racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
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AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
Ha lasciato le stanze bianche e camminato con la testa vuota fino al cancello, poi ha messo i piedi sull'asfalto della strada. Poche automobili nel grigio del campo visivo, con il volto tirato su e esposto all'aria pungente e gelida del pomeriggio inoltrato. Non si è fermata fino alla pensilina dell'autobus, ha tirato fuori dal portafogli l'abbonamento arancione che vale ancora tre giorni e infilato in tasca il telefono. I guanti viola tengono caldo, ha pensato, crede di avere fatto bene a spendere i soldi una settimana fa mentre correva nelle vie illuminate del centro. Il trucco è fermo, niente cola dagli occhi: lo vede dal riflesso nel vetro della pensilina, e una donna alle sue spalle fuma la terza sigaretta; è magra, troppo, la pelle più bianca di un pallore anormale, non sano. E' uscita dalle stanze bianche, anche lei, e con la mano ha cercato il pacchetto delle sigarette nella borsa, senza guardare. Fuma molto mentre aspetta. La guarda solo attraverso il riflesso: si capisce subito che è una paziente, cioé ha il cancro. Il cancro, che parola tremenda. Ma comunque la giri è così, e la donna con la sigaretta tra le dita ossute lo sa benissimo. Se la fissasse un istante di troppo la sentirebbe gracchiare una frase rabbiosa: lo dice l'esperienza, lo dice l'istinto che le fa vibrare la carne sotto la pelle sensibile e infreddolita.
- Non mi dica di non fumare, tanto ho il cancro.
Direbbe così e stringerebbe le spalle in avanti per proteggersi, abbassando la faccia e contraendo le dita, perché anche lei ha capito. Sa di essere seduta alla pensilina insieme a un medico delle stanze bianche.
Le stanze bianche. Rassicurano anche lei, qualche volta. Sono costruite apposta, forse. Chissà se la donna magra con la sigaretta in mano si ferma a guardare la mostra e i libri, chissà se pensa a qualcuno che ama mentre sale sull'autobus e riparte. Ha un cappotto grigio stretto, quasi nuovo.
- Va anche lei allo Sporting?
Annuisce e le sorride. Lo Sporting è vicino alle stanze bianche, c'è un albergo dove i pazienti vanno quando devono restare in città per le terapie. La immagina in una stanza a fissare il muro, con la televisione accesa a parlare a nessuno; non mangerà, comprerà qualcosa ai negozi davanti alla fermata ma assaggerà soltanto. Fino a domani.
"Forse mi sbaglio, forse non è malata".
Sa che gli occhi non commettono questi errori. La diagnosi degli occhi, la stessa di suo padre.
- Guarda i pazienti, guardali, prima di prescrivere esami.
E li guardava, ha sempre guardato. Guarda anche adesso, perfino quando non vuole vedere. Perché se vede deve accettare, scendere dalla nuvola di illusione o oblio che la protegge dentro la scrittura. Se guarda, sa. E non sempre ha voglia di sapere.
Siede nell'autobus che si ferma al carcere di Opera, un'autoambulanza dentro il cancello e qualche macchina blu. Due furgone grandi, scuri. Non è difficile capire. Stanno male anche loro. Pensa. Anni prima, nelle stanze bianche. Il volto di un uomo, il racconto del suo pezzo di vita. Un'arma appesa al torace.
- Sono stato in galera per molti anni. Pensa di non volermi curare?
Sa di avere sorriso, come sorride adesso alla strada grigia e umida che sfila fredda fuori dall'autobus. Domanda fuori luogo e posta male, non necessaria. "Pensa di non volermi curare?".
L'autobus rallenta e si avvicina al marciapiede. Si alza, saluta con la mano e il guanto viola la signora magra, la vede scendere e cercare un'altra sigaretta. Non la lascia, la avvolge con lo sguardo perché le spalle non tremino al freddo dei metri fino al negozio di verdura. Comprerà qualcosa e salirà nella sua camera in albergo, poserà il sacchetto su un mobile e toglierà il cappotto. Poi fisserà il muro, le mani aggrappate alle sigarette una dopo l'altra. Fino a domani.
Natale è un delirio collettivo. E non nego che mi piaccia. Mi infilo nelle carole e nelle luci colorate con l'incanto di chi ha voglia di illudersi, cammino al freddo con le dita abbracciate dai guanti viola e cerco alberi, piazze addobbate, stelle filanti che si accendono e spengono e, se sono moderne, cantano anche qualche jingle d'annata.Mi viene in mente un anno qualsiasi, una via di Milano con i taxi bloccati e un saluto affettuoso a mio padre dopo una passeggiata di rara armonia: è la nemesi di questi giorni che si ripetono uguali nella novità della vita che cambia, non si riesce a fare a meno di ritornare al passato, ci si trova prigionieri di eventi e persone, relazioni edulcorate o apparenti che hanno seguito percorsi diversi. Potrei andare a un anno fa, solo un anno, e scoprire che tutto è cambiato, ma farlo va oltre l'energia che ho deciso di spendere: il rito che pochi osano spezzare tenta di mantenere un incanto arcano e fittizio, motore vero e malefico della malinconia. La malinconia del Natale, la sua retorica becera.
Invidio i miei amici che partono ora per New York: ricordo la città rivestita di Natale come nessuna, i cori davanti alle chiese e tutto ciò che fa film americano, e sicurezza, e poesia consumistica e semplice. Il delirio, appunto, cui non potrei rinunciare. Vorrei andare con loro e camminare semiassiderata per le vie di New York, bruciarmi i polpastrelli con gli angoli dei libri da sfogliare e mettere nello zaino, fingere uno shopping che in realtà non ho mai fatto. Perché è l''idea, solo l'idea a gratificare. Vorrei l'odore di New York nel naso: chi ci è stato almeno una volta sa cosa intendo, New York si intrufola nei sensi e ti spiega che vivere in pieno un luogo si può, si può davvero, e gli odori tracciano un percorso da seguire anche a occhi chiusi. Perché quando impari non puoi più sbagliare. Una volta, a New York, ero incinta, e l'olfatto era amplificato dagli ormoni di quella precoce, fallimentare gravidanza: fu un colpo di fortuna, nonostante tutto, perché riuscii a farmi entrare nel cervello dritti, senza sinapsi lente o circuiti necessari, gli odori acri, dolci, poveri, sontuosi della città con un fervore unico, il fervore particolare di uno stato atipico destinato a dissolversi.
Il mio giorno di Natale è stato bellissimo e strano. Inatteso, anche. Sono stata con persone diverse dal solito, da un sempre che pareva eterno. Ho rotto una tradizione di vita, una specie di trauma con voci e volti diversi dal nucleo che ero abituata a vedere. Una famiglia diversa, amore diverso. Sono stata felice, per la prima volta la follia non ha riguardato la retorica dei tempi andati e delle persone che non ci sono più. Il Natale, maledetto per questo, sembra fatto apposta per tirare fuori dai cassetti chiusi e polverosi i rimpianti e le memorie che non servono. A costo di essere brutale, che i morti e gli andati siano vivi nella nostra mente, ma non più pericolosi per i giorni come questi. Vorrei che in un futuro improbabile, se proprio dovrò morire (non ne sono ancora convinta: credo di essere eterna), non mi ricordasse con la lacrima natalizia e le frasi sospirose. "Eh, quando c'era". Non fatelo, se mi volete bene. Ci sono adesso, ricordo i miei morti e i vivi e gli andati e i rimasti, ma il delirio delle Feste più molli e gioiose che esistano non deve strozzarmi di pianto misto a soddisfazione per i regali e il cibo e i biglietti con scritto un po' di pensiero. Perché mi piacciono i regali, mi piace l'atmosfera, mi piace il sorriso di chi mi sta accanto in questo Natale.
