscono uno dei corridoi a pochi centimetri dai suoi occhi e immagina di infilarci il braccio. Però non si muove. Il movimento si costruisce nitido nella sua testa: la mano è in avanti, stesa con le dita perfettamente allineate, i due lati del polso guardano il filo spinato, avanza piano tenendo l'avambraccio morbido e saldo perché il gomito si distenda progressivamente e permetta al braccio di entrare senza lasciarsi ferire. La parte più difficile è il braccio perché la spalla deve ruotare verso il basso per evitare che il gomito urti il filo spinato e rovini tutto, alteri la posizione e la imprigioni. Non vuole restare imprigionata: le farebbe più male dei graffi profondi che sicuramente le riempirebbero di sangue la pelle, gocciolando sul pavimento chiaro. La schiena dovrebbe piegarsi a destra (immagina di infilare il braccio destro, quello con cui scrive e accarezza e afferra, quello con cui respinge sempre più spesso; è il braccio che tira meglio di boxe, anche se il sinistro è capace di ganci rapidi e inattesi), e i fianchi fare un movimento laterale per aiutarla a concentrarsi sull'unica parte del corpo che richiede l'intera sua attenzione. I piedi sono immobili, ha imparato a sforzare le caviglie quando gareggiava sugli sci e insegnava schettinaggio, i polpacci tonici tremeranno un poco ma ce la faranno a tenerla come vuole stare. Può farlo, lo sa, il cervello ha già costruito tutto e se la analizzassero con una SPECT scoprirebbero che ha attivato le aree del cervello che servono, senza sbagliare. Pensare è fare, per l'ammasso di neuroni e materia inerte che le popola la testa.
Sta ferma. La gente cammina intorno. Il reticolato messo così, come un bosco innocuo e rassicurante, ha il fascino irresistibile del tentativo. E' una sfida. Prima di bloccarsi nella parte più luminosa ha camminato tutto intorno, lungo il perimetro, accelerando e rallentando per controllare l'effetto sulla retina: il filo spinato diventa intreccio di rami secchi oppure morbidi (le spine aguzze sembrano piccole foglie nascenti), blocco nero e compatto, materasso alzato per accoglierla, buio irrimediabile in cui potrebbe perdersi. Dipende da quanta velocità mette nei piedi, quanta libertà lascia alle pupille fregandosene di chi la guarda.
Ha guardato le piccole esplosioni rosse sul pavimento, sono schizzi di sangue eterni ottenuti da vetro plasmato perché sembrino bombe oppure carne che si dilania e sputa fuori vita, ha sentito la gola chiudersi nella stanza piccola con il vecchio letto di ferro e l'appendiabiti a muro con una gruccia rotta e storta. Poi è ritornata qui, al filo spinato che sembra un bosco e non le fa paura. Le viene voglia di lasciarsi cadere avanti, mollare le inibizioni e andare giù in un colpo solo, chiudendo gli occhi: le spine penetreranno poco oppure la risparmieranno, accogliendola sorprese per la sua follia. Se è fortunata non le toglieranno la vista, ma non lo può sapere: lo capirebbe solo dopo. Ma la cosa che più di tutto vuole fare è infilarci il braccio, perché è sicura che riuscirebbe a farlo se ne avesse il coraggio, se sfidasse i giovani guardiani seduti agli angoli a sorvegliarla. Mano, polso, avambraccio e braccio, fino alla spalla: fisserebbe il corridoio che è riuscita a violare e si sentirebbe immune, realizzerebbe dopo che per ritornare indietro dovrebbe programmare di nuovo il gesto, senza lasciarsi prendere dall'enfasi o dalla soddisfazione, piegare il gomito in basso e mandare in alto la mano, perché il piano che passa per il corpo resti verticale. Perfetto e verticale.
Venezia è fuori dalle finestre. E' arrivata verso sera, attraversando ponti piccoli e calli e controllando ogni tanto la carta geografica del suo palmare: ha un punto rosso che lampeggia e dice "E' qui", la usa spesso quando è sicura di non ricordare. E Venezia sorrideva, violata da grandi navi da crociera che la defloravano ma altera nell'assenza di amore. Perché non ha amore, Venezia, e per questo lei la ama. L'assenza di amore è sensuale, la riempie di pace ed eccitazione sottile. Cammina per ore e si perde, cerca i campi dimenticati che risuonano solo dei suoi passi e si ferma, sorride. Potrebbe essere unica e sola, e lontana. Finalmente.
Guarda il filo spinato e immagina il braccio infilato dentro, potrebbe muoversi senza lasciarsi toccare. Ha imparato, adesso.
Scatta una fotografia storta e senza fuoco, immagina di usarla per ricordare. Poi ritorna all'ingresso, e scende la scale. Nel corridoio, nella città, nel respiro con le spine che ormai non la possono sfiorare.
L’aria condizionata è fredda come in ogni altro albergo, anche se più rumorosa: se ne rende conto quando tace per scrivere e cerca il silenzio. Anzi. Un silenzio, non IL silenzio, perché i silenzi sono tutti diversi: quello di questa stanza piccola con i mobili ricchi e il letto soffice come un paradiso è pieno del ronzio dell’aria condizionata che piove dall’angolo in alto a destra, sopra la porta aperta sul corridoio brevissimo che dà sul bagno e sullo spogliatoio. Ha avuto altri silenzi, tanti da non ricordarsene: pieni di parole altrui che le sfioravano le orecchie ma non arrivavano a colpirla, di canti di uccelli sugli alberi che si muovevano per il vento, dello sciaguattare dell’acqua nei porti, della laguna agitata con i motoscafi con il motore al minimo. Si tratta di mettersi calma, bloccare i pensieri e ascoltare il tipo di silenzio in cui si trova, per accettarlo e farne sfondo, scenario improvvisato per le storie che racconta picchiando sui tasti quadrati del computer portatile. Uno dei silenzi migliori è quello della neve, in alta montagna: è l’unico silenzio che non saprebbe descrivere, se non attraverso la pace che le nasce dentro ogni volta che ci si trova in mezzo. Lei che odia le catene, fugge da ogni sospetto di barriera, di saracinesca chiusa sulla libertà, ama perdersi nella solitudine piena e zitta della neve, desidera che le strade si blocchino per giorni impedendole di ripartire, sogna baite sempre più isolate in cui rinchiudersi per mesi con un camino acceso, tanti libri e le parole da scrivere.
- Esco allora, ciao tesoro.
La saluta con un bacio, la guarda camminare fino alla porta con un desiderio lieve che terrà nascosto nel sorriso del commiato: deve scrivere e non vuole fermarla, ha ancora dentro l’emozione della notte, l’odore del suo corpo e dei capelli lunghi, neri, tanti, che le sono scivolati addosso quando si è stesa su di lei per fare l’amore. Ha il sapore della sua pelle giovane e soda, delle labbra che si aprono un po’ quando si mette a ridere, delle dita lunghe dalla manicure perfetta che si lascia mordere nei momenti in cui la passione diventa intollerabile. E’ bella, Laura, per strada gli uomini si fermano a guardarla: gli occhi verdi dal taglio un po’ obliquo, lo sguardo dritto e furbo riempiono di luce di smeraldo il volto ovale dalla carnagione bianca senza increspature, le spalle atletiche e sottili scendono sul seno maestoso e sull’addome tonico, allungandosi in basso verso due gambe perfette, da non ritoccare nelle fotografie dei giornali; e il portamento, adesso, negli ultimi passi fuori dalla stanza, è quello di una regina altera che esce ad adorare il mondo, facendosi adorare da lui.
- Quando ritorni?
Si ferma, si volta. Ride.
- Che tono di voce! Hai di nuovo voglia di me? - Ho sempre voglia di te. Anche adesso. Sei bellissima.
Gli occhi si spostano, osserva se stessa nello specchio alto sulla cassettiera davanti al letto.
- Dici? Non è che i pantaloni cadano male? Qui dietro, mi fanno il sedere grosso. - E’ perfetto, lo sai.
Le restituisce lo sguardo attraverso lo specchio. Il sedere grosso, un loro gioco. Meglio interrompere, altrimenti smetterà di scrivere e le chiederà di ritornare a letto.
- Cosa fai questa mattina? - La Biennale, i Giardini. Te l’ho detto. Perché non vieni? - Verrò. Ma devo finire qui, ho deciso di completare il capitolo prima di uscire dall’albergo. Il romanzo deve andare avanti. - E’ lunghissimo ormai, quando me lo farai leggere? - Quando sarà finito. - La prima lettrice? - Sì, come sempre.
Parla e infila le dita nei capelli corvini di seta, li solleva ai lati, li scuote e lascia andare. A Giorgia sembra di sentirli sulla faccia, negli occhi, con il profumo inconfondibile che la perde ogni volta che le si avvicina.
- Smetti di fare così. - Così come? - Con i capelli, smetti di muoverli. - Perché? - Mi piaci troppo, sei una distrazione. Non va bene.
Ride.
- La notte scorsa abbiamo dormito alle quattro, questa mattina mi hai svegliata all’alba. Cosa succede? Un picco ormonale? - No. Sei tu. Ieri un uomo ti guardava fisso, per strada. In quella calle dietro la Fenice. - Gli uomini ci guardano sempre, Giorgia. Non dovresti neanche più farci caso. Ci guardava anche il portiere dell’albergo quando siamo arrivate. Il fatto che prendessimo una stanza sola l’ha distrutto psicologicamente. Ci guardano perché siamo amanti, è l’unico motivo. Si chiedono come sia lecito che due donne stiano insieme. “Roba sprecata”, è la battuta più frequente e idiota che sussurrano. Quando sanno chi sei si danno di gomito e dicono che sei un’artista pervertita e senza equilibrio, e io la giovane amante che si fa fottere perché così può viaggiare e ricevere regali costosi. Dai, è così. Lo sai. - Ma va. Quell’uomo ti guardava perché è impossibile staccare gli occhi da te. Sei una creatura perfetta.
Fa due passi e le va vicino.
