Ma senti. Ho provato ad ascoltare le registrazioni che hai mandato, le voci sono confuse e il brusio di fondo rende la mia angoscia una mano intollerabile e crudele intorno alla gola. Hai tentato di registrare in una stanza piena di gente, eri stretto a corpi e respiri caldi che forse servivano per farti sentire meno solo. Li avevo addosso, quei corpi vestiti di lana con un velo di sudore pulito e l'odore del legno; si strusciavano sulla mia pelle quasi nuda nel sole opaco davanti al mare, rabbrividivo perché non erano il tuo corpo, non gli assomigliavano, anche se lo ricordo ogni giorno un po' meno. Sei in una stanza foderata di legno: me lo immagino così, il vostro capanno isolato sulla cima della montagna, tutto di legno e con l'odore dei tronchi tagliati e verniciati per renderli simili a una casa.
Ascolto, ancora. Sento che provi a dire qualcosa, posso intuire la tua voce in mezzo a tante altre che si intrecciano e graffiano, disturbano la lettera che hai voluto mandarmi usando ciò che di te mi manca di più. La voce. Quando sei partito mi hai tenuta stretta, hai baciato il mio collo bianco e scoperto una spalla per morderla piano; la tua mano si è infilata sotto la maglia, per ricordarsi i capezzoli che solo poco prima avevi preso tra le labbra, gridando l'ultimo orgasmo che ho tenuto dentro finché ho potuto, finché è stato possibile allontanare la nostalgia sdraiata su un divano che aveva ancora la tua impronta. Mi dici che ti manco, qualcuno ride: è un uomo, vicinissimo a te, sta ridendo e urla, penso stia bevendo da un bicchiere alto e spesso, il suo alito sa di alcool. Le mie orecchie, il cervello vogliono isolarti da tutto, sfilarti dalla folla che non voglio per respirarti cellula dopo cellula, istante su istante, e fare finta che tu non sia mai partito. Non riesco, la mia scarsa capacità di tenerti accanto con le migliaia di chilometri tra noi rende la piccola cassetta che ho tolto dalla busta come un mastino vorace un giocattolo beffardo e inutile. Perché non sei tu, sono solo pezzi di te spruzzati sui miei occhi per farli bruciare ancora. Di più.
Quando hai aperto la busta con la convocazione, quella mattina, eri fresco di sapone e acqua, e sorridevi.
- Devo partire.
Hai detto, la tua carezza sulla mia guancia non ha mitigato la sorpresa che aspettavo. E temevo.
- Ancora?
Ho sussurrato, cercando di sembrare pronta. Ma la lacrima trattenuta dalla tua partenza precedente, dalle tue mille e mille partenze è scivolata giù, e ti ha bagnato la camicia.
- Cosa fai, adesso, piangi?
Fai sempre così. Ridi, canti, prepari la valigia e mi chiedi cosa dovrai portare perché non sai che tempo troverai, poi infili negli angoli smussati i libri, le mie lettere, i piccoli ricordi di noi.
- Questo dormirà con me.
Dici, e afferri qualcosa a caso che abbia un senso, un significato segreto per la relazione che teniamo in piedi da mesi nonostante i treni, gli aerei, le buste da aprire la mattina con le convocazioni urgenti senza un no possibile.
Ti ho guardato, lenta, seduta nella poltrona marrone chiaro con la lampada accanto. Ho seguito ogni gesto e contato i vestiti che hai tirato fuori dall'armadio, ho visto come li piegavi stendendo il tessuto con il palmo delle mani. Ho pensato a quando li avresti tolti, dopo un volo eterno e qualche spostamento scomodo in macchina, insieme a colleghi e colleghe con la stessa malinconia tracciata nelle rughe e la stessa volontà ferrea di nascondere l'emozione.
Perché so che mi ami. Lo so dalle pupille strette quando mi saluti, dalle braccia che non aspettano che la porta sia chiusa per spogliarmi, dalla gelosia fumosa e rimossa che vomiti fuori in cento occasioni senza mai ammettere il motivo vero della rabbia. Lo so dal figlio che desideri, improvvisamente, nel mezzo di un'esistenza nomade che ti piace. Insomma. Mi ami, come ti amo io, anche se non l'ho mai detto.