Osservavo il fluire rapido delle parole su Facebook, ieri sera. Auguri, auguri, auguri. Qualcuno ha osato dire "Che noia". Ma auguri, comunque. Non mi sono tirata indietro. Ho mandato un video a tutti, a chiunque, a nessuno, ho fatto parte del delirio volentieri. Insomma. Come si fa a non amare il Natale? Se devo stabilire una graduatoria, a me piace più di tutto guardare le luci colorate. Mi sono fermata decine di volte di fronte al Duomo (avete visto quanto è bello adesso, così pulito?) e lo sguardo si è riempito di gioia. Ho spazzato via ricordi e ataviche rabbie, inutili ormai, e goduto della musica, dei passi un po' scivolati sui rimasugli di neve, dei negozi non troppo pieni e della cioccolata calda con la panna sopra. Del panettone morbido da mettere sul calorifero. Delle persone cui dare, quelle che non potrebbero avere un Natale, forse nemmeno dovrebbero pronunciare la parola perché la vita ha tolto tutto: dare a loro è il migliore regalo, ma di questo non parlo. Che si dica pure che mi aggrappo al consumismo, ormai accetto volentieri ogni lettura di me, anzi mi ci diverto, perché detesto chi mette in piazza altro: ho visto ricconi dalla generosità sbandierata e fintamente taciuta, benefattori grassi con la barba scura piegata su vestiti di marca costosa comportarsi come bestie con chi li amava, anime pie inginocchiate a messa che poi commentavano il vicino dandosi di gomito, volontari dagli occhi persi nella beatitudine della carità infilare nella borsa i pacchetti regalo per i poveri come ricordo di giornate speciali. Basta, no, non è questo che volevo per il post di Santo Stefano. Era il delirio del Natale, solo quello.
Siamo vittime felici. Il Natale arriva e ci costringe a sbuffare per i regali da trovare, i soldi da spendere, le ore da trascorrere in cucina, gli addobbi per ogni angolo visibile della casa. Ci fa dire agli amici che, come ogni anno, dovremo ospitare la famiglia al completo "e con i nipoti fanno trentacinque", e in fondo godiamo di questi trentacinque perché niente come il Natale ci permette di entrare nel ruolo: le mogli ricordano ai mariti che nessuna amante saprà fare meglio di loro, i mariti accarezzano per l'ultima volta giovani carni flessuose per ritrovarle dopo l'Epifania, annoiandosi con i figli da portare qua e là e le suocere ottantenni un po' sorde da caricare in macchina la mattina stando attenti che non prendano freddo. E' Natale, è così. Ma piace, a tanti. Anche a me. La retorica del dare e del pensiero a chi soffre vale tutto l'anno, non può essere compensazione del senso di colpa sciocco di chi può, questa volta, vivere le Feste con un sorriso. Che scemi i cantori della povertà che si attivano solo a Natale! Sarà forse l'altro mio lavoro, la passione medica che mi possiede da sempre, ma non riesco a pensare a chi soffre solo a Natale; anzi, mi fa rabbia l'occasione colta al volo per le campagne che dovrebbero appartenere a tutti i giorni dell'anno. "E' Natale, ricordati di chi non può viverlo come te": non sorrido per queste frasi tragiche e bieche, fingo di non capire il significato nascosto di un interesse sporadico. Natale, anche questa è retorica, e finiamola lì. Ho avuto anni con Natale senza doni e senza soldi, con la tristezza del non potere fare festa, ho conosciuto giorni migliori o meravigliosi o tristi o solitari. Conosco la vita, fingo di non ascoltare i sussurri di chi mi vede camminare nelle vie di città ricche dove il disagio sembra rimosso; ho avuto la parte di povertà e tristezza che mi spettava, forse l'avrò ancora, in un futuro che non amo indagare. So cosa sia un Natale senza. Senza amore, senza emozione, senza un pacchetto da aprire, senza tutto. Senza sorriso. Eppure. Scrivo, nella penombra di una casa vuota che sussurra alla neve che si scioglie, e mi piace guardare la luce degli alberi accesi nelle finestre di fronte alla mia. Vorrei che non si spegnessero, li vorrei in ogni stagione per le mie sere con le mani piagate dalla scrittura. Vorrei gli alberi morti coperti di palline che girano al vento e candeline elettriche che si accendono e spengono. Fa parte del gioco e mi piace. Succede.
Credevo che non avrei scritto, pensavo di leggere benevola e muta i pezzi altrui sulle rimembranze e la malinconia del Natale, un delirio collettivo voluto da religione, consumi e quiete pubblica: avevo deciso di tirarmi fuori e godere la vita, senza cadere nella trappola banale delle carole che tanto mi fanno sospirare. Invece. Mi sono seduta, ho digerito un pezzo di panettone e bevuto uno o due bicchieri di acqua. E ho scritto, perché diversamente non so vivere. Faccio retorica anche io, in fondo. Evviva.
Nel domino letterario lanciato da Laura e Lory si parte da QUI.
L'ultima frase di ogni racconto è la prima del racconto successivo. Invito gli amici scrittori che frequentano questo blog a unirsi al gioco. Gioco? Chissà.
Laura Costantini nel blog dove trovate il racconto di inizio (link qui sopra) indica l'indirizzo per iscrizioni e contributi.
Ecco la mia parte.
Solo l’intrecciarsi dei fili del destino l’aveva portata davanti al
peggiore negozio che avesse mai visto: l’insegna pacchiana, troppo
gialla, immersa nelle luci artificiali e stucchevoli del centro
commerciale l’aveva subito intristita.
- Possibile che anche la vigilia di Natale debba essere qui a farmi il
mazzo per quattro scemi che non sanno più come spendere i propri soldi?
L’aveva detto a voce alta, specchiandosi in una vetrina senza vedere
cosa fosse esposto oltre l’immagine stanca e tremula del suo corpo
snello, un po’ curvo sotto il peso del giaccone pesante che si era
infilata in fretta la mattina, uscendo di corsa.
- Cosa faccio qui?
Aveva chiesto, senza aspettarsi una risposta. Era sola, chi avrebbe potuto ascoltarla?
Un uomo si era fermato.
- E’ in difficoltà? Posso aiutarla?
Aveva alzato le spalle, imbarazzata.
- Ma no, non si preoccupi.
L’aveva seguito con lo sguardo mentre si allontanava, colpita
dall’andatura sciolta che contrastava con l’abbigliamento povero, quasi
da mendicante. Erano belli, gli occhi di quell’uomo: li aveva visti
solo per un attimo, sembrava che volessero dire qualcosa.
“Suona il violino”.
La custodia sotto il braccio destro sembrava grossa per un violino,
però Laura non conosceva altro strumento con quella forma, e le piaceva
l’idea che l’uomo suonasse il violino o un altro aggeggio con il
medesimo aspetto poetico e rilassante. Non aveva mai incontrato un
musicista: da bambina aveva sognato di sposarne uno, ma la vita della
rappresentante di prodotti di bellezza non era compatibile con il giro
di amicizie e relazioni adatto per portarla di fronte a un artista, a
un suonatore di uno strumento qualsiasi che potesse interessarsi a lei
e chiederla in moglie.
“Mah, forza, Laura, finisci e vai a casa”.
Sollevò la pesante borsa di cuoio piena di prodotti, trascinò i piedi
fino alla profumeria che l’aveva chiamata all’ultimo istante, la
vigilia di Natale, per un’improbabile riassortimento sul filo di lana,
al di fuori delle normalissime forniture dell’azienda. Camminò con il
braccio intorpidito dalla fatica, sudando nel giaccone troppo pesante.