- La musa, così hai detto ieri. Ma non è vero. Sei tu la creatura perfetta. Sei bella, intelligente, mi riempi di cose che non conosco e non ho mai neanche sognato. Mi ami, anche se non vuoi dirlo. - Sì, la musa. Hai visto quella galleria vicino a Palazzo Grassi? Tutti quei quadri di donna. Sei tu, quella donna. Ha la tua età, gli stessi capelli scuri e gli occhi verdi da gatto. Il pittore l’ha ritratta in ogni tela, nuda o vestita, peccatrice o santa, sorella o amante. Come faccio con te. - Mi imbarazzi. Però mi piace, anche. A volte mi chiedo se continuerai a farlo quando sarò più vecchia. Li vedo i tuoi occhi sulle donne giovani che incontriamo, non riesci a staccarti. Se non fossi insieme a te le porteresti in albergo per mangiarle di piacere, ti si legge negli occhi; e loro te lo lascerebbero fare, nessuno ti resiste. Il mio sedere grosso a volte non regge il confronto.
Allunga la mano, la accarezza. Il tocco è leggero ma sufficiente per solleticarle la fantasia. Vorrebbe farglielo sentire, quel prurito segreto piacevole e sfrenato che la prende ogni volta che riesce e strappare il contatto con la sua pelle.
- Il tuo sedere è il più bello, l’unico. Come i tuoi occhi. - Per quanto tempo rimarranno gli unici? Hai già avuto compagne, in passato. E le hai lasciate.
Sospira, muove le mani sulla tastiera del computer che ha appoggiato alle cosce quando ha deciso di scrivere. La bellezza animale di Laura, la sensualità feroce che nasce involontaria e le riempie il verde delle iridi, il turgore dei capezzoli attraverso la maglia leggera, la inquietano. Ha avuto altre donne, e altre arriveranno in futuro: non è fedele e non vuole esserlo, è sicura che prima o poi dovrà cedere alla bellezza di seni diversi, di fianchi larghi e accoglienti e gambe lunghe e tornite, ma non potrà rinunciare a Laura. All’amore che nasconde dietro la passione, al bisogno che la rende diversa da tutte le altre.
- Che sciocchezze, Laura. Anche tu hai avuto altre amanti. E uomini, anche. Sei più giovane di me, sei bellissima. Dovrei essere io ad avere paura, non tu. - Ma tu scrivi. - Cosa c’entra? - C’entra, lo sai. Sei sensuale, irresistibile.
Scuote la testa.
- Meno male che la pensi così. Significa che per un po’ vorrai restare nella mia vita. - Per tanto tempo. Per sempre. - Sai che non esiste il sempre. - Chi lo dice? C’è gente che si ama per tutta la vita. Perché non vuoi amarmi per tutta la tua vita?
Fissa il viso da dea inconsapevole, la scollatura a V della maglia che finisce nell’incavo tra i seni, i due punti tondi in rilievo dove i capezzoli si nascondono senza reggiseno; ricorda il suo corpo nudo, l’odore del suo piacere.
- Per tutta la vita, sì. Vorrei farlo. Ma adesso è meglio se esci.
Laura fa un passo indietro, confusa.
- Perché? Ti ho fatta arrabbiare? - No, tesoro, no. E’ che la scrittura è un’amante gelosa. Pretende l’esclusiva. Se resti un altro minuto ti spoglio e ti trascino di nuovo qui, a letto. E non va bene. Il desiderio deve restare acceso per qualche ora, poi potrò toccarti e baciarti. Potrò amarti, perché è di questo che stiamo parlando anche lo trasformiamo in sesso perché è più facile e meno impegnativo. Ti amerò qui, di nuovo, questo pomeriggio dopo la Biennale. Adesso voglio scrivere, e l’amore non è mai stato un motore adatto per la scrittura. - Ma se Hemingway ha detto in quell’intervista che si scrive meglio quando si è innamorati. Me l’hai fatta leggere tu. - Forse a lui riusciva bene, a me crea solo problemi. E’ il tormento a farmi scrivere. - No amore, è il talento. La storia del tormento è passata da un pezzo. Andava bene nei primi anni, quando ti chiedevano quando trovassi il tempo per scrivere e perché. E’ tutto cambiato adesso. Scrivi perché sei tu. E’ il tuo bisogno, e anche il tuo lavoro ormai. Potresti scrivere anche con me nuda nel letto, l’hai fatto tante volte. La notte scorsa mi sono addormentata di schianto dopo l’ultimo orgasmo che mi hai dato, ma mi sono accorta, sai, che hai acceso il computer e sei andata avanti a scrivere per almeno un’ora. Aprivo gli occhi e ti vedevo lì che ticchettavi, neanche mi notavi più. Avrei potuto toccarti senza che ti accorgessi di me. Meglio così, perché mi piace leggerti. Ti amo anche per quello che scrivi, non posso fare a meno di te. Lascia perdere il tormento, è cosa passata. Scrivi quando ami, e scrivi bene, solo che non vuoi ammetterlo perché non ti piace ammettere che ami, ne hai paura. - Macché paura. L’amore non esiste. Esistono tanti altri sentimenti bellissimi o bruttissimi, ma l’amore no. E se esiste è poca cosa, credimi. - Bum, senti la cinica spietata sciupafemmine. L’amore non esiste. E il mio cosa sarebbe? - Non lo so, dimmelo tu. - Certo che te lo dico, è amore. Che ti piaccia o no. E anche il tuo è amore, lo vedo e lo sento. Anche se sei sempre con gli occhi incollati al culo delle altre, anche se le accarezzi di nascosto con la testa quando le incontri alle presentazioni dei libri, e le spogli mille volte con la fantasia. Mi ami, lo so. Quindi non barare, non con me.
Le pianta addosso le pupille, con la saliva che riempie la bocca e il calore che dal centro dell’addome scende al ventre.
- Laura.
Si interrompe. Le labbra semiaperte sui denti bianchissimi sorridono maliziose, gli occhi da gatto sono ancora più obliqui; la mano sinistra si è appoggiata alla coscia, con falsa noncuranza. Come piace a lei.
- Sì, Giorgia. Dimmi.
La voce. Roca, calda, densa di desiderio.
- Tu devi.
Di nuovo la frase muore in gola. Laura le sfiora una guancia con il dorso delle dita, si china su di lei e con i denti le stuzzica la base del collo. La morde, succhia, le soffia piano dietro l'orecchio, il profumo dei capelli e della pelle giovane le velano la vista. - Devo cosa?
Si appoggia ai cuscini, abbandonata. Sono anni che l’ama in quel modo e ripete a se stessa che non durerà, anni che non la tradisce nonostante sia sempre stata infedele. Sono anni che brucia di desiderio e abdica ogni volta che il suo corpo le si spinge contro.
- Dai Giorgia, andiamoci insieme alla Biennale. Dopo.
Spinge di lato il computer e con una mano le sfila la maglia. E' stato il silenzio speciale di quella stanza: Laura si è insinuata dentro, confusa con il motore dell’aria condizionata nell’angolo in alto, sopra la porta. Scriverà, ne è sicura. Ma dopo l’amore. Perché forse è vero, scrive meglio chi è innamorato.
Sul cestino per la spazzatura, la “A” di “alta velocità”. Non coglieva la differenza tra un treno ad alta velocità e un Eurostar, la durata del viaggio era identica e i servizi anche. Perfino i ritardi parevano gemelli. Però quell’”A” sembrava promettere meraviglie, come la finta anticamera di partenza a Stazione Termini che ricordava l’imbarco dei treni superveloci tra Parigi e il resto d’Europa. O quasi. Perché la realtà era che sui treni ad alta velocità si saliva come su qualsiasi altro treno, correndo sulla pensilina e cercando la carrozza giusta che spesso era indicata al contrario dai cristalli liquidi della stazione, il servizio in prima classe prevedeva al massimo tre bicchieri di acqua o bibita in tutta la tratta (con lo sguardo severo delle hostess quando si sentivano chiedere “ancora qualcosa” da chi aveva già ricevuto la propria razione di idratazione in partenza da Roma) e il ristorante dipendeva dagli umori e dalla buona creanza del personale. Il treno superveloce era un treno che, quando andava bene e non si accumulavano ritardi, andava da Milano a Roma in quattro ore mezza. E viceversa. Con la porta dello scompartimento (il “salottino”) che si apriva ogni volta che la frenata era brusca e i tavolini per scrivere che schizzavano fuori all’improvviso, ad aggredire i dirimpettai. Eppure amava viaggiare in treno. Riempiva il vuoto del fare con pensieri densissimi, oppure leggeva o ascoltava. E scriveva lettere agli amici. Sempre, sempre in treno. Fissava la “A” bianca con una linea orizzontale rossa a tagliarla in due parti asimmetriche e pensava alla nuova solitudine. Quella che le era capitata addosso come un abbraccio di scimmia sguaiata che sghignazzava e le regalava la libertà e un’eterna, sottile malinconia. Passati i mesi della lotta e del rifiuto di ogni evidenza, aveva ormai (quasi) accettato che il corso delle cose fosse cambiato tanto da renderla ancora giovane, sufficientemente ricca da permettersi qualche svago, distante dalle beghe di ambienti di lavoro che aveva rifiutato, e sola. Crudamente sola. Crudamente, non crudelmente. La solitudine era cruda in una definizione che lei stessa, Mara, dava a chi le chiedeva “Come stai?”