Natale è un delirio collettivo. E non nego che mi piaccia. Mi infilo nelle carole e nelle luci colorate con l'incanto di chi ha voglia di illudersi, cammino al freddo con le dita abbracciate dai guanti viola e cerco alberi, piazze addobbate, stelle filanti che si accendono e spengono e, se sono moderne, cantano anche qualche jingle d'annata. Mi viene in mente un anno qualsiasi, una via di Milano con i taxi bloccati e un saluto affettuoso a mio padre dopo una passeggiata di rara armonia: è la nemesi di questi giorni che si ripetono uguali nella novità della vita che cambia, non si riesce a fare a meno di ritornare al passato, ci si trova prigionieri di eventi e persone, relazioni edulcorate o apparenti che hanno seguito percorsi diversi. Potrei andare a un anno fa, solo un anno, e scoprire che tutto è cambiato, ma farlo va oltre l'energia che ho deciso di spendere: il rito che pochi osano spezzare tenta di mantenere un incanto arcano e fittizio, motore vero e malefico della malinconia. La malinconia del Natale, la sua retorica becera.
Invidio i miei amici che partono ora per New York: ricordo la città rivestita di Natale come nessuna, i cori davanti alle chiese e tutto ciò che fa film americano, e sicurezza, e poesia consumistica e semplice. Il delirio, appunto, cui non potrei rinunciare. Vorrei andare con loro e camminare semiassiderata per le vie di New York, bruciarmi i polpastrelli con gli angoli dei libri da sfogliare e mettere nello zaino, fingere uno shopping che in realtà non ho mai fatto. Perché è l''idea, solo l'idea a gratificare. Vorrei l'odore di New York nel naso: chi ci è stato almeno una volta sa cosa intendo, New York si intrufola nei sensi e ti spiega che vivere in pieno un luogo si può, si può davvero, e gli odori tracciano un percorso da seguire anche a occhi chiusi. Perché quando impari non puoi più sbagliare. Una volta, a New York, ero incinta, e l'olfatto era amplificato dagli ormoni di quella precoce, fallimentare gravidanza: fu un colpo di fortuna, nonostante tutto, perché riuscii a farmi entrare nel cervello dritti, senza sinapsi lente o circuiti necessari, gli odori acri, dolci, poveri, sontuosi della città con un fervore unico, il fervore particolare di uno stato atipico destinato a dissolversi.
Il mio giorno di Natale è stato bellissimo e strano. Inatteso, anche. Sono stata con persone diverse dal solito, da un sempre che pareva eterno. Ho rotto una tradizione di vita, una specie di trauma con voci e volti diversi dal nucleo che ero abituata a vedere. Una famiglia diversa, amore diverso. Sono stata felice, per la prima volta la follia non ha riguardato la retorica dei tempi andati e delle persone che non ci sono più. Il Natale, maledetto per questo, sembra fatto apposta per tirare fuori dai cassetti chiusi e polverosi i rimpianti e le memorie che non servono. A costo di essere brutale, che i morti e gli andati siano vivi nella nostra mente, ma non più pericolosi per i giorni come questi. Vorrei che in un futuro improbabile, se proprio dovrò morire (non ne sono ancora convinta: credo di essere eterna), non mi ricordasse con la lacrima natalizia e le frasi sospirose. "Eh, quando c'era". Non fatelo, se mi volete bene. Ci sono adesso, ricordo i miei morti e i vivi e gli andati e i rimasti, ma il delirio delle Feste più molli e gioiose che esistano non deve strozzarmi di pianto misto a soddisfazione per i regali e il cibo e i biglietti con scritto un po' di pensiero. Perché mi piacciono i regali, mi piace l'atmosfera, mi piace il sorriso di chi mi sta accanto in questo Natale.
Osservavo il fluire rapido delle parole su Facebook, ieri sera. Auguri, auguri, auguri. Qualcuno ha osato dire "Che noia". Ma auguri, comunque. Non mi sono tirata indietro. Ho mandato un video a tutti, a chiunque, a nessuno, ho fatto parte del delirio volentieri. Insomma. Come si fa a non amare il Natale? Se devo stabilire una graduatoria, a me piace più di tutto guardare le luci colorate. Mi sono fermata decine di volte di fronte al Duomo (avete visto quanto è bello adesso, così pulito?) e lo sguardo si è riempito di gioia. Ho spazzato via ricordi e ataviche rabbie, inutili ormai, e goduto della musica, dei passi un po' scivolati sui rimasugli di neve, dei negozi non troppo pieni e della cioccolata calda con la panna sopra. Del panettone morbido da mettere sul calorifero. Delle persone cui dare, quelle che non potrebbero avere un Natale, forse nemmeno dovrebbero pronunciare la parola perché la vita ha tolto tutto: dare a loro è il migliore regalo, ma di questo non parlo. Che si dica pure che mi aggrappo al consumismo, ormai accetto volentieri ogni lettura di me, anzi mi ci diverto, perché detesto chi mette in piazza altro: ho visto ricconi dalla generosità sbandierata e fintamente taciuta, benefattori grassi con la barba scura piegata su vestiti di marca costosa comportarsi come bestie con chi li amava, anime pie inginocchiate a messa che poi commentavano il vicino dandosi di gomito, volontari dagli occhi persi nella beatitudine della carità infilare nella borsa i pacchetti regalo per i poveri come ricordo di giornate speciali. Basta, no, non è questo che volevo per il post di Santo Stefano. Era il delirio del Natale, solo quello.