Vide le luci gialle della vetrina, immaginò le confezioni regalo
esposte al pubblico, quelle che mettevano insieme le saponette e i
profumi, e bottiglie extralarge di bagnoschiuma che nessuno avrebbe
usato. Detestava le confezioni regalo che le profumerie propinavano ai
clienti per Natale: sembravano illusioni per gonzi il cui profumo, lo
sapeva, era destinato a scemare fino a scomparire dopo due o tre
passaggi dei saponi nelle mani e tre o quattro aperture del tappo del
bagnoschiuma. Preferiva i profumi da soli, quelli che costavano un
occhio ma erano un regalo a sé, senza fronzoli, alteri e presuntuosi:
la intimidivano, aveva imparato a piazzarli nell’angolo del bagno più
discreto dove poteva afferrarli senza che la facessero sentire una dama
fatua e precocemente invecchiata.
Arrivò alla profumeria, si fermò. Doveva fermare i pensieri, elucubrava
e inventava sciocchezze per evitare di concentrarsi sul lavoro. Era
arrivata, doveva entrare e fare bella figura con la proprietaria perché
avrebbe potuto darle una mano con il titolare dell’azienda, che non le
pagava lo stipendio da tre mesi perché era in crisi e preferiva dare i
pochi soldi che riusciva a tirare su alla sua collega, quella che aveva
figli.
- Sai, ha figli. Tu no.
Da tre mesi andava avanti così: l’errore di essere senza figli la
rendeva indegna dello stipendio. Ma alternativa non esisteva, e tra
l’altro quel viaggio della vigilia di Natale al centro commerciale I
Fili era uno scherzo del destino perché avrebbe dovuto esserci la sua
collega là, davanti alla vetrina sfavillante di luci gialle pacchiane,
ma la collega, appunto, aveva figli e aveva chiesto a lei di farle il
favore di sostituirla.
- Ti prego. Sai, i miei figli si aspettano un Natale decente.
Un Natale decente. Come dire no? Come togliere alle creature la decenza
del Natale? Aveva acconsentito, raccolto la borsa con i prodotti e
messo il giaccone, cercando in tasca le chiavi della macchina.
- Farai in fretta. Non ti renderai nemmeno conto, la titolare è simpaticissima e metterà una buona parola con Gustavo.
Gustavo, l’anima nera dell’azienda. Colui che tutto poteva.
Insomma, la collega se l’era cucinata bene, non solo l’aveva convinta a
sostituirla nell’uscita con i prodotti la vigilia di Natale, ma aveva
infilato un discorsetto su quanto fosse fortunata a andarci lei, con le
brillanti prospettive di una bella figura con la titolare.
Spostò in avanti il braccio libero, aprì la porta, accettò senza smorfie il dlin dlin della campanella.
- Ah, che meraviglia, è Laura, vero?
Una donna truccata pesante con la voce chioccia le andò incontro, le
strinse la mano. Le indicò un bancone carico di confezioni natalizie
ornate da fiocchi rossi.
- Andiamo di là. Ho molte cose da dirle.
La seguì, pensò alla collega: aveva detto che se la sarebbe cavata in
fretta, mentalmente la ringraziò, acida. Un Natale decente per i figli.
CARA MARIAGIOVANNA, ieri sera il vicino mi ha consegnato il tuo terzo romanzo (?) "Diario di Melassa.Anche se tardissimo l'ho letto in un respira-butta fuori l'aria.Brava! Oltre a un'evidente evoluzione stilistica,affronti temi importantissimi su cui riflettere.Hai trovato il giusto distacco per guardarli in faccia con criticità e umana pietas.E non ti è mancato il coraggio per ammettere realtà colpevoli per superficiale responsabilità voluta o restata a metà del cammino per oscuri meccanismi di difesa (?) o di demoni mai veramente visti e tenuti a bada.Un grande impatto emotivo è ciò a cui io sono stata avvolta prima di addormentarmi (finalmente) appagata dall'ammirazione per te e per una Donna che ha trovato la fierezza della DIGNITA' che non sbraita ma dice.Auguri.Con "questo" aiuterai molte/i a uscire dal guscio e a NON avere paura di dire attraverso l'elaborazione difficile e dura del dolore trovando il "nuovo" pieno di sè l'orgoglio per non essersi arresi.Ti abbraccio. Mirka Bonomi
“…la parola scritta … era dentro di me, un bisogno che avevo afferrato prima di ogni altro …” (p. 23)
DIARIO DI MELASSA è un singhiozzo sedato.
Privo di odio, privo di rabbia.
Come tutti i singhiozzi, i singulti, i conati si placa nell’espressione di se stesso.
Nella propria verbalizzazione.
Silvia Delaj
"QUESTO romanzo, e lo scrivo in maiuscolo, l'ho sentito veramente MIO. Spiego meglio: è graffiante perchè tratta di problemi che sono radicati nella nostra società.......pedofilia ,tradimento,ansia di essere (per gli altri )quello che non siamo, bulimia e anoressia.....apparenza,indifferenza delle persone e l'inevitabile chiusura degli "occhi"perchè è molto più comodo non vedere il malessere di chi ci è accanto. FAME, tutti noi abbiamo fame di qualche cosa, ma di cosa esattamente? C'è chi ha FAME d'amore,FAME di solitudine ,FAME di sesso,FAME di sapere,FAME di ricordi,FAME di abbracci,FAME d'amicizia, FAME di gioia,FAME di autodistruzione e anche FAME di vita....... sì ,io ,ad esempio ho una FAME furiosa di VITA,la sbranerei in un sol boccone se solo sapessi e avessi la certezza che così facendo la ingloberei dentro di me per non farmi mai e poi mai abbandonare......rendendola mia prigioniera... Riesce sempre a smuovere l'anima,e ora non riesco a placarla ma anche questo è vivere......
Non ricorda chi sia. Ha perso l'identità nei milioni di parole scritte per altri, l'ha lasciata andare un attimo credendo di ritrovarla invece non l'ha più recuperata. E' successo tanto tempo fa, ormai non le importa. In fondo, un'identità vale l'altra: si può diventare chi si vuole, a patto di cogliere l'essenza o qualsiasi sfumatura possa assomigliare all'essenza.
E' il suo lavoro. Scrive cose per altri. Cose di ogni genere, cose qualsiasi. Ha scritto romanzi, saggi e biografie, articoli per i giornali (tanti da non ricordare i nomi), lettere d'amore o interesse, opuscoli, slogan, memoriali, documenti di accusa o difesa. Hai scritto e si è consumata le dita, ha confuso le firme e i volti e qualche volta ha trascurato le parcelle, non è stata capace di chiedere soldi per il lavoro concesso. Ma questa è un'altra questione.
E' l'identità che le interessa. Non credeva che le sarebbe tornata utile, non l'aveva messo in conto. In pochi istanti riesce a mimetizzarsi, a trasformare se stessa nella copia originale di chiunque le chieda di scrivere: ascolta, osserva, legge qua e là, e capisce. Quando firma con il nome altrui, lo fa con la sicurezza di essere diventata l'altro, lo è a pieno titolo, come e più di lui. O lei, dipende. Insomma, si mimetizza, diventa diversa e opposta da sé. Assume abitudini e tic nervosi, perfino le piccole manie, pensa come l'altro e riflette, e sogna. Capisce quali donne lui desideri, quali uomini se è una lei. Oppure mescola tutto insieme, è omosessuale o bisex, etero e infedele, casta o ninfomane o ritrosa o sguaiata, ha una mente matematica oppure creativa. Le basta imparare. Che si chiami Laura o Carlotta o Pierluigi non ha rilevanza, il suo vero essere è la scrittura, e quella non è dominio di un nome. Non è proprietà sua o di altri. E' la scrittura, e scivola da dita a dita fluente e libera. Regalando la voglia di esistere senza il vincolo dell'identità.