. Non sapeva perché la solitudine dovesse essere cruda, ma era la definizione migliore per ciò che le stava accadendo. Essere sola, in un modo che nessuno sembrava disposto a riconoscerle (un conto è essere soli e poveri, magari un po’ brutti, ma se sei sola e bella e con il conto in banca senza grossi problemi allora non è vero che sei sola, c’è sicuramente l’inghippo), era crudo perché carnale, fisico, diretto come un pugno. Non c’era noia, quella le era estranea da quando rendeva conto solo a se stessa, ma l’assenza di orecchie disposte ad ascoltarla e labbra pronte a confidarle intimi segreti e abbracci gratis per il solo fatto di esistere si faceva sentire in quegli istanti di silenzio che seguivano gli impegni della giornata e riempivano le notti di sonno scarso e sottile. Il pungo le arrivava quando scendeva a Termini e andava verso la corsia dei taxi, e per qualche istante vagheggiava messaggi SMS con i quali chiedere aiuto, o qualche parola di sorriso. SMS che non mandava, ma che avrebbe voluto inviare cedendo al morso bruto di se stessa da sola. Era crudamente sola, nonostante i giudizi e i pareri di chi la voleva diversa da ciò che realmente era. Nuda di fronte alla propria storia e a un presente inatteso. Era diventata la donna immagine di una campagna pubblicitaria che aveva riscosso un successo assoluto, la gente la fermava e le stringeva la mano o addirittura chiedeva un autografo, il suo metro e settantacinque per sessanta chili l’aveva introdotta nelle simpatie (e solo in quelle) di uomini che avevano deciso di aiutarla, e per questi aiuti non aveva nemmeno dovuto concedere prestazioni sessuali perché era bastato promettere senza mantenere. Sembrava un miracolo. La notorietà sfruttata al momento giusto e i guadagni della campagna pubblicitaria con tutte le comparsate televisive conseguenti l’avevano affrancata dal rischio di doversi vendere a produttori affamati di conferme sessuali e dalla necessità di essere sempre all’altezza delle aspettative. Era libera. E sola, crudamente sola. Perché insieme al successo della campagna pubblicitaria con il suo viso in mostra nelle piazze più importanti di tutte le città era arrivato anche il cambiamento di casa e di stato civile. Luca aveva deciso che la vita era più interessante senza di lei e aveva trasferito tutte le sue cose da Claudia, una donna che aveva più anni di lei, cultura inferiore (o almeno così voleva pensare) e molto propensione alla cura della casa. Un angelo del focolare che l’aveva travolto di dolcezza e convinto ad abbandonare l’avventura stimolante di una moglie sempre in viaggio, sempre all’erta, totalmente avulsa da ogni abitudine casalinga. Una moglie quasi famosa, mai quanto lui ma abbastanza da dare fastidio. - Te l’avevo detto, avresti dovuto diminuire i tuoi viaggi, badare a lui e alla casa! Gli uomini sono semplici, vogliono ritornare a casa la sera e ritrovare la cena, l’ordine, la quiete. L’emozione forte va bene per le amanti, non per le mogli! La moglie deve cucinare bene e rifare il letto, essere sempre pettinata e non dimenticare di comprare il vino perché troppo impegnata. Il coro unanime delle amiche aveva sentenziato che la responsabilità per la partenza di Luca era sua, lei aveva dedicato qualche ora a un esame di coscienza che tanto aveva già fatto decine di volte, aveva alzato le spalle e tirato dritta. Passi lunghi, ginocchio saldo. E nervi a posto. In fondo Luca la sera si addormentava sul divano e il fine settimana proponeva sempre il medesimo programma, e non le chiedeva granché sulla sua vita limitandosi a pretendere che si occupasse anche delle sue necessità, nonostante gli impegni. Conti da pagare, assicurazioni, automobili da ritirare o consegnare al concessionario, lunghe code in uffici amministrativi e regali per il figlio che non abitava con loro. E gli piaceva che lei fosse colta e attraente, soprattutto quando voleva esibirla alle cene, senza seguirla quando era lei a sperare nella presenza di suo marito negli eventi che la riguardavano. Luca era un già-assente che a un certo punto aveva deciso di ufficializzare l’assenza, manifestando il disagio con la scelta di una donna rassicurante e meno pericolosa di lei. Certo, la separazione l’aveva fatta soffrire, ma i motivi erano diversi dall’amore. Era l’affetto tradito, era la fiducia nella tranquillità che la noia di certi momenti sapeva darle, fiducia persa per colpa dell’abbandono, era la consapevolezza che con Luca aveva trovato una stabilità che geneticamente non le apparteneva. Il matrimonio era stato un’impalcatura incrollabile per la sua irrequietezza, che si trasformava troppo spesso in crisi di ansia o apparente panico di vivere. - Basta! Si annoiava con quei pensieri da portineria, con i ricordi di un matrimonio fallito che le mancava quando si rendeva conto di non avere abitudini quotidiane, ma che da anni era vuoto di passione e desiderio. E che, implodendo nel più tipico dei modi, l’aveva liberata e costretta a vivere davvero. Aveva potuto scegliersi una casa nuova in una città diversa e potenzialmente avrebbe anche avuto tempo e spazio per un altro amore. Se ce ne fosse stato uno. Ma non era certa di averne voglia. Gli amori nuovi sono impegnativi e costano fatica, e gli uomini spesso non erano in grado di reggere al colpo dell’incontro con lei che non offriva sedentarietà e chiedeva che si riuscisse a stare dietro a suoi ritmi. Tipicamente senza equilibrio - Scusi, questo posto è libero? La risposta dell’istinto avrebbe voluto essere “no”. Perché era vero, il posto non era libero ma era troppo complicato spiegare che l’amica che avrebbe dovuto sedersi là aveva perso il treno, quindi il posto era effettivamente libero da persone ma pagato da qualcuno. Cioè lei, Mara. - Sì. Sperò che il nuovo venuto, dalla erre cantilenante e gli occhiali spessi, non fosse petulante quanto l’aspetto fisico sembrava promettere. Aveva avuto ogni genere di compagni di viaggio. La ragazza spregiudicata e ignorante che titillava l’eccitazione di un capufficio più anziano, alla vigilia delle nozze (di lei) e con le fotografie della moglie (di lui) esibite a scudo. Oppure il politico rampante con il cellulare incollato all’orecchio nel tentativo di capire con chi si fosse alleato il presidente del partito, e informazioni diverse a ogni stazione. O l’editore con i gemelli ai polsi e l’aria da “esisto perché il mondo sia felice”, senza libri nella ventiquattrore e con le cifre sulla camicia che ne recitava l’intero nome. O l’avvocato quasi centenario con un tirapiedi servile che per tutto il tempo aveva sussurrato delazione e implorato benevolenza. - Lei è la donna della pubblicità del telefono, vero? L’uomo dall’aria petulante le rivolse la più ovvia delle domande. - Sì. Sì. Solo sì senza commento o aggiunte. Sono io, sono la donna che ti convince a comprare un telefono di una certa marca con la SIM di quell’operatore: le vendite sono aumentate del quattrocento per cento con me, lo sai? E’ vero che le mie battute in tv erano studiate da esperti, è vero che il telefono è l’oggetto del desiderio per tutti, però. Sono io, sì. Sono io. - Senza trucco è più bella. Banale. Dovrei sentirmi lusingata eppure lo dicono tutti. Forse è scritto sul manuale del perfetto gentiluomo dire che una donna famosa, o solo nota ai più, sia bella al naturale e non quando posa per i fotografi o i cameraman. Pensate che faccia piacere sentirsi dire così? - Grazie, è molto gentile. E adesso taci. Ho deciso che vorrei leggere. Ho solo un libro con me, quello della scrittrice che ieri sera ha presentato in via Farneti, non credevo che l’avrei letto ma lo farò. Leggerò queste parole del buio di un editore sconosciuto anche se parlano di depressione e fine di un amore, cose banalissime sulle quali solo una demente scriverebbe un libro. Una demente o Liala. Le donne sono così: si ammantano di cultura e scrivono d’amore, come le serve o le bambine che sfondano il baratro dell’adolescenza. Ma leggerò, ora. Così tu, uomo con gli occhiali la barba e la camicia a scacchi piccoli bianchi e azzurri e un paio di pantaloni colore della sabbia che vanno bene in vacanza oppure in treno, smetterai di parlami e starai zitto nel tuo sedile di finta pelle marrone che con un tasto si allunga e con un altro ritorna su. Esattamente come il tuo sesso flaccido che si rizza a comando, se la mano della tua donna è abile oppure giovane. O tutte e due le cose. - Immagino che le chiedano sempre le stesse cose. L’uomo ridacchiò, la erre quasi musicale. - Abbastanza. Rispose senza dare inflessioni giocose alla voce. Aveva imparato che se non vuoi dare confidenza non puoi essere gentile. La gentilezza l’aveva sempre costretta a ricevere troppe domande e inventare troppe risposte. - Proverò a chiederle cose diverse dal solito. Non serve, maledizione. Non serve. Non chiedermi cose che non ho voglia di dirti. Non sono qui per fare conversazione, ti ho concesso di sederti a un posto non tuo ma non abusare di me. Taci. Sei nessuno, capisci? Nessuno! - D’accordo. Accidenti anche a me quando non so tacere e dire no, non voglio. Cazzo, perché ho detto “D’accordo”?. Vide il sorriso sul volto anonimo dell’uomo che sedeva a gambe larghe di fronte a lei, con un telefono nero tra le mani e le ditate sul display. Cincischiava il telefono e lo rigirava senza guardarlo, con le dita grosse e le unghie tagliate male. Non c’erano calli su quelle mani, erano bianche e morbide e forse un po’ flaccide come tutto l’insieme di lui. - Come mai viaggia nel salottino business? L’ha sempre fatto o ha iniziato con i soldi della pubblicità? - Vuole sapere se sono parvenue oppure se sapevo anche prima dell’esistenza del salottino business? L’uomo rise e si sporse in avanti. Armi spuntate fratello, non sono qui per farmi crocifiggere da uno che pensa che fare la modella per una pubblicità significhi essere idiota. - Più o meno Allora, viaggia in salottino da quando ha fatto i soldi con la pubblicità? - No. Lo faccio da anni, perché nel salottino trovo silenzio. Di solito. Calcò il tono sull’ultima frase. L’uomo parve non accorgersi. - A cosa le serve il silenzio? - A pensare, leggere e qualche volta scrivere. - Scrivere? - Sì. Lettere. Mi piace scrivere lettere agli amici. - E le scrive in treno? - Passo molto tempo in treno e scrivo, sì. Ma il più delle volte guardo fuori e mi accorgo di dettagli. - Quali, per esempio? - Ha notato i paesi nel tratto Bologna-Firenze? Ha visto le stradine e le chiese, e le costruzioni di pietra? - Certo. Stai mentendo bastardo, lo vedo dagli occhi. In realtà ti sembra tutto scontato ma non vuoi ammettere che ti sto dando immagini che non conosci. Per te il