Siamo vittime felici. Il Natale arriva e ci costringe a sbuffare per i regali da trovare, i soldi da spendere, le ore da trascorrere in cucina, gli addobbi per ogni angolo visibile della casa. Ci fa dire agli amici che, come ogni anno, dovremo ospitare la famiglia al completo "e con i nipoti fanno trentacinque", e in fondo godiamo di questi trentacinque perché niente come il Natale ci permette di entrare nel ruolo: le mogli ricordano ai mariti che nessuna amante saprà fare meglio di loro, i mariti accarezzano per l'ultima volta giovani carni flessuose per ritrovarle dopo l'Epifania, annoiandosi con i figli da portare qua e là e le suocere ottantenni un po' sorde da caricare in macchina la mattina stando attenti che non prendano freddo. E' Natale, è così. Ma piace, a tanti. Anche a me. La retorica del dare e del pensiero a chi soffre vale tutto l'anno, non può essere compensazione del senso di colpa sciocco di chi può, questa volta, vivere le Feste con un sorriso. Che scemi i cantori della povertà che si attivano solo a Natale! Sarà forse l'altro mio lavoro, la passione medica che mi possiede da sempre, ma non riesco a pensare a chi soffre solo a Natale; anzi, mi fa rabbia l'occasione colta al volo per le campagne che dovrebbero appartenere a tutti i giorni dell'anno. "E' Natale, ricordati di chi non può viverlo come te": non sorrido per queste frasi tragiche e bieche, fingo di non capire il significato nascosto di un interesse sporadico. Natale, anche questa è retorica, e finiamola lì. Ho avuto anni con Natale senza doni e senza soldi, con la tristezza del non potere fare festa, ho conosciuto giorni migliori o meravigliosi o tristi o solitari. Conosco la vita, fingo di non ascoltare i sussurri di chi mi vede camminare nelle vie di città ricche dove il disagio sembra rimosso; ho avuto la parte di povertà e tristezza che mi spettava, forse l'avrò ancora, in un futuro che non amo indagare. So cosa sia un Natale senza. Senza amore, senza emozione, senza un pacchetto da aprire, senza tutto. Senza sorriso. Eppure. Scrivo, nella penombra di una casa vuota che sussurra alla neve che si scioglie, e mi piace guardare la luce degli alberi accesi nelle finestre di fronte alla mia. Vorrei che non si spegnessero, li vorrei in ogni stagione per le mie sere con le mani piagate dalla scrittura. Vorrei gli alberi morti coperti di palline che girano al vento e candeline elettriche che si accendono e spengono. Fa parte del gioco e mi piace. Succede.
Credevo che non avrei scritto, pensavo di leggere benevola e muta i pezzi altrui sulle rimembranze e la malinconia del Natale, un delirio collettivo voluto da religione, consumi e quiete pubblica: avevo deciso di tirarmi fuori e godere la vita, senza cadere nella trappola banale delle carole che tanto mi fanno sospirare. Invece. Mi sono seduta, ho digerito un pezzo di panettone e bevuto uno o due bicchieri di acqua. E ho scritto, perché diversamente non so vivere. Faccio retorica anche io, in fondo. Evviva.
No, Giovanna. Tu di sicuro non fai retorica.
Scritto da: Lorenza Caravelli | 12/26/2009 a 20:46
Eh, pezzo magistrale. Stile peculiare e tortuoso in una chiarezza limpida, visionario e controcorrente. Brava, libera Gio.
Scritto da: Scriptor | 12/26/2009 a 21:44
BELLO!
Non c'è l'autodifesa della retorica ma l'intensità che viene da un'apertura che tutto comprende senza la pretesa d'essere definita.Mi piace che tu abbia fatto l'accostamento con Woody Allen.Auguri e un abbraccio forte e sincero come a ME si conviene nè potrei fare che così.Mirka
Scritto da: Bianca 2007 | 12/26/2009 a 22:24
Hai l'occhio dell'uomo e della donna insieme, effetto e origine di un equilibrio profondo nell'originalita' dell'idea.
Non fai retorica, entri a gamba tesa ma con liberta' per tutti e classe tipicamente tua in un discorso che rischia enorme banalita'. E voli alto come sempre più spesso ti accade di fare
Scritto da: GF | 12/26/2009 a 22:44
grazie a tutti, un grande e sincero (certo! ormai non accetto altro, solo la sincerità) abbraccio
Scritto da: MariaGiovanna Luini | 12/27/2009 a 14:45
Le parole rosse ti si addicono. Mi piace il giocoso prendersi gioco (scusa il gioco - e terza ripetizione - di parole) di se stessa e del delirio natalizio misto alla critica sociale graffiante e verissima.
Sorridi sempre alla vita con un fare sornione di gatto abituato a vedere bellezza e crudeltà, accentando entrambe.
Scritto da: lettore avido | 12/28/2009 a 10:02
Quanto a Woody, probabilmente siete poeti gemelli di età diverse (e tu sei più bella).
Scritto da: lettore avido | 12/28/2009 a 10:03