Identità. Che adesso le serve. Un gioco della vita in una giornata di navigazione lenta con il sole marezzato di nuvole dense e cotonose le ha messo davanti il viso acuto e abbronzato di un uomo, su una vela snella, vecchia.
- Buongiorno, come sta?
Le ha detto quando l'ha incontrata in porto.
- Bene, e lei?
Ha risposto, stupita di un approccio inusuale tra naviganti.
- Molto bene, felice di conoscerla.
Felice di conoscerla. E' iniziata lì. Si sono seduti nel pozzetto del suo gozzo e hanno chiacchierato e taciuto, e le ha sfiorato le mani.
- Dimmi qualcosa di te. Dimmi chi sei.
Ha aperto la bocca per rispondere, ha inspirato e iniziato un gorgheggio lieve per parlare. Ma la voce non è uscita.
- Dimmi chi sei.
L'invito, la domanda rimbalzavano nel cervello senza fermarsi in un punto, un punto qualsiasi, le rimandavano voci e pezzi di scrittura diversi e intriganti, noiosi e drammatici. Pezzi che forse avrebbero potuto costruirla, ma non erano lei. Non con certezza, almeno. Le frasi e le pagine fitte di esposizione chiara, enfatica, triste, fredda, gioiosa hanno iniziato una danza confusa e ironica nei suoi occhi fissi sul volto di lui, senza regalarle contorni che sapesse descrivere. Ha esitato, riflettuto in fretta per non perdere il suo interesse e deluderlo. Ha scavato la memoria dell'infanzia, sicura che da qualche parte qualcuno le avesse dato un nome solo suo, abbinato a un cognome e a abitudini di vita, gusti, passioni. Ma niente, una pagina bianca perché troppo densa di parole ha bloccato i pensieri.
- Allora? Non sai dirmi chi sei?
- No.
Avrebbe dovuto rispondere così, ammettere sinceramente che le migliaia di identità fuse all'interno del suo cervello fossero come formaggio appallottolato e molle intorno al nucleo, all'unica persona che avesse perso. Lei stessa. Invece ha mormorato versi senza significato facendolo ridere.
- Cosa sei, nei servizi segreti? Che lavoro fai?
- Scrivo.
- Scrivi? Sei una scrittrice?
- No, magari! Scrivo cose per altri.
- Cioè?
Ha alzato le spalle.
- Beh, giro qua e là con la barca e intanto arrivano richieste via email, o sul mio sito internet. Gente che vuole che scriva documenti di lavoro, racconti, romanzi, lettere. Ogni cosa possibile. Scrivo, ecco.
- Cioè scrivi per altri, ma non firmi.
- Esatto.
- Interessante. E ti pagano bene?
Si è messa a ridere.
- Dipende. Alcuni sì. Le tariffe sono le mie, ma qualcuno fa il furbo. C'è gente che non sa mettere due parole una dietro l'altra eppure mi tratta come se fossi una nullafacente. Sai, scrivere non è lavoro vero.
- Chi l'ha detto?
- Tanti, lo dicono in tanti.
Il discorso è andato avanti così, sterile e solito. Quando un viandante come lei scopre cosa faccia per vivere diventa curioso e non sa spiegarsi come si possa campare di scrittura. Ha descritto la gente, le manie di chi le commissiona i pezzi, la tracotanza con cui qualcuno pretende di leggere senza capire la differenza nello stile, l'assenza di scrupolo di alcuni scrittori, scrittori veri, che mettono il loro nome là dove lei ha creato. L'ha ascoltata, divertito. Gli occhi hanno fiammeggiato sul suo corpo scaldandolo, le mani l'hanno sfiorata molte volte. E si sono fermate su di lei, anche, premendo e accarezzando con l'alito vicinissimo al suo viso.
- Ti voglio.
Ha sussurrato dopo un tempo indecifrabile.
- Ti voglio, ma devi prima dirmi chi sei.
Si è alzato e, con un salto, l'ha lasciata seduta nel pozzetto. Ha salutato con la mano e si è allontanato verso la vela vecchia e snella, sparendoci dentro.
"Devi prima dirmi chi sei", rimugina su questo da ore. Le piace, il navigatore ignoto incontrato per caso; le piace il suo corpo che le vibrava accanto con gli occhi a ferirla di desiderio. Le sono piaciute le mani, potenti e coraggiose e per niente pronte a ritirarsi. Le piace la voce calda come il tuono del mare contro gli scogli di notte. Lo vuole, conosce l'istinto che la prende quando l'odore di un compagno di viaggio la eccita. Però deve dirgli qualcosa, deve trovare nel gomitolo stretto di identità altrui fatte proprie un bandolo unico che sappia aiutarla. "Devo dirgli chi sono", ripete e se stessa mentre le dita pettinano i capelli corti modellati dal vento.
- Chi sono.
Potrebbe leggere centinaia di fogli, controllare i documenti della barca oppure chiedere a qualche amico così, al telefono, per non sbagliare. Ma non è questo che vuole l'uomo della vela vecchia. Aspetta che gli racconti qualcosa di vero, tanto profondo da farla brillare. O affondarla, se non funziona.
Vuole lei, sul serio.
Alza gli occhi al tramonto dietro le nuvole sfiocchettate di nero. Il riflesso giallo del sole le riempie gli occhi. Ha lasciato indietro l'identità per navigare da sola immersa in una scrittura che ha sempre il nome di altri. Ha creduto non fosse importante, tanto da dimenticare. Ma adesso, adesso sì, è il momento di ricordare.
Ogni tanto cerco giorni e scritture passate, mi chiedo quanta strada sia tra me e i pezzi che ho lasciato nella memoria del blog. Lo faccio quando la pulsione a scrivere è sottile, aspetta un incipit, un'occasione al di fuori dei "lavori" in stesura. Difficile da spiegare (inutile, anche): è una vibrazione piccola densa di inquietudine, sussurra qualcosa che si chiarisce solo dopo, quando il canale è aperto e le dita buttano giù parole. Questa sera è accaduto e, con la nausea di una difficoltà di giudizio acuta, dolorosa, ero pronta a rinunciare: ho scartabellato il blog e cancellato troppo, sull'onda del malessere che mi toglie leggerezza. Nell'ultimo gesto delle dita, in un clic che ormai credevo simile agli altri cioé sterile, deludente, privo del gusto di una scrittura riconosciuta accettabile, sono arrivata qui.
"Potrei scrivere", il titolo dice niente. Ma, si sa, i miei titoli sono brutti: fosse per me metterei colori o numeri. Meglio colori. Infatti aggiungo al vecchio titolo "parole blu". Le avevo promesse, le parole blu, ora le ho trovate. Mi sono fermata a leggere queste righe e ho ricordato la donna che, a una festa di quasi due anni fa, ha ballato felice e mi ha detto alcune cose. Cose che porto nel cuore anche se non si sono avverate, anche se la sua profezia è stata illusione per lei, e per me.
Non dirò cosa mi abbia detto la donna alla festa, ho avuto la strana e (per me) inusuale saggezza di nascondere la parte maggiore del discorso anche a suo marito, quando me l'ha chiesto. Tanto, la condivisione di istinti che avevo con quella donna sarà sempre incomprensibile per chiunque. Tranne noi, lei e me. E a me basta, anzi per me è tutto: sapere che ci siamo comprese, amate, odiate, di nuovo amate e strette in un abbraccio è un possesso vero e intimo che nessuno potrà strappare o mettere in discussione.
Pubblico di nuovo nel presente ciò che era diluito nel passato. Perché quella donna che ballava due anni fa adesso è morta. La porto nel cuore insieme ai segreti che ci siamo confidate a vicenda. A lei dedico queste parole blu.