tratto tra Bologna e Firenze è solo uno spazio che non sia come riempire, una noia da superare in attesa di arrivare dove è deciso che tu debba arrivare. - Bene, se anche lei nota questi dettagli sa di cosa parlo. - Lo so ma non capisco ugualmente. A cosa le serve guardare? Se sta tanto in treno è sufficiente guardare una volta o due, il paesaggio è sempre lo stesso. - Non lo è. Può conoscere il paesaggio e stupirsi di piccole cose che nota solo una volta, con il passaggio veloce del treno che confonde e porta via. Sono visioni d’istante, sembrano fotografie, tanto che mi è capitato di mettere in dubbio la realtà della visione. A volte sembra che ci siano flash che colpiscono prima il cervello poi gli occhi, entrano dentro e non si staccano e fanno venire voglia di scendere per controllare se sia tutto vero. Mi viene voglia di visitare quei luoghi nascosti e immusoniti per la presenza della strada ferrata. - Strada ferrata? Che espressione antiquata! Lo diceva mia nonna. - Bé, il passaggio del treno. Insomma, mi ha capito. L’Eurostar passa in mezzo a posti da favola, dimenticati dall’uomo e forse da dio. L’uomo parve illuminarsi. - Esiste dio? Sei banale, uomo, tremendamente banale. Non cogli i dettagli e vai sui massimi sistemi. Tipico degli ignoranti stupidi, la peggiore categoria. Quella che si crede colta perché ha finito l’università ma in realtà non ha mai approfondito niente. Scommetto che citi spesso scrittori e opere ma non ti ricordi il contenuto. Sorrise. - Non ci ho mai parlato, non saprei dire. Era una frase fatta e per questo mi scuso. Intendevo dire che quei piccoli paesi sono bellissimi e allo stesso tempo inutili, ci si chiede cosa si faccia lì. Come si possa vivere in agglomerati di case arrampicati su montagne dove non esiste nemmeno la beatitudine del silenzio vero perché almeno ogni mezz’ora un treno superveloce sibila e sferraglia. - Ha mai immaginato l’emozione dei bambini piccoli che vedono passare il treno? O le fantasie dei vecchi seduti fuori con la sedia di paglia, a pensare cosa sarebbe accaduto se anni prima fossero saliti su uno di quei treni? - Non ho mai visto bambini e non ho visto vecchi, è questo il punto. Forse perché il treno va troppo veloce. - O forse perché una come lei si ferma a guardare i boschi e le case ma fugge le persone. Perfetto. Siamo alla psicologia da due soldi. Sono la modella capitata per caso nel salottino del treno e lui si diverte a farmi notare che le mie osservazioni sono sciocche, da donna viziata e vuota. -Come sono, le donne come me? Lo disse rapidamente, buttando fuori il fiato. - Non si offenda, non era una critica. - Non mi offendo, voglio solo sapere come sono le donne come me visto che apparentemente lei conosce la categoria nella quale includermi. - Qualcuno le chiama donne in gamba, altri le definiscono donne in carriera. Io penso siano, siate, donne con un DNA molto fortunato che si scontra troppo spesso con la realtà. - Non le sembra troppo per una conversazione iniziata in treno? - Vede? Si è offesa. Forse avrebbe preferito una serie di domande più noiosa e abituale. Tipo “Come è arrivata alla pubblicità del telefono? Le ha cambiato la vita?”. Avrei preferito nessuna domanda. Avrei voluto un viaggio silenzioso immerso nei pensieri, io nei miei e tu nei tuoi. Se ne hai. Detesto chi pretende di conoscere gli altri perché insicuro, perché genitori noiosi e rigidi hanno inculcato categorie automatiche nelle quali imprigionare il mondo, per addomesticarlo e tagliargli gli artigli. Non sarò mai come tu credi, come chiunque voglia credere, perché sfuggo a gruppi e insiemi e solo una pallida intersezione tra più dettagli può forse avvicinarsi a un’ombra di me. - Non mi sono offesa. E’ solo che sentirmi definire in qualche modo, un modo che non ho capito ancora bene, con certezza quasi assoluta, mi ha infastidita. Non ci conosciamo. L’uomo tese la mano. - Mi chiamo Enrico Bentani, piacere. - Mara Cavicchini. - Lo so. So chi è lei, lo sa tutto il treno. Ma è bello che dia per scontato che sia necessario ripeterlo, la rende più umana. Me l’hanno detto altri. Forse hai ragione. Ma non posso fare a meno di restituirti la cortesia, mi hai detto il tuo nome e ti dico il mio. E prima o poi troverò qualcuno disposto ad ammettere che la mia faccia non l’ha proprio mai vista. - Abita a Roma? La domanda la fece respirare meglio. Perché era generica, scontata. La stretta di mano l’aveva fatta sentire troppo vicina a lui, le sembrava che sul suo corpo si fossero trasferite le stesse ditate che vedeva sul telefono che lui continuava a maneggiare per niente. - Sì. A Trastevere. - Beata lei. Mi piacerebbe abitare a Trastevere. Ebbe voglia di raccontargli del bilocale immerso nella natura, della scoperta di quel piccolo comprensorio nascosto con tante palme e le scale su e giù che le rigenerava l’anima ogni volta che ritornava. Non lo fece: i suoi occhiali spessi e la camicia a quadretti bianchi e azzurri le trasmettevano qualcosa di malsano, viscido, pericoloso. - Sì, mi piace molto. La gente è molto… Normale! L’uomo rise. - Avrei detto tutto ma non questo. Normale per i suoi canoni di normalità o in assoluto? - Per i miei canoni, direi. La normalità è sempre relativa. - Forse. Potrebbe giudicare normale qualcuno differenziandolo da lei, per dirne male oppure per invidiarlo nei momenti di insicurezza. Oppure può definire normale chi le è simile. - Ho sentito poche persone davvero simili a me. - Esteticamente non ho dubbi. Dentro è tutta un’altra storia. - Alludevo al dentro, invece. - Guarda sempre le persone dentro? - Sì. - Non giudica mai l’aspetto fisico? Restò in silenzio. Avrebbe voluto rispondere che no, non giudicava l’aspetto fisico. Però con lui l’aveva fatto subito, aveva provato fastidio per l’aspetto ordinario e flaccido del suo corpo e per il modo di vestire, si era infastidita per la stretta di mano e aveva giudicato malissimo gli occhiali spessi e le ditate sul telefono. Non erano tutte caratteristiche fisiche ma facevano parte dell’esteriorità. -Non credo. Forse lo faccio nei primi istanti, vedo lo sguardo e le mani e il portamento. - Secondo me fa come facciamo tutti, cioè si lascia attrarre dalla bellezza fisica e dal fascino, oppure prova repulsione se qualcosa nel corpo dell’altro non le va a genio. Chi sei? Cosa vuoi, Enrico Bentani? Come ti permetti di decidere per me? Era vero. Lo sapeva. Ma che senso avrebbe avuto ammetterlo? - Può darsi. - Lo fa. Lo faccio anche io, che ho preferito chiedere a lei se questo posto fosse libero piuttosto che sedermi nell’altro salottino dove h visto un uomo anziano e una donna pochissimo più giovane di lui, probabilmente molto perbene ma per niente stimolanti. Forse ho perso l’occasione della mia vita, se quei due sono filosofi affascinanti oppure magnati in cerca di un erede o, ancora, editori in cerca di un nuovo talento letterario da scoprire. In realtà ho preferito lei perché l’ho vista e riconosciuta, e anche se non l’avessi riconosciuta certo non mi sarebbero sfuggite le gambe accavallate con quei jeans aderenti e il seno che si vede benissimo visto che non ha chiuso la camicetta. - Ma cosa. - Non si arrabbi, stavo semplicemente ammettendo che anche io valuto in un istante chi scegliere e perché, e di solito la scelta si basa sull’esteriorità. - Vuole scoparmi? La domanda le era sfuggita. Per rabbia, per trovare qualcosa cui aggrapparsi per umiliarlo. Per dimostrargli che quella sbrodolatura di parole non serviva a niente. Lo vide ridere. - Accidenti, si sta scaldando! No, non era questo lo scopo, perdoni il gioco di parole. Non ho lo scopo di scoparla, ma se a lei è venuto in mente non mi tiro indietro. Sorrise. - Lasci perdere. Ritorniamo al discorso un po’ più serio. Forse ha ragione, giudichiamo l’aspetto fisico, ma quanto può reggere? -Intende dire quanto tempo possiamo stare accanto a una persona che ci piace esteriormente? - Sì, supponga di incontrare una donna – non me – che le piaccia fisicamente, e di essere ricambiato. Se poi in quella donna non vede niente di interessante, se lei non la sa stimolare anche con la testa e non solo con il corpo, che fine fate entrambi? - Non mi pongo il problema, sinceramente. Se incontro una donna che mi piace e lei ricambia, intanto vivo momenti molto intensi. Quando la passione cala passo ad altro. E lei anche. - E’ una risposta sciocca. - Ma vera. - Molto maschile. - Lo crede sul serio? - Sì. - Significa che secondo lei le donne non hanno lo stesso meccanismo di seduzione? - Le donne non sono così brutalmente materiali. - Le è mai capitata la scopata di una notte? Sì. - No. - Bugiarda. - Perché? - Perché i suoi occhi si sono allontanati mentre rispondeva, e perché a tutte le donne o quasi è successo di andare a letto con un uomo incontrato per caso, senza poi rivederlo. - Quando l’uomo è deludente può succedere di non rivederlo. - Bella battuta, che non fa altro che corroborare la mia ipotesi. Anche lei, come la maggioranza delle donne, ragiona come gli uomini ma non ama ammetterlo. Vede un uomo che le piace e lo desidera. Se il corpo di quell’uomo, il portamento, gli occhi, le mani la attraggono metà del lavoro per lui è fatto. - Che squallore. -E’ la verità. - Forse parliamo di due cose diverse, o siamo arrivati ad argomenti diversi partendo da un inizio comune. Lei sta parlando di sesso, io alludevo a… Non seppe continuare. Cosa stavo dicendo? Accidenti, da dove sono partita e perché sono arrivata qui? Non so chi sia e sta parlando di sesso con me. Lo vide ridere. - Lei alludeva al mantello dorato che voi donne mettete alla sana voglia di accoppiamento, scritta