La cassetta piccola sputa fuori voci, e voci, e voci. La tua è un gorgoglio allegro e sommesso che dovrebbe accarezzarmi, la ascolto senza capire le parole e me la faccio bastare, anche se è più cattiva di una lama perché non dice ciò che voglio. Cioè che ritornerai.
- Non chiedermelo.
Hai detto, prima di salire sulla macchina dell'azienda con un autista muto voltato dall'altra parte. Non hai voluto che chiedessi quando saresti ritornato, non posso farlo perché ti ho conosciuto libero e selvaggio e così devi restare. Anche se hai messo i vestiti negli armadi e cambiato la residenza, anche se ogni volta che scopro di non aspettare tuo figlio storci il naso con una smorfia e alzi le spalle, sussurri: "La prossima volta".
La prossima volta. Il mare ha onde nere che scuotono la sabbia bagnata, oggi. Un uomo si è fermato e ha chiesto se sono la scrittrice della collina, ho detto sì solo con il viso. Si è fermato un po', ha fissato le mie mani ferme su un quaderno grande e bianco poi è andato via. Non mi andava di conoscerlo, non volevo che domandasse il mio nome o se ero sola per cena. Fanno tutti così, e non ha significato. Non hanno letto i miei libri, e se l'hanno fatto ricordano solo le parti erotiche buone per eccitarli, oppure quattro o cinque frasi in cui si sono identificati per quella fetta di ognuno che si trova dappertutto. Non ho alzato la testa quando si è allontanato, non mi curavo di lui. Ero concentrata sul dolore che bruciava dentro, quello della tua assenza. Ci sono giorni difficili, sai, e non so se per te sia la stessa cosa. E' difficile sapere che vai e ridi e parli e racconti, lavori sudando con le sopracciglia contratte. E non ti vengo in mente.
Che voce, la tua voce. Mi ha schiacciata e fatta volare, la prima volta che ti ho incontrato. La cerco nei video che esistono di te, la ripeto nella memoria perché la casa affacciata sulla baia non sia fredda. E l'ho sognata, la notte scorsa, quasi immaginassi l'arrivo del plico giallo toccato da tante mani che nascondeva la cassetta, e il foglio grande con la grafia appuntita, piena di spigoli.
"Amore mio,
perché la tua solitudine sia meno gelida. Perché tu sappia che non manco, è solo un periodo strano in un'esistenza strana. Perché il tuo sonno abbia la mia voce, ancora.
Ti amo".
Hai scritto così, hai riempito il foglio con poche sillabe che ho letto decine di volte prima di infilare la cassetta nel registratore sulla tua scrivania. Mi tremavano le mani, quando ho premuto il tasto seduta sulla poltrona dove mi racconti le storie che mi incantano.
- Ciao, amore.
Ho sentito questo, poi la confusione e le altre voci e i corpi, stretti intorno a te per soffocarti. Soffocarmi.
Amore. Vorrei che ritornassi. Le onde nere sbattono colpi sulla spiaggia, non riescono a calmarmi. Osservo l'acqua torbida, provo e riempirmi della pace che dicevi avrei trovato qui, ogni sera, pensando a te. I sassi piccoli pungono le caviglie e le gambe stese avanti, uno scialle di lana che non hai mai visto copre quasi tutto il mio corpo grosso.
Grosso di te, e saturo del sale di questi spruzzi di prima sera. Non lo vedi, il mio corpo. Ed è un peccato. Perché vorrei che sapessi, ora. Che il figlio che volevi è qui, e ti aspetta.
Sta dicendo che ritorna a casa.
Scritto da: GF | 10/20/2009 a 21:06
chissà
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 10/20/2009 a 21:31
"IL FIGLIO CHE VOLEVI E' QUI,E TI ASPETTA".
Grande! Come il misterioso femminile universo che "tutto" raccoglie,sà,custodisce nel silenzio del cuore che pulsa qualche volta saltando un pic.Il mio abbraccio è AMORE.Bianca 2007
Scritto da: BIANCA 2007 | 10/21/2009 a 10:34
E' di una bellezza commovente, lascia senza parole e parla al cuore con le tue.Complimenti , brava !
Scritto da: lorenza bonomi | 10/21/2009 a 22:42
Questa scrittura progressivamente addolcita dopo la brutalità del dolore ("Diario di melassa", piccola opera di stile perfetto che spezza il cuore) dice molto del trasformismo, dell'evoluzione di MG Luini donna e scrittore.
Scritto da: Just me | 10/22/2009 a 19:38