Potrei scrivere. Potrei. Ci sono giorni che diventano secoli e cambiano tutto, aggrumano storie impossibili da raccontare. Almeno per un po'. Questa sera ritornavo in una città che non mi piace e lasciavo il cuore indietro, e ricordavo una festa e musica e danze. E una donna felice, che ballava insieme a noi. Noi vivi. Insomma, potrei parlare della storia ma non riesco a cristallizzare emozioni straordinarie in frasi lineari da buttare giù e correggere. Perché possano essere lette. Si dice che mi esponga, butti la mia vita in pasto. La verità è che si vede ciò che si vuole vedere. Si può fraintendere l'invenzione e prendere per vera una bugia, si può scartare la verità perché inverosimile o banale. Non credo di esporre me o altri, espongo l'instinto di mani che scrivono. Sono pronta a rispondere alle obiezioni, pronta a chiudere in un silenzio che scivola via il massimo dell'incomprensione trasformato in pettegolezzo sudicio perché ad altro non ci si può aggrappare. Mi sono arrabbiata, di recente. Il motivo non ha importanza qui, in questo spazio di tutti. Ce l'ha per me ma non cambia il fluire delle parole e non interessa chi legge. Si arrabbiano in tanti, poi passa. Oppure no. Come le lacrime, quelle che mi vengono ogni volta che ripenso alla donna che l'anno scorso ballava felice e oggi non balla. Credo. C'è una retorica che odio, la beatificazione di chi è andato per non ritornare, che fa perdere la visione. Quella vera. Vorrei che mi si ricordasse con le ombre, anche, non solo con il sorriso e la benevolenza e la generosità che sempre si dicono. Vorrei che la nostalgia per la donna che ballava felice fosse l'equilibrio di ricordi esatti, per lei e solo lei. Con la gioia e il dolore e la rabbia e i litigi, e le ore belle ma così belle che non si può più dire. Vorrei che la vedeste ora, con i miei occhi. Nella luce. Insomma. Vorrei che ballasse ancora, felice. Arrivo in una città che non amo e riparto in fretta. Potrei scrivere, forse.
Nel vuoto di un treno che corre,
con un compagno di viaggio che non mi piace (non so perché, è ingiusto dirlo:
non russa, non strepita, non sta ore al telefono, eppure non mi piace), lascio
andare le mani sulla tastiera confidando nel silenzio, e l’incipit diventa
“cosa ti aspetti da me?”.
Potrebbe non esserci un seguito.
Potrei lasciare sospesa la domanda e non entrare nel merito, non attribuirla a
un mio moto spontaneo o all’esigenza di un altro, chissà chi, nei miei
confronti. Sono io a aspettarmi qualcosa da qualcuno? Sono altri a farlo con
me? Nel viaggio scialbo verso Milano non trovo la grinta per riflettere, non ho
voglia di ascoltare musica o leggere, ma anche scrivere è difficile. Come se il
silenzio necessario per scrivere non sia gravido di parole, questa volta. Una
sensazione simile a altre, che forse posso ricordare a voce alta.
Capita che osservi
l’allontanamento di amici, e capita che ne soffra: non è piacevole constatare
che alcune persone siano ondivaghe abbastanza da infiammarsi di affetto (o
amore), poi declinare in una sempre più tiepida pazienza fino a trovare altri
fuochi, altri incendi destinati a subire la stessa sorte. Non è piacevole, ma
succede con una frequenza piuttosto alta. Uomini o donne, è uguale: ha ragione
la mia analista quando dice che dovremmo stabilire il destino di una relazione
affettiva osservando il curriculum di chi abbiamo di fronte. Per evitare il
solito, banale can can di allusioni a uomini del mistero avvolti da una nuvola
di fumo, parliamo di donne. Di amiche. Quando un’amica ti si avviluppa addosso,
con molta reciproca soddisfazione, e racconta che la sua amicizia con te ha
provocato il dolore di altre donne, altre amiche che si sentono lasciate al
margine, invece di essere felice dovresti porti alcune domande. Se è incapace
di tenere in piedi più amicizie senza ferirle reciprocamente, cosa farà con me?
Dovrebbe esistere una paratia che si alza automaticamente, ti fa vivere la
relazione con profonda condivisione ma anche un allarme rosso acceso in un
angolo della testa: “attenzione, persona incostante”. Ho avuto la fortuna di
accendere i neuroni su questa consapevolezza qualche tempo fa, prefigurando ciò
che effettivamente poi accadde. Con la gioia nel cuore, posso dire di essermi
salvata: ho assistito rilassata e neanche troppo delusa all’adolescenziale
deriva di un’amica mai cresciuta sul serio. E’ solo un esempio, forse non
utile. Chissà. Perché l’ho detto? Ah, ecco, sono partita dal silenzio non
gravido di parole. Evidentemente non era così: lo era, era gravido e ha avuto
bisogno di una valle di sconforto scriptorio per partorire. Ho paragonato il
silenzio vuoto a ciò che provo in questi giorni nei confronti di dolori ormai
passati, che ogni tanto vogliono rialzare la testa ma si scoprono fuori tempo e
luogo, quasi noiosi. Ci sono volti che, richiamati alla memoria grazie a
automatismi più longevi del sentimento, in teoria dovrebbero muovermi emozioni,
in pratica non riescono a stimolare altro che uno sbadiglio. Che tristezza.
Uno scambio delle ultime ore su
Facebook mi ha mosso pensieri desolanti e desolati sulle banalità che si dicono
a proposito di amore. Mi considero la prima, sono io a stimolare la più infima
banalità: ritorno a casa nel cuore di Roma in piena notte, dopo una sera meravigliosa,
e filosofeggio sul social network senza considerare le reazioni. Dovrei trovare
gli aggeggi elettronici scarichi, quando mi vengono in mente le frasi che
scatenano forum da cioccolatino. Comunque. In uno dei lampi di genio, ho detto
che spesso l’amore patologico (eccessivo) per una sola persona oscura,
cancella, rovina la presa di coscienza di tanti altri amori, magari meno
dirompenti ma drammaticamente importanti. Ho capito però che ogni volta che si
sfiora l’argomento “amore” e si critica in qualche modo l’entità del sentimento
o si stigmatizzano le sue conseguenze, il coro di chi protesta si leva
immediato. L’amore, questo bene assoluto, questa purezza intoccabile,
indicibile, non criticabile! L’amore, che muove la penna ai poeti e agli
scrittori! Macché, togliamo di mezzo queste banalità che io stessa ho
colpevolmente contribuito a alimentare. Non adottiamo assiomi quando si parla
di amore, per pietà. Che l’amore sia meraviglioso in alcune sue fasi, è vero.
Che la sua assenza regali la sensazione di una parte mancante è altrettanto
vero. Ma no, non è vero che tutto ciò che deriva dall’amore sia buono. La distinzione tra amore e
“altro” esiste, ma non ci serve. Possiamo dire che non sia amore ciò che è
patologico: ce la caviamo ipotizzando che sia vero amore solo ciò che è
positivo in ogni propria manifestazione, ma se lo facciamo dobbiamo ammettere
di non tenere conto della realtà. La verità concreta del quotidiano. Siamo
ormai abituati a confondere con l’amore troppi altri sentimenti, e qualche emozione
passeggera: quando la confusione è tanto radicata nel pensiero comune,
puntualizzare aiuta pochi. O nessuno. L’amore, ciò che la media della gente
intende per amore, può fare male: rovinare famiglie, uccidere la fiducia,
diminuire il talento di un artista. Amore, quanto idealismo raccapricciante, in
fondo. Leggete, se avete voglia di volare, “Amore R” di Tiziano Scarpa, Einaudi: è
la migliore e più originale, realistica rappresentazione dell’amore. A me è successo di leggerlo in un periodo della vita drammatico e destinato a cambiarmi: ho trovato il senso vero, quello che pochi hanno il coraggio di guardare e, ancora meno, di raccontare.