nel DNA dall’inizio della vita. - Sempre più squallido. - Sempre più vero. - Ma non si è mai innamorato? - Cosa c’entra? Certo che mi sono innamorato! Ho avuto tre mogli. - E si è innamorato del corpo o di altro? - Del corpo e di tutto il resto. Ma questo non ha relazione con ciò che dicevamo. L’inizio, la seduzione vera, quella che è presupposto di tutto e può essere contemporaneamente inizio e fine di un rapporto, è basata su una chimica perfetta che rende uomo e donna reciprocamente desiderabili. L’esteriorità, attenzione non sto parlando di bellezza ma di esteriorità che è molto diversa e assai complessa, ha un ruolo fondamentale. - Ora non mi elenchi le solite storie sul fascino che non è bellezza ma è un insieme di gesti e parole e silenzi, e ammiccamenti. Sembriamo due bambini che giocano a fare gli adulti e dicono cose tanto scontate da apparire patetiche. - Aggredisce sempre quando si sente stretta a un angolo? - Non mi sento stretta a un angolo. - Bene, allora risponda con sincerità alla domanda di prima. Ha mai avuto un’avventura con un uomo per una notte sola? O un pomeriggio, o un’ora, o cinque minuti. - Una sveltina? - Mi piace quando non si nasconde. Sì, parliamo di sveltina se le piace. - Sì. - Ah, finalmente. Quando? Adesso esageri. Va bene farmi ammettere che qualche volta ho avuto uomini per una scopata di passaggio, ma raccontarti quando e come e dove e perché… - Lasci stare. - Non sono affari miei? - Esatto. - Peccato. Sembra una donna dalla sveltina intrigante. - Senta. - Va bene, lasciamo perdere. Anche qui vedo che non riesce a sciogliersi. - Come può pensare che mi sciolga su un treno, con un uomo che – mi scusi – appena è salito ha iniziato a tempestarmi di domande indiscrete e mi ha detto nome e cognome che potrebbero essere inventati? - La diverte, vero? - Cosa? - Non sapere chi sono. Non mi diverte affatto. Sei brutto, flaccido e secondo me ti lavi poco. Stronzo. Pensi che sia la modella facile da scopare appena arrivati a Roma, ma sbagli. Ho i miei casini e voglio solo smettere di ascoltarti e leggere il mio libro. - Perché vede, signora Cavicchini, se davvero volesse farmi tacere l’avrebbe già chiesto e ottenuto da un sacco di tempo. Invece risponde alle domande e finge di offendersi, ma intanto si chiede chi io sia e perché insista nel tormentarla. - Non le ho chiesto di tacere perché non è il mio carattere. -Certo che lo è. Ha un libro accanto, non l’ha aperto. Forse è molto brutto e sarebbe solo un ripiego, ma potrebbe anche toglierla dall’imbarazzo. - Qui sbaglia. Non sono imbarazzata. Le puntò addosso uno sguardo silenzioso. Per la prima volta notò che gli occhi erano verdi dietro le lenti spesse, le pupille piccole e nerissime circondate da un vago fluttuare di acqua di mare. La mano sinistra aveva abbandonato il cellulare sul sedile accanto, vuoto. La camicia azzurra, lo vedeva solo adesso, era aperta sul petto abbronzato. Il respiro alzava e abbassava il torace lentamente. - Non mi imbarazza parlare di sesso. Sentì di arrossire. Gli occhi di lui non la lasciavano stare, improvvisamente sentì che l’aria era calda e soffocante. Il treno frenò all’improvviso, il libro cadde e lui si chinò. Prima di restituirlo lo guardò. - Interessante. L’ha già letto? - No, sono stata alla presentazione ieri e l’ho comprato. -Legge molto? - Abbastanza. -Lo immaginavo. Appoggiò la schiena al sedile e sentì i muscoli rilassarsi. Le stava offrendo uno spiraglio, una via d’uscita. - Lo immaginava dal mio viso nella pubblicità del telefono? - No. E’ il suo italiano. Lo usa bene. -Ha in mente il cliché della modella ignorante e incolta? - No. - Meno male. Anche perché non sono propriamente una modella. Ho trentacinque anni, ho posato solo per quella pubblicità. - Strano. Non esiste una gavetta anche nella sua professione? Si irrigidì di nuovo. - So cosa sta pensando. Che sono arrivata a quella pubblicità perché sono stata a letto con qualcuno che conta. In realtà non è così. Quella non è la mia professione, è vero, però qualcuno mi ha notata e mi ha proposto di tentare. Ho accettato. - Divertente. - Cosa? A me sembra banale. - Divertente che voglia che io pensi di lei che non è come sembra. Ma io non penso affatto che lei sia una donna vuota e un po’ incolta, le cui relazioni si basano solo sull’esteriorità. - Oh no, di nuovo? Le si avvicinò sporgendosi in avanti, senza toccarla. - Mi chiamo Enrico Bentani, non immaginavo di trovarla su questo treno e sono felice dell’incontro. Non ragiono per stereotipi cretini e mi sono divertito molto in questo viaggio. Lei è una donna bella. Fuori e dentro, ne sono sicuro. Ancora gli occhi, vicinissimi a lei. E un alito caldo senza odore, come una carezza. - Non saprò mai quale sia stata la sua ultima avventura con un uomo che non ha più rivisto, o l’avventura più intrigante. E’ un peccato. La mia avventura più recente è stata poco prima di partire, con una donna bruttina che mi è piaciuta per il sedere grosso e lo sguardo intelligentissimo. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere e mi ha conquistato con mille, diecimila argomenti mescolati insieme. Poi è venuta con me nell’ascensore del parcheggio dove entrambi abbiamo lasciato la macchina, si è chinata, mi ha aperto i pantaloni e ci ha infilato il viso. Li vide. In un ascensore buio e fermo, la mano di lui sul pulsante di stop. E gli occhi chiusi al momento dell’orgasmo, nella gola aperta di lei. - Come si chiamava? Gli occhi, ora aperti in un sorriso maligno. - Non lo so. Tentò di fermarsi. La mente voleva chiedere se fosse stato solo quello, se lei avesse voluto le sue mani addosso o se ne fosse andata con il sapore che la penetrava e l’eccitazione ancora a metà. Chiuse le palpebre per qualche secondo, imponendo al cuore di rallentare. - Sapresti fare meglio, Mara, sono sicuro. Sibilava. L’odore del suo sudore le riempiva la testa. Faceva caldo. Fissò le cifre sulla camicia, che stonavano e non c’entravano con i quadretti bianchi e azzurri. LV. Ebbe la forza di capire che non si chiamava Enrico Bentani, ma l’informazione non le servì. Vide la propria mano andare avanti, senza il controllo della razionalità. Sentì il contatto con i pantaloni colore della sabbia, li sentì tesi e duri. Con le dita strinse, come a prendere il suo sesso in mano. - Mmmm Il suo gemito le strizzò il fiato, con l’indice raggiunse la cerniera e la fece scivolare giù. Infilò le dita, il cotone degli slip era bagnato. Mosse le dita e la vista si offuscò quando lo sentì. Poi un colpo secco sulla spalla, e il corpo che sbatteva sullo schienale. La mano uscì dai pantaloni e ricadde sul suo ginocchio. Enrico si alzò e chiuse la cerniera, sorridendo. - Stiamo arrivando a Roma, ha visto? Abbiamo passato Trastevere. E’ ora di scendere. E prima che lei potesse aprire bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, aprì la porta dello scompartimento e se ne andò.
Ama gli spazi vuoti. Si sente circondata e piena, per un contrasto che non ha mai saputo spiegare. Il vuoto non le impone di essere, lascia che trovi la forma senza opprimerla con angoli e curve, e oggetti che tanto non saprebbe guardare.
Guarda le case degli altri, succede spesso. La sua vita incrostata di gente la butta negli usci e la spinge a osservare; e cerca il vuoto, anche là. Intontita di parole e vini pregiati che spuntano per aperitivi che non le piacciono, si adatta alla folla e sorride come sa fare, mangia ironica l'oppressione densa degli incontri che potrebbe evitare. Insomma. Quando entra in una casa che non conosce cerca di restare sola per qualche minuto: con le mani assaggia il muro, ne sente la consistenza fresca e la grana della pittura, poi scivola ai lati e si lascia assorbire, come se le pareti fossero l'unica cosa che conta. L'unica cosa in grado di capirla e fermare l'angoscia. O la morte, quando è la morte e rincorrerla con grumi di pensieri che sembrano avere una fine imminente.
Perché sì, il vuoto. Lo cerca nei treni, nelle aule dei tribunali se discute le cause dei clienti, nei bagni dei ristoranti dove si rifugia almeno una volta per respirare durante le cene con gli amici o i colleghi. Cerca il vuoto e lo organizza nel suo appartamento da single per avvolgersi di quiete la sera, dopo lo studio. Entra e butta le scarpe nello sgabuzzino, toglie i vestiti e indossa la tunica verde che ha portato dall'Egitto, poi si immerge nel vuoto: ha una stanza senza mobili, con le pareti bianche spoglie e due finestre grandi senza tende che danno su un prato nudo di alberi e fiori. Si ferma al centro della stanza, annusa l'aria e si avvicina ai muri. E con le mani scivola su tutto il perimetro, strofinando anche il viso e la fronte, qualche volta girandosi per sentirlo sulla schiena e cadendo seduta in un angolo, la tunica liscia a solleticarle la pelle e le dita ferme, sul pavimento. Ai lati di lei.
E' stato in quella stanza che ha voluto Francesco. L'ha invitato a casa quando è stata certa del suo desiderio, l'ha portato nel vuoto. Gli ha detto: "Lo facciamo qui", e senza parlare si è tolta il vestito da sera rosso che gli era tanto piaciuto. Lui l'ha seguita, senza chiedere niente. L'ha accarezzata a lungo con le mani che sembravano petali di tulipano, poi è entrato in lei e l'ha sentito sospirare. E' durato tanto, l'amore di quella notte nella stanza del vuoto. Ha esplorato il suo corpo come fa ogni sera con il muro, come fa nelle case degli altri, l'ha toccato e annusato e leccato lentamente, ascoltando i suoi gemiti e accogliendo le mani strette tra i capelli. Poi hanno dormito, nudi sul pavimento e con le braccia ancora strette a tenersi vicini.
Si è svegliato presto, al mattino non ancora nato. Lei era supina, ha sentito il suo corpo entrare di nuovo. Senza chiederle se fosse sveglia, toccandola solo un po'. E' stato il momento che non ha dimenticato, quello che evoca nella memoria per sorridere ancora. Dentro di lei nell'abbozzo di veglia, con le spinte prepotenti di un uomo che lo fa perché ne ha voglia. Lo fa perché così gli piace. E così piace anche a lei.
Non l'ha più visto, o forse si è dimenticata di chiedere. E' il tempo, dice, e legge i suoi sms con la piega degli occhi intrisa di gioia. Lo bacia davvero, o è lui a baciarla; nel vuoto dei muri che sente con le dita ricorda le mani che sembrano tulipani. E le aspetta, perché sa che verranno.
Francesco, la rinascita fresca della sua solitudine. L'incontro inatteso. E' successo nel vuoto, nella stanza che la riempie senza ferirla, che non le impone oggetti che tanto non interessano. Perché non sa vederli.
C'erano i loro corpi nudi, e i muri. E questo bastava.
Sta fermo. Ha controllato l’ancora e guardato a destra e a sinistra, poi con le braccia indietro si è mosso come per svegliarsi, si è stiracchiato un po’ e si è sdraiato a prua. Con la testa verso di me e neanche l’ombra di un sorriso. E dire che l’ho sentito arrivare. Scrivevo esposta all’unico refolo di aria di questa baia piccola con gli alberi verdi e l’acqua di cristallo, lottavo con la batteria del computer che si scarica quando non deve e qualcosa ha spostato la mia attenzione.Dalle parole che nascevano sulla tastiera, sullo schermo, a un punto dell’orizzonte deciso a caso, dove una nuvola d’acqua formava un arco perfetto, un’onda traboccante da un motore più grande del normale. Non potevo vedere il colore della barca, vedevo la velocità e la massa di gocce a miliardi che le obbediva a quattro, sei, otto volte la potenza che posso immaginare. Ho sorriso. Ho pensato che forse, sì, anche questa estate avrei avuto la sorpresa di una sua comparsa.Ama apparire all’improvviso per dirmi che ha scoperto dove sono, che i miei piccoli trucchi di mutismo denso servono a niente se c’è di mezzo lui; vuole fermarsi in rada poco lontano e guardarmi vivere senza tentare di chiamarmi. Gli basta che lo veda. Devo vederlo bene quando lo fa: si mette in vista e se ne frega dei fotografi e della gente, si sdraia più o meno nello stesso punto della prua e fuma, legge due o tre giornali e guarda, guarda, guarda. Chiama i miei occhi per riempirli di sé. Come ha sempre voluto. Come adesso. Ha una gamba accavallata sull’altra e resta immobile, tutt’uno con la prua che dondola, e ha il collo piegato in su, in una posizione innaturale. Potrebbe restare così decine di minuti senza avere dolore, e lo farà forse. Perché vuole che sappia che non sto sbagliando, non è un’illusione del sole o di questa scrittura accaldata in una baia dell’isola: è lui, come ogni anno, come ogni volta che vuole. - Non parlarmi se non vuoi, ma sono qui. L’anno scorso fu l’ultimo giorno in quell’isola dove rimasi una settimana. Mi accorsi quando già la sua barca era ferma, ancorata, e la posizione a prua era solida come una statua inamovibile. Notai il colore e le dimensioni, il lusso che appartiene a pochi, e strinsi le palpebre per evitare un errore. Che non ci fu. Perché una mano piccola con le dita lunghe fece “ciao ciao”, poi si appoggiò a una coscia e non si mosse più. Fino a sera, quando ripresi rotta nel verso opposto e lo lasciai andare. Senza una parola. Insomma. Mi guarda e non rilassa la testa indietro, indovina i miei occhi che si alzano dalle parole sullo schermo e vanno a lui. Ostinati nel silenzio ma fissi nel sorriso nascosto che mangio perché così ho deciso, tanto tempo fa. Mi guarda e se ne frega. Qualcuno ha mosso le braccia per indicarlo, una voce da qualche parte ha sussurrato, rimbalzata dal mare: - Guarda chi è. Fermo, la schiena appoggiata a una prua fulminea che taglia le onde e non ci mette niente, se solo vuole, ad arrivare qui. Come oggi, come ogni anno. Lo immagino partire quieto, indicare la rotta con poche parole e un sorriso gentile, poi pilotare da solo aumentando la velocità fino al massimo per sentire il ruggito dei motori e vedere l’acqua spostarsi al suo passaggio in ali ampie e rispettose. Lo sento rispondere a telefonate evasive, gli occhi sul mare e sul bianco della barca, e buttare lì due o tre “Non posso” senza pensarci troppo. Lo sento arrivare, sempre, con quella parte del mio corpo che sa solo vibrare, e non sbaglia mai. Se mi tuffassi aspetterebbe due minuti, poi andrebbe sulla punta della prua, proprio sopra l’ancora, alzerebbe le mani tese e, con un salto impeccabile, verrebbe giù, a cercarmi con tre bracciate perfette e bellissime. Con grumi di ironia da vomitarmi addosso e le dita pronte a sfiorare il mio corpo senza costume, e il ghigno divertito di chi non rompe un rito e sa che non smetterà di tentare. - Acqua bellissima, oggi. Disse così, anni fa, nel corridoio stretto di Lucia Rosa. E non potei fare altro che baciarlo.
La grandine è arrivata dopo la pioggia, e la pioggia insieme al vento. Difficile dire quale acqua fosse su, prima, e quale aspettasse in laguna, increspata di onde e vaporetti: c'è stato un attimo di minuti densi in cui ogni acqua è stata sopra, sotto e dentro, e il vento ha buttato pallottole di odori fuori dalle finestre. Catapultata dal cielo, la massa di ghiaccio vomitata a pezzi simili a falangi di dita grosse ha travolto gioielli e vestiti da sera e arricciato la tenda rossa che avrebbe dovuto coprire e proteggere (e dondola carica d'acqua, adesso, con fili piccoli che cadono come bava di vecchio sulla terrazza deserta).
Il pontile di legno vuole spezzarsi, cavalca onde alte imbrigliato dalle catene e tira, tira, tira. Ho visto galleggiare oggetti rubati dalla tempesta, li ho seguiti con lo sguardo pensando che qualcuno li avrebbe cercati, prima o poi. Perché, prima o poi, si cerca tutto, almeno per essere sicuri di avere perso il superfluo.
Qualche gondola naviga piano. I taxi più audaci accelerano con il tassametro spento e oltrepassano barche con i tendalini pesanti di acqua raccolta nel temporale che ancora gorgoglia.
Una mano mette un piatto sul mio tavolo rotondo e pieno solo di me; non riconosco il cibo, non è qualcosa che ho chiesto. Il cameriere non spiega. Mangio e non capisco, ma il sapore molle di medusa piccante mi piace, vivrò ignorando cosa mi abbia dato piacere. E dimenticherò presto.
E' bella questa sera ferma di piogga e parole a Venezia. Un flash oppure un lampo di temporale non pago, un taxi bianco che arremba il pontile indemoniato di onde. Si scivola, credo, le donne in vestito da sera e tacco undici o dodici dovranno tenersi a mani più salde.
Acqua. Nel mio bicchiere di Murano marrone, nella laguna indaco che non sembra più sporca, nella tenda rossa ingobbita della terrazza dove la gente beveva prosecco. Acqua. Venuta a lavare con una tortura improvvisa l'eccesso palese dei ricchi.
C'è un cameriere giovane che per farmi sedere ha spostato questo tavolo rotondo e l'ha coperto in un istante con la tovaglia grigia, e le posate, e il pane di lusso. Mi guarda e sorride, mi chiama "la signora da sola" e passa spesso da qui, sbircia il taccuino e mi chiede se tutto va bene. Va bene, sì, tutto va bene. Quando alzo la testa vedo il vaso dei fiori rossi che non conoscevo, li ho bevuti di sguardi prima di appoggiare la penna sul foglio. Sono fiori carnali, bellezza perfetta di quasi pornografia. Mi hanno ricordato, per un tango sensuale di allusioni giocose, una notte a sorpresa che mi ha salvato la vita. Ci fu preveggenza, in quella notte. Ci fu l'erotismo di anime libere incontrate sui libri. Rosso, come quei fiori. Rosso come sei stato tu, bell'incontro di una provvidenza laica cui forse da allora riesco a credere.
Ci sono cose che restano e altre che arrivano e partono. Anche qui. Grazie per il numero incredibilmente alto di letture al post "di una cognata", ho ricevuto tanti messaggi personali e capito che alcuni argomenti suscitano molto interesse (purtroppo?): il post non sparisce, resta nascosto per un po' perché ha fatto nascere l'idea per qualcosa di più lungo. Ritornerà presto.