E arriviamo alla scrittura,
eccoci lì. La scrittura non ha l’amore come energia di fondo, o meglio: ha
l’amore per la scrittura come parziale energia, ma non altro. Non si scrive per
amore, non si scrive per dolore. Si scrive perché si è scrittura oppure no. Qualcuno dirà che mi smentisco, in
passato ho detto cose diverse. Vero, ma il tempo, lo studio, l’incontro di
persone che della scrittura sanno veramente mi ha svelato aspetti di me (della
scrittura) meno piacevoli da discutere, ma indubbiamente veri. Ho capito che
molte persone non dovrebbero essere pubblicate, perché si può conoscere
sintassi e grammatica e mettere giù una storia gradevole senza essere
scrittori, ho capito che la scrittura, quella vera, è a sé, non ha relazione
con lo stato d’animo e il frangente di vita, non si siede a aspettare quando
arrivano le feste di Natale e si devono avere altre priorità (regali amici casa
albero addobbati pacchetti: sappiate che casa mia è identica a come potete
trovarla in agosto, niente fronzoli che fanno perdere tempo), non dipende
dall’amore o dal dolore. Parlo di narrativa, perché la poesia è altro, tanto
altro da non entrare in questa digressione da freccia rossa fast in ritardo di
venti minuti (il concetto di fast è relativo, come ogni altro concetto). Dovremmo
chiedere a Maeba Sciutti, una delle più grandi, che è poesia vera. Lei potrebbe
dirci se, in termini poetici, sto delirando.
“Ma la scrittura aiuta nei
traumi, nel dolore, nella ripresa dopo una malattia”. Certo, verissimo. La
scrittura è tanto assoluta, piena, enorme e stupenda da salvare psiche e vite. Non
mi stancherò di favorire, esaltare, incitare scritture reattive di persone che
si trovano in frangenti difficili (o drammatici): se la creatività può aiutare,
se può lenire, anestetizzare, esprimere, sfogare un grande dolore mi ha al
proprio fianco per raggiungere ogni angolo del pianeta e muovere i
traumatizzati a una resurrezione. Tuttavia, nel grande mare di scrittori “per
reazione” continuerò a operare distinzioni, cercando la perla, l’elemento raro,
il talento assoluto, dando per scontato che non tutto sia davvero di valore.
Valore scriptorio, non altro valore. La buona notizia però è che, come ogni
altro essere, anche la scrittura può cambiare, evolvere e migliorare. Può
nascere da un abbozzo informe e farsi opera d’arte. Grazie all’esercizio
costante (sì, anche durante le feste natalizie, lasciando al margine i
pacchetti da confezionare), alla lettura di altri autori e alla critica, al
confronto. E all’apertura della mente. Giorni fa, ero da qualche parte a una
certa presentazione. Tra le varie baggianate ho sentito che “la scrittura deve
comunicare valori, positività, relazioni solo e sempre basate sull’importanza
insostituibile della famiglia, degli affetti veri”, eccetera. No, cara collega
alla prima opera: la scrittura è scrittura, non comunica necessariamente e non
è etica. E’ come un quadro: bello in sé oppure no. Poi. Se esistono scrittori
che sentono il dovere morale di comunicare valori alti (quello della famiglia
fa tanto grotta di Betlemme: vero, indiscutibile, ma serve proprio ribadirlo
ogni istante nella speranza che diventi assoluto?), meglio così. Che la
scrittura incida davvero sul livello culturale di un popolo, che muova le
coscienze, che insinui il germe del confronto pacifico e della non violenza!
Magari fosse. Sogno che si smetta di vedere il sangue, fingersi inorriditi e,
nello stesso momento, suscitare violenza fingendo di essere inconsapevoli del
proprio ruolo nella società. Sogno che l’esempio, l’unica cosa che conta al di
là delle parole, faccia scattare un’emulazione finalmente intelligente,
finalmente vuota di gesti e pensieri di brutale e ignorantissima violenza.
Violenza. Non è solo una
statuetta lanciata in faccia a un uomo, qualsiasi uomo, o a un’istituzione (ci
si pensa, a questo? Qualunque sia il voto che dai alle elezioni, mio lettore,
hai pensato al fatto che in piazza Duomo si è ferita un’istituzione, piaccia o
meno? Sai che a me fa impressione che un’istituzione, anche quando non è vicina
alle mie idee – e non sai se lo sia o meno, mi rifiuto di dire quali siano, le
mie idee politiche, non è rilevante – andrebbe rispettata nell’interesse di
tutti, e della pace sociale?). E’ anche il pettegolezzo storto, è la lite per
il primo o secondo posto a un premio piazzata sui giornali e non sapientemente
sdrammatizzata da chi potrebbe farlo, è la frase idiota detta a una donna (o un
uomo) per interrompere una relazione, è il piccolo dispetto di cui, siamo
certi, nessuno si accorgerà, che si gonfia invece a dismisura e va a finire in
un lago di orrore. Violenza, tutto lì. Che banalità.
Giorni fa ho avuto uno scambio
bellissimo di posta con un amico. Non violenza, ecco l’argomento. Grazie, a
quell’amico. Con il suo fare schivo e timido, affermazioni perentorie e severe
e un sorriso da sciogliermi riesce a scolpire ricordi perfetti. Mi ha ricordato
chi sono meglio di quanto abbiano fatto decine di altri, negli ultimi anni. Non
violenza, o almeno ci provo. Non taccio più, non misuro e nemmeno peso le frasi
con una ritrosia che finora ha solo danneggiato la stima di me, esco libera e a
volte troppo sciolta ma rifiuto la violenza, in ogni caso. Che mi si lasci
dire, come lascio dire agli altri, ma non si prendano le parole come pretesti
per cadere in un modo di vivere che non mi appartiene. Libertà di espressione,
niente censura e non violenza. Ecco ciò che sono o tento di essere. Con molti
errori, certo.
Cosa ti aspetti da me?
Uffa, non ho affrontato
l’argomento. Ho buttato lì la
domanda e l’ho lasciata a metà. Abbiate pazienza: sono su un treno, la testa è
vuota. Qualcosa accadrà.
Il fumo nasconde il volto, quasi. Si alza dalla sigaretta in ampi e tortuosi giri, sale e lo circonda, vela i suoi occhi e ne smorza la luce. Probabilmente si infila nei polmoni, scende e lo intossica, impregna i suoi vestiti. E' sinuoso, sottile e pieno insieme, pastoso come una melma soffice.
- Cosa ha fatto, prima?
- Prima quando?
Fa un gesto vago con il braccio, gira la mano e la appoggia di nuovo alla scrivania.
- Prima, e basta. Prima, capisce?
No, non ha capito. Ma finge, come ha deciso di fare. Stringe le labbra e piega in giù le sopracciglia, come se stesse pensando. Fa più impressione chi riflette prima di aprire bocca, qualcuno una volta le ha detto così.
- La segretaria da un notaio, e la baby sitter.
- E prima ancora?
- Studiavo. Parlo francese e...
- Va bene, non ho chiesto quali lingue sappia parlare. C'è nel curriculum.
Il fumo confonde. Non si aspettava di trovarlo seduto nello studio, la sigaretta accesa, pronto a parlarle di persona. Credeva che avrebbe incontrato un altro, un fantoccio dei suoi, incaricato di selezionare il personale. E' entrata sistemandosi per l'ennesima volta il vestito addosso, ha dato un'occhiata alla scollatura delle altre che si aggiravano nelle stanze dell'azienda e ha deciso di aprire un bottone in più sul petto. Quando la donna bionda le ha detto "Prego" si è fatta avanti cercando di non fare troppo rumore con i tacchi sul pavimento. Ha indossato le scare migliori, quelle con il tacco a spillo e la vernice rossa sotto le suole: sono costate un capitale, le usa solo quando tenta di credere in se stessa per fare colpo su qualcuno.
E' andata avanti, insomma, e ha visto lui, proprio lui, seduto in fondo alla stanza grande, con poca luca e molto fumo.
- Venga, si accomodi.
Non ha avuto bisogno di studiare la voce: la conosce, come tutti. Sa chi sia, ha sempre pensato che fosse un uomo sexy e crudele. Non sa perché pensi così, ma lo considera crudele, il tipo di uomo capace di spezzare cuori senza badare troppo ai ripensamenti.
- Perché vuole lavorare qui?
Ha buttato lì la domanda senza darle il tempo di sedersi.
- Io...
L'ha fissato, o almeno ha cercato di farlo. Ha appoggiato la schiena allo schienale morbido, immaginato più che vedere la camicetta che si apriva sul seno senza che la degnasse di uno sguardo, e accavallato le gambe. Si è chiesta se le calze fossero a posto: non ha avuto il tempo di controllare, è stata spinta da lui e nemmeno si è resa conto.
- Lei cosa?
Implacabile. Vede i suoi occhi dietro la cortina di fumo che si avvita tra loro, sente addosso l'odore e immagina il suo alito. Deve essere carico di nicotina e catrame, un alito bello da baciare: ama baciare chi fuma, sentire in gola il sapore pesante della saliva intrisa di vizio vecchio che non si può sanare.
- Cerco lavoro, un'amica mi ha consigliato di fare domanda da voi.
- Quale amica?
Non le concede il respiro, il dubbio di un tempo lasciato a metà. Incalza e chiede, e la fissa. Senza spostare gli occhi. Sembra che non abbia notato le gambe belle, magre e toniche, il seno sodo tenuto su da un reggiseno terza misura troppo stretto, che lo strizza fuori come se volesse saltare in mano, il trucco perfetto perché fatto da Cristina, l'amica estetista per le emergenze. Niente, non nota niente. E' seduto, fermo, e fuma. E chiede.
- Laura Contini.
- Ah. Me la ricordo.
Non capisce se sia vero, ma sembra di sì. Non assomiglia a un uomo che inventi tanto per fare. Annuisce due volte.
- Aiutava Ilaria, della contabilità.
- Sì, proprio lei.
- Chissà perché è andata via.
- Non ne ho idea.
Ce l'ha, l'idea, ma non può dirla. Sergio, il capo di qualche ufficio che non ricorda, le metteva addosso le mani e la minacciava: diceva che l'avrebbe messa nei guai se non l'avesse fatto contento la sera, oltre l'orario, quando tutti erano usciti. Laura per un po' aveva accettato di fargli compagnia, rimettendosi in fretta il vestito per correre da Arturo, il suo fidanzato, però il bisogno del lavoro non l'aveva motivata abbastanza. Era scappata senza dare il preavviso il giorno dopo uno degli incontri serali con Sergio, nascondendo i lividi e evitando di spiegare i motivi.
- Allora, vuole venire da noi.
- Sì.
La scruta senza espressione. Se anche ci fosse, l'espressione, non potrebbe notarla dietro tutto il fumo che intasa le pupille e i pensieri. Chissà se fuma sempre così, se accende una sigaretta dietro l'altra. Dicono che lo faccia, e che non si sogni di smettere. Ne ha conosciuti, così. Fumano e fumano, poi al primo spavento diventano bianchi e raccontano del medico con la faccia preoccupata e del falso allarme, quello che per poco li ha fatti morire di paura. Stanno senza sigarette per qualche settimana, pochi mesi, poi iniziano di nuovo. Fino allo spavento successivo. Ma questo qui, lui no, forse non si è mai spaventato: è difficile immaginare che provi paura, o amore, o meraviglia. Sa tutto della vita, quel tutto che gli basta.
- Le piaceva fare la baby sitter?
Dice di sì, non racconta. Non c'è motivo. Stava dietro ai bambini di un'amica, prendeva qualche mancia e guardava la televisione quando i bambini dormivano. Doveva arrotondare, guadagnare qualcosa per l'affitto della camera in condivisione nel palazzo popolare in periferia.
- Bene. Chi fa la baby sitter di solito è paziente.
Non è una domanda. La stanza buia rimanda le parole in una specie di eco silenzioso che le rimbalza in testa. Le sembra strano, il colloquio con il presidente per un posto da segretaria amministrativa: l'ultima delle segretarie, quella che probabilmente dovrà fermarsi la sera con Sergio per farsi toccare e giocare di labbra, rivestendosi in fretta quando tutto è finito.
- Quando saprò se mi assume?
La domanda le scappa dalla bocca. Non trova un senso nei minuti che passano. Le gambe iniziano a tremare per l'impazienza, un sudore lieve scende dietro il collo, i capelli forse perdono la piega.
L'uomo sorride.
- Finalmente, adesso sembra viva.
- Perché?
- Perché ha preso l'iniziativa e chiesto qualcosa, temevo fosse morta o in stato di coma.
La voce graffia. La luce degli occhi buca il fumo e la raggiunge.
- Vorrei sapere se dovrò aspettare tanto.
- Ha altri colloqui?
- Veramente no, ma.
- Ma deve pagare l'affitto.
- Come fa a saperlo?
- Non lo so, ma dite tutte la stessa cosa. Affitto, scuole serali, figli. Ha figli?
- No.
"Non ne voglio", non lo aggiunge. Non sono affari suoi.
- Meno male. I figli fanno perdere tempo, se vuole il mio parere.
Non capisce, forse la sta provocando. Sorride storto, tira su solo una parte della bocca in un ghigno per niente simpatico.
- Comunque le rispondo subito. Sì, la prendo. Proviamo.
- Perché?
- Come, perché?
- Non mi ha chiesto niente.
- E non è contenta? Meglio così, non rischia di sbagliare. Se faccio troppe domande prima o poi cade, come tutti. Invece se il colloquio è muto il rischio dell'errore non esiste.
Appoggia le mani alle ginocchia, improvvisamente si sente nuda. I suoi occhi si sono mossi, hanno abbandonato il volto e sono scesi, hanno percorso il suo corpo lentamente, ostinati e palesi.
- Bene, adesso vada. Si metta d'accordo con Silvia, là fuori. Ci vediamo.
Le tende la mano, lei si alza e gliela stringe. E' calda, morbida. Le piace. Fa qualche passo indietro, si volta e cerca la maniglia.
- Signorina.
Gira solo la testa.
- Sì?
- I suoi genitori?
Una fitta allo stomaco. La voce non trema, ma dovrebbe.
- Ho solo mia madre. Ha cinquantadue anni, è insegnante elementare.
- E il papà?
- Non l'ho mai avuto.
- Capisco. Sono cose che capitano. Bene, buonasera.
Sono cose che capitano. Decide di dimenticare la frase mentre abbassa la maniglia e spinge la porta pesante di legno ricco. Esce e osserva Silvia, che ha risposto a una chiamata appena l'ha vista comparire, ha chiuso subito e adesso le fa segno di avvicinarsi.
- Ci vediamo lunedì.
Le spiega molte cose in fretta, chiara e distante. La ascolta.
- Sono sempre così, i colloqui?
Silvia la guarda, una smorfia di sopresa sul viso stanco.
- Cioé?
- No, niente. Non ci sono abituata.
- Con lui molte cose sono fuori dall'abitudine, mi creda.
La saluta con la mano e un sorriso, cerca il corridoio. Cammina.
Ritornerà lunedì. Avrà una scrivania e un cestino dove buttare la carta straccia, e uno stipendio. Avrò le mani di Sergio e il fumo da attraversare quando sarà costretta a parlare con lui, con il presidente che vive immobile in una stanza buia.
Ma ha un lavoro. Grazie a lui, all'uomo nascosto dietro il fumo, con la luce negli occhi che si vede solo a tratti. Ricordava quella faccia, l'ha vista tante volte sulle fotografie nel cassetto che sua madre tiene chiuso a chiave.
C'è la volta in cui ti siedi e hai tutto in testa. Tutto, insomma, più o meno: hai l'idea della scrittura, un abbozzo di impressione o trama, un'intuizione piovuta chissà da dove che non si cancella, non va più via. Oppure è capitato che la storia ti sia venuta in mente e le mani stuzzichino il bisogno, si muovano da sole nell'attesa di tirare fuori le parole. Poi. C'è la volta in cui hai il vuoto in testa, e mai penseresti di scrivere. Ti succede solo all'inizio, però, di percepire il vuoto e pensare che non scriverai, perché quando diventi un po' furbo, e l'esperienza si accumula sulle spalle e nei pensieri, capisci che il silenzio è denso di parole. E ti siedi, anche in quel caso, consapevole che qualcosa verrà fuori.
Come adesso. Ho ricevuto un messaggio di posta elettronica che chiedeva una correzione per un pdf, un articolo da rivedere con la solita, notissima urgenza.Quando lo schermo è diventato bianco e l'articolo in pdf è ripartito per destinazione diversa, la calma ha tirato fuori la voglia di scrivere. Ho trascorso ore, oggi, su un capitolo del romanzo che da ieri è lì che si cucina: lungo, breve, intenso o scipito, non ne vengo a capo. E questa sera, molle della decisione di non intestardirmi per evitare di sciupare tutto (che brivido chi rivede un manoscritto in pochi giorni), ero tentata dalla lettura di tre o quattro libri portati a casa da Equilibri di via Farneti, la libreria di Milano dove mi sento a casa. Invece. Sono qui e scrivo, mi fotografo, dipingo, ritraggo, specchiata nello schermo grande del computer con riflessioni e ricordi recenti che non voglio condividere. Forse.
Non mi aspettavo una giornata così. Non immaginavo la gioia, le telefonate e l'amore. Non aspettavo la nostalgia e la rabbia, credevo avrei solo mangiato chilometri tra Milano e Pisa e ritorno, visitato persone e rimuginato un po' al tempo della musica mp3 attaccata al cavo nero che entra nel cruscotto. Invece il viaggio è stato un volo lieve, il rumore dell'autostrada che strinava le ruote si è diluito in decine di messaggi e chiamate e novità. Novità. Da poco, per chi si desse la pena di ascoltare. Da molto, per me che non ho l'intenzione di condividere. Non questo, non ora.
Poi. Questa sera, arrivata a Milano, ho fotografato il Duomo. Ho escluso l'albero di Natale dalla fotografia perché era eccessivo, troppa luce troppa gioia troppo tutto. E fotografato il Duomo. Chissà perché, di tanti ricordi remoti e recenti uno solo ritorna cattivo e tagliente: quello di una sera, al termine di un incontro d'amore, una passeggiata da sola con la nostalgia di lui. Fa male il ricordo quando tutto finisce, fa male soprattutto sapere come sia finita. Perché non credo che sia indifferente, il modo in cui una storia finisce. Eppure, nella mia sera di passi e squilli continui del telefono piatto intasato di sms, il male non c'era, non per lui. Non per l'uomo del ricordo di piazza Duomo. Difficile da spiegare, e non spiegherò. Dovrei dire che poi, ore dopo, ho letto un articolo in cui qualcuno racconta di sè: quel sè che conosco e ho amato, anche quello, un sè fuggito perché "sono un pensiero troppo forte".
Un pensiero troppo forte. Una donna impegnativa. Ormai lo dico da sola, davanti allo specchio: non sono come il colore nero, che è elegante e non impegna, mi sento un rosso vivo che offende, eccita, tortura, ripugna. Il rosso della passione e dell'eccesso, del sesso che butta fuori le lenzuola dal letto, dell'odore di corpo e profumo e sudore, della passione che sradica e non trova requie e della gelosia tremenda, del gesto urlato per strappare lacerazioni gementi e degli abbandoni brutali, che offendono il pensiero di essere stati vivi. Rosso, il rossetto che porto in borsa e tiro fuori solo nel tardo pomeriggio. Rosso, il colore che secondo l'uomo per cui sono diventata un pensiero troppo forte mi dona. Rosso, il furore accecante del 2009 che ha cambiato tutto. Tutto nella mia testa, e nel teatro rutilante della vita. Rosso, è il lampo che vedo quando mi guardi da lontano, e sorridi trattenuto perché non ti aspettavi che ci fossi. Rosso, la voglia di sentire l'odore della tua pelle quando mi avvicino per il solito bacio cortese, urbano, amichevole. Rosso, il desiderio feroce quando ti vedo timido e muto, serio e severo. E sussurro: "Frena l'entusiasmo".
Rosso. Come l'sms arrivato adesso, strappandomi una risata. Perché l'uomo per cui sono un pensiero troppo forte ha vibrisse da primo amore, sente il mio desiderio deviare e, da lontano, recupera metri nel ricordo, rosso, delle notti prima delle streghe. La strega delle mie notti, finché non sono stata troppo "forte".
Rido. Ho scritto dal vuoto in testa, dal silenzio dopo un pdf corretto e rispedito. Andrò a toccare i libri, adesso. E, con la penna in mano, scriverò appunti che un giorno diventeranno qualcosa.
Rosso, per una notte con l'unica quiete che conosco.
Il 13/12/2009 presso la sala rossa alle ore 13,00 Aperitivo poetico letterario con la partecipazione delle autrici Maria Giovanna Luini, Claudia Reghenzi, Cinzia Anselmi e Anna Mancini. Coordina il poeta Çlirim Muça.
Maria Giovanna Luini parlerà di Una storia ai delfini, Claudia Reghenzi di Giallo all'ombra del vescovado, Cinzia Anselmi di La maschera del successo e Anna Mancini di Maat, la filosofia e la giustizia nell'Antico Egitto.
13 Dicembre 2009 alle ore 13.00 Superstudio Più via Tortona, 27 - MILANO
Ha aperto la finestra e respirato l'aria fredda, le piccole gocce di pioggia troppo leggere per cadere, rarefatte nel cielo basso che le entra nel naso. Ha guardato la spiaggia vuota e la strada, pochi metri oltre il suo balcone, deserta. Sorride. Ha ancora nella testa il ricordo della voce che l'ha tenuta sveglia dopo la presentazione del libro, la voce di donna che verso l'una di notte si è messa a urlare.
Ha aperto la porta della stanza e trascinato dentro la valigia, l'ha sollevata sul trespolo di legno e aperta per togliere la schiuma da bagno, il dentifricio e la camicia da notte di seta, corta e leggera; con tutto in mano, è andata in bagno e si è persa sotto la doccia. C'era il silenzio, oltre lo scrosciare dell'acqua, tanto silenzio da farle sognare il sonno, le lenzuola bianche pulite e un cuscino ignoto sotto la testa. Ci ha messo un po', a liberarsi della voglia di acqua sul corpo, e della schiuma densa profumata che si è spalmata addosso. Le piace sentire le gocce battere sulla pelle, le piace quando mani grandi e esperte esplorano, lavano, solleticano ogni piega di lei. Le ha ricordate, le mani scivolose di schiuma, troppo stanca per concentrarsi ma abbastanza viva da desiderarle ancora. Ha sentito i morsi sul collo e il corpo tonico e giovane