C’è terra ovunque. Se uscirò vivo da qui ricorderò il sapore dei granelli scuri che mi sono entrati in bocca, si sono infilati tra i denti e hanno insozzato la lingua, scivolando in gola nonostante tentassi di sputare. Terra davanti agli occhi e dietro la nuca, sul palmo delle mani e nelle pieghe delle ascelle; non riesco ancora a guardare in basso perché il dolore alle spalle non accenna a passare, ma sono sicuro che i miei piedi nudi (le scarpe sono state tolte quando mi hanno portato via dalla macchina, alla curva della chiesa del mio paese) siano incrostati di zolle di terra nera mista a piccole radici e foglie. E sangue. C’è sangue fino alle caviglie, lo so, perché mi hanno fatto camminare ore senza badare al fatto che non avessi le scarpe: bendato, con i polsi legati dietro la schiena andavo avanti in un bosco (sentivo gli alberi frusciare, e l’alternanza dell’ombra e della luce si insinuava tra gli occhi e la benda fetida che mi hanno messo intorno alla testa) e inciampavo, sentivo sassi e rovi che mi colpivano e non potevo evitarli.Credevo che prima o poi sarei salito su una lama dimenticata per caso, o su una siringa, o su qualsiasi altro oggetto lasciato da chissà chi e destinato a ferirmi, invece i due uomini che mi hanno calato dentro questo buco hanno detto che non mi sono fatto niente, hanno sputato sui graffi e strofinato con le maniche delle camicie. Anche quelle piene di terra. Quindi sì, ci sono terra e sangue e foglie sulle piante rotte dei mie poveri piedi. Le stesse foglie che ho vomitato, pochi minuti fa: due conati mi hanno spaccato il torace e filamenti di bava schiumosa e sporca sono schizzati fuori da me, misti a grumi gialli e a terra, ancora, e foglie macerate ma riconoscibili e pezzi di bosco che in altri tempi avrei amato. Ora li odio. Perché sono la mia prigione. E detesto vomitare. Se muovo troppo la testa vado a finire nella poltiglia di vomito e fango spruzzata sulla parete di questo buco, che sfiora da vicino la mia guancia. Sento la lingua che brucia, e se chiudo la bocca i denti stridono su uno strato sabbioso che si rende spugna, e se non sto attento si attacca al palato e mi fa vomitare, ancora. Del rapimento ricordo tutto. Mi hanno tolto dalla macchina tirando forte il mio collo, per questo adesso mi fa così male. Ero alla curva della chiesa, a meno di duecento metri dal cancello di casa mia, mi hanno fermato mettendosi di traverso e impedendomi la retromarcia, sono venuti verso di me e mi hanno strappato dal sedile. Erano in due, cioè quattro braccia grosse e puzzolenti di sudore, hanno detto di stare calmo e zitto e mi hanno schiacciato tra le gambe sul tappetino di una macchina. Qualcuno che non sono riuscito a vedere guidava, i miei rapitori invece stavano seduti dietro, con me sotto le gambe. Poi un fazzoletto sulla faccia e ho dormito. E dormito. E dormito. Nella testa avevo il rumore dell’automobile che correva, e parole che non sapevo seguire. Non mi hanno fatto mangiare, abbiamo viaggiato tutta la notte e una parte del mattino e sono riuscito a bere qualche sorso di acqua dal collo di una bottiglia di vetro che si passavano a vicenda e ogni tanto davano anche a me. Questo bosco è su una montagna, lo so perché ho camminato sempre in salita. Il sudore scendeva e incollava la camicia sporca alla schiena, le cosce erano di marmo ma non hanno ceduto. Li ho seguiti con la mano di uno di loro che mi spingeva la schiena, e quando mi hanno tolto la benda dagli occhi si erano messi addosso un cappuccio nero; hanno indicato questo buco stretto come una tomba in cui morire in piedi, hanno detto: - Entri da solo o ti caliamo noi? Ho visto la terra, e il buio. Uno di loro ha detto qualcosa, forse voleva che fossi sicuro di non morire. - Non preoccuparti. Non vogliamo ammazzarti. Hai abbastanza spazio per mangiare e fare le tue cose. Fare le mie cose. Ha detto così, e per un istante ho sperato che mi sparassero in testa e mi ci buttassero morto, nel buco che sembrava troppo stretto per me. Poi mi sono calmato, ho preso un respiro lungo e sono sceso qui dentro, con le loro braccia a sostenermi le ascelle. Ogni giorno che passa mi sembra più largo, o forse sono io che mi restringo e divento una radice, un filo ritorto e marrone che prima o poi si confonderà con il resto e nessuno verrà più a ricercare. Diventerò un lungo ramo nodoso e morto, i miei occhi spegneranno la poca luce che ancora possiedono e il pensiero si perderà nel muco giallo della tosse che da un po’ non mi lascia in pace. Mi devo abituare. Sono nel mio nuovo ambiente naturale, una casa dove la pioggia fa scendere melma e il sole batte senza sollievo. Devo vivere immerso nella mia latrina e mangiare muovendo appena le mani quando calano gli avanzi attraverso il buco, e imparare a muovermi nel fetore che io stesso produco senza vomitare di nuovo. E senza morire. Mia moglie, chissà come ha preso il mio rapimento. Ho provato a immaginarla mentre venivo qui, ma ho capito che non posso permettermelo. I ricordi non aiutano in questa tana da animale indecente che mescola feci a vomito al poco cibo che mi danno e che mando giù tutto per non deperire. C’è terra, qui, e ci sono io. Da solo. Nessuno può tendermi la mano, nessuna immagine può salvare per un istante la mia disperazione. Se mi fermo a pensare che sono stato un uomo, e ho amato qualcuno, e ho avuto un tempo in cui sono stato capace di vivere fuori da questo buco la mente si perde, e la morte fa un passo avanti. Sono diventato un animale, una belva prigioniera bisognosa di tutto o forse di niente. Certo non ho bisogno di amore, non qui e adesso che lotto per restare vivo.
Terra. C’è terra qui. Fa parte di me. La mangio senza più badare al sapore. E la luce lascia il posto alla notte.
Non si ritorna. Mai. Lo sapeva. Ma volle tornare. Aveva un segreto dentro adesso. E non sapeva se raccontarlo o tacerlo. Avrebbe deciso quando sarebbe stata lì. Lì fu un’aggressione. La farsa, la recita, il dovere, il rito. Sei la stessa! La stessa di allora! Io?!?! La stessa?!?! Io sono tutta diversa. Un’altra. Io ho un segreto dentro. Adesso. Una cosa da dire. Ti ricordi a Barcellona quando si ballava la sardana? Sì, certo mi ricordo. Ma ora cosa c’entra? Ti ricordi qui e là… ma sì, mi ricordo. E allora? Quella era un’altra. Io sono venuta per dire proprio questo. E poi quell’inverno gelido… col colbacco… a Berlino... Sì, certo, bello! Molto bello. E le venne la voglia allora di mostrare la cicatrice sul suo corpo. La vedranno, no? Sul corpo… visto che altrove non la vedono. Nel contempo ebbe la certezza. Non l’avrebbero vista nemmeno se l’avessero avuta davanti. Sei sempre tu! ?!?!?!?!?! “Ora le asserzioni…hanno questa caratteristica, che farle non costa niente…. In quanto asserzioni…una vale l’altra…”. Mi ricordo che ti piaceva… mi ricordo che dicevi… mi ricordo che andavi… mi ricordo che volevi… so che ti piace… so che pensi… “Allora ho pensato che questo significava…ridurmi a zero e in un certo senso sostituirsi a me.” Fu una consapevolezza lenta, malinconica ma non dolorosa, ovvia quasi. Sentirsi scollegata per sempre. Anche qua. Anche da loro. Io non sono delusa. Io ho voluto tornare per avere conferma. Per avere la prova che non esiste ritorno. Sarebbe stato peggio vedere il disagio, la curiosità, la noia… se avessi detto: io qui ho un taglio, qui…sì, qui…un buco… E le apparve l’insignificanza, per loro, del suo presente. Ci rivedremo? (Ma che ne so…). Vuoi… (Io non voglio niente). Ci scriviamo? (Scrivimi… come vuoi…). Ci vediamo, qualche volta, a cena? (Boh, forse…). Ti ricordi? “Allora tutta l’inutilità di ciò che facevo in quel luogo mi è rimontata alla gola e ho avuto una fretta soltanto…” Io ero venuta per vedere se è concesso cambiare. Se si può essere diversi e uguali nel contempo. Ricordo anche le conchiglie e le biciclette… e le campanule rampicanti e le more selvatiche… e là in fondo al sentiero una croce… e poi quel giorno un germoglio, un bocciolo… una rosa canina…. Ma non me ne importa! Io non provo dispiacere né gioia. Io porto in giro il mio corpo segnato. Mi ricordo. Ma è accaduto tanto tempo fa….”Ero giovane e mi credevo padrone della mia sorte”. Che sia venti anni? O dieci? O cinque? No, cinque è impossibile. Perché è collocato cinque anni fa lo spartiacque. Da allora ho un taglio… un buco… una ferita profonda. C’è il prima di cinque anni fa e il dopo di cinque anni fa. Tra il prima e il dopo non esiste comunicazione. Scelgo il dopo. Ma è una scelta obbligata. Perché il dopo è il presente. “Il fatto è che egli era ancora nell’età delle convinzioni, mentre io l’avevo superata, e avevo perduto quel privilegio,…” Io non ho convinzioni. Non ho canoni comportamentali. Lo vedo di volta in volta quello che devo fare. Io sono qua con un corpo. Terribilmente segnata e fratturata. Non sono venuta perché ho nostalgie. Ma per prendere atto. Del fatto che nessuna persona o cosa o pensiero del prima c’è anche nel dopo. Cioè nell’adesso. Quell’adagio ripetuto a cantilena ha perduto il suo significato. Carpe diem. Uno stereotipo. Carpe diem non significa cogli l’attimo. E tanto meno contiene quel che di godereccio che gli è stato affibbiato. Significa: stai nel presente. I ricordi e i progetti. Il passato e il futuro. Surrogati. Stai nel presente. Passato. Futuro. Zero. Niente. Altro. Altro dal corpo. Altro da adesso. Niente. Non-ente. Non-essente. Non-esistente. So che ho scelto di essere sola. So che ho voluto arrangiarmi. Scollegata da ogni recita, da ogni perbenismo, da ogni convenzione. So che ho rinunciato a spiegarmi. So perché sono venuta qua. E perché adesso me ne vado. Nel santuario della mia solitudine è già iniziata la salvezza. E continuerà. Stai bene. Sì, starò bene. Addio. Per sempre? Ma sì, certo per sempre. Addio significa appunto: ciao per sempre. Allora anche tu “mi salutasti-per entrar nel buio”.
E’ salita a Firenze. Me ne sono accorto perché è riuscita a svegliarmi: dormivo da almeno un’ora e lei si è avvicinata al mio posto e ha sbattuto con malagrazia un libro sul piccolo tavolino che dovrebbe separarci. Ho aperto gli occhi e notato i suoi goffi tentativi di farsi aiutare per sistemare la valigia sopra la nostra testa: ho finto di niente, più per l’irritazione di essere stato svegliato che per mancanza di galanteria. Sono gentile, di solito. Molto gentile. Lei ha guardato in giro e ha visto un uomo in giacca scura, che si è alzato e l’ha aiutata a piazzare l’enorme borsa al suo posto. Si è seduta, poi. Ha afferrato il libro senza aprirlo e mi ha osservato nascosta dietro un paio di occhiali da sole dozzinali, di quelli che usano quasi tutte le donne: lenti ampie e griffate, poca sostanza e molta apparenza. Ma sono cattivo, oggi: sarà la sveglia alle quattro e mezza, sarà la cena di ieri sera che non ho digerito, sarà questo viaggio inutile stupido completamente fuori senso, ma ho voglia di prendermela con il mondo. Senza pietà. Senza dare spazio a sensi di colpa.Comunque. Questa donna di fronte a me ha i capelli castani con qualche stria bionda inventata da un parrucchiere poco creativo, indossa un cardigan marroncino con qualche stupido strass e un orologio d’oro. Di quelli che potrebbero anche piacermi, se non fosse oggi se non fossimo qui e se non si trattasse di lei. Che mi ha svegliato lanciando un libro con un’irruenza che una donna non dovrebbe conoscere. Tenta di leggere, adesso, ma ha nelle orecchie gli auricolari di un piccolo aggeggio che squilla spara eiacula musica a volume spaventoso: come possa leggere e capire quel giallo da due soldi che ha in mano è incomprensibile.Devo bere un caffè. Sta passando il baracchino che scampanella, ho visto che per un euro di può avere un caffè stitico in tazza piccola: l’uomo me lo porge ma prima afferra l’euro. Bevo. Così forse mi passa la nausea. Oppure dimentico per qualche istante la sveglia di questa mattina e la stazione vuota con due poliziotti e un cane che mi ha annusato, il treno pieno di zanzare, la donna lamentosa dietro di me che non ha stampato il biglietto e pretendeva di avere ragione con il controllore, e lei. Lei qui davanti, con la faccia da stronza e il coraggio di svegliarmi sbattendo un libro sul tavolino.Questa arpia con la musica a palla nelle orecchie mi ricorda la ragazza che avevo al liceo. Si chiamava Clara e i suoi genitori erano morti in un incidente stradale: la aiutavano tutti, perfino i professori, perché era orfana. Ma io la conoscevo bene. Perché la scopavo. Era cattiva, cattiva dentro, e la morte dei genitori non c’entrava affatto: doveva essere il DNA, quell’insieme di geni che non si sa bene da dove venga a renderla tanto sgradevole. Se la prendeva con il mondo e sembrava trarre piacere dal tormentare provocare stuzzicare offendere la sensibilità di chi aveva la sfortuna di incrociarla. A me piaceva perché allargava le gambe senza fare storie e non disdegnava la mia creatività nelle pratiche sessuali più estreme. Le piaceva, anzi, che le chiedessi di provare cose nuove. Per un po’ feci finta di non notare la sua assoluta mancanza di grazia, la maligna bestialità, poi mi stancai: le posizioni sessuali erano diventate sempre le stesse e non mi divertivo più.La donna qui davanti ha chiuso il libro. Guarda impettita, con una ruga antipatica ai lati della bocca, una tizia che legge qualcosa. La giudica, sono sicuro: esistono persone che giudicano all’istante, come se fossero convinte di essere nate per quello. Non mi piacerebbe vivere con una donna così, e non è solo perché non ho mai vissuto con una donna: il problema è che ho in mente il modello preciso di femmina che vorrei, e non riesco a trovarne uno in carne e ossa. La dolcezza, quella pulizia che solo una donna può avere sono utopie. Forse. In ogni caso, non vivrei mai con la donna che adesso mi sta fissando. - Che cosa legge? Mi ha parlato. Ha aperto la bocca all’improvviso e ha emesso suoni, e ora aspetta che risponda. - La vita di una poetessa russa. Ho dovuto risponderle. So che non capirà: a malapena sa che cosa sia una poesia, si vede dagli occhi porcini e dalle sopracciglia arcuate. Infatti mi fissa senza espressione. - Chi è? Stiamo scivolando nel dramma. Nella discussione inutile paradossale sterile. Vuole riempire il vuoto della sua testa con qualche minuto di chiacchiere. - Una poetessa morta suicida. Il suo telefono squilla. Meno male. Appoggia all’orecchio un aggeggio colore della sabbia e dell’oro da mercato arabo, dal quale pende un’insulsa treccina marrone, e pigola. - Ciao, Anna. Sono in treno. Parlavo di poesia con un signore. “Un signore che hai svegliato sbattendo un libro giallo da dementi sul tavolino, un signore che ti trova odiosa e non vuole parlare con te. E ha capito benissimo che tu di poesia sai al massimo la litania che ti hanno insegnato all’asilo per la festa della mamma”. Sì, sono nervoso, ma non posso farne a meno. Non sopporto che si invada la mia vita come sta facendo questa donna. - No, non so come si chiami. “Mi chiamo Sergio ma la cosa non ti riguarda, e se me lo chiederai ti dirò che mi chiamo Mario”. - Come si chiama? Banale. Mi sorride come se fossimo complici. - Mario. - Si chiama Mario. Sì, esistono ancora uomini con un nome così. Fantastico. Vorrei che in questo vagone ci fosse un Mario incazzoso quanto lo sono io: mi piacerebbe vederlo alzarsi e schiaffeggiare questa cretina che squittisce dentro un cellulare improbabile. - Non so, ora chiedo. Lei scende a Roma? Non posso mentire. O Roma o Napoli, non si sbaglia. - Sì. - Sì, scende a Roma. Bé, ora vado. Chiudo, la linea va e viene e non sento ciò che dici. Clic. Mi guarda con gli occhiali da sole da maliarda. - Va a lavorare, a Roma? “No, ogni mattina mi alzo alle quattro e mezza e prendo questo treno del cazzo perché mi diverto”. - Sì. - Peccato, avremmo potuto bere qualcosa insieme. Bere qualcosa insieme. E’ peggio di quanto credessi. E’ una donna che non esita a proporre una bevuta al primo uomo che incontra in treno. Dopo averlo sgarbatamente svegliato con libri sbattuti, rintronato con musica vomitevole e disturbato nell’unico tentativo di leggere qualcosa. - Magari un’altra volta. Ho cercato di essere neutro. Non dico gentile, ma neutro. Lei sorride. - Non ha proprio tempo per un caffè? I miei occhi cercano aiuto. Siamo a Roma, ormai: lo capisco dalle quattro case con le scritte sui muri e dai cavalcavia annodati come serpenti. - Va bene. Avrei voluto evitare, questa volta. E’ già successo e so come è andata. Devo lasciare stare le donne come lei: sono cattive vuote stupide e se scopano lo fanno con astio, quasi volessero dimostrarti che sei un porco. Come tutti. Però il “Va bene” mi è scappato, e non posso più tirarmi indietro. - Benissimo! Il treno è in stazione. Scendiamo senza parlare. - Abito qui vicino, posso invitarla a casa mia? Ci penso solo due secondi: non fa differenza ormai, ho messo il mio libro in borsa e deciso di non pensare. Di non notare la faccia arcigna di questa donna che mi provoca e non si rende conto. - D’accordo. La casa è piccola e buia: l’odore di chiuso soffoca la gola, lei apre la finestra e si appoggia al davanzale. - Ho visto come mi guardavi. Annuisco. Tanto sarebbe inutile spiegare. - So che mi vuoi. Le altre volte. Le ho tutte davanti come scene di un film in bianco e nero. Le mani prudono, vorrei uscire. Sono ancora in tempo. Si avvicina. - Sei uno di poche parole. Mi piacciono gli uomini come te, sembrano sempre un po’ cattivi. Cattivo. No, non sono cattivo. Io. Sei tu a rendere tutto difficile. Allontanati. Le altre volte non sono riuscito a scappare, prima. Solo dopo. Oggi voglio andare via. E’ meglio anche per te. - Non essere ritroso. Mi piaci. Forza, sii coraggioso. Mi tocca. Ha messo la mano sui miei pantaloni. - Eddai. Non capisce, non riesce proprio a capire. Muove la mano e io mi sto eccitando. Adesso che la guardo da vicino vedo che è vecchia, ha gli occhi freddi e non conosce dolcezza. Sono sicuro che faccia la stessa cosa con tutti gli uomini che incontra. Tutti. Le mie mani prudono di più, sono sul suo seno adesso. - Bravo, così. Sospira e chiude gli occhi. Non posso fermarmi, non ci riesco più. Ma è colpa sua. Solo sua. Ero in treno e dormivo, mi ha svegliato con un libro giallo sbattuto sul tavolino, ha voluto parlare e portarmi a casa sua. Ha messo la mano lì e ora mi bacia. E’ lei che insiste. E non posso fermarmi, adesso. - Il letto è di qua. Mi prende per mano, andiamo in una camera ancora più buia. Sposta il copriletto che sa di polvere: sono sicuro che dovrò lavarmi molto bene. Non sopporto la sporcizia, mi si attacca al corpo e non se ne va più. Mi sdraio accanto a lei e la spoglio: sembra contenta mentre lo faccio. Sembrano tutte contente. Sempre. - Bravo. Sospira. Le mie mani le piacciono. - Continua. Non posso continuare. E’ tutto il corpo a prudere adesso. Sarà la sporcizia di questo posto, sarà lei che mi disgusta sarà che mi sono svegliato presto, devo finire. Finire subito. Per andare via. Apre le gambe e mi accoglie. Sembra avere capito come andrà a finire. Sospira ancora e ancora mentre lo faccio. Poi. Sono le mani, come le altre volte. Non le posso comandare. Si avvicinano al suo collo e lo sfiorano. Lo afferrano come per caso. E stringono. Stringono. Stringono ancora. Diventa blu: i suoi occhi mi fissano stupiti, li vedo attraverso la nebbia della stanza. Mi guardano tutte così quando le mie mani stringono forte: forse si chiedono perché. Eppure dovrebbero saperlo: si offrono al primo che arriva, lo trattano senza dolcezza poi chiedono perché. E’ un nonsenso. Stringo. Non respira più. Devo chiuderle gli occhi, non sopporto che mi guardi. E lavarmi, subito. Per andare via. Non voglio pensare al suo viso bovino e al libro che ha sbattuto sul tavolino, agli occhiali da sole dozzinali e a questa casa buia con la puzza di chiuso. Spero abbia tanto sapone in bagno. C’è molta polvere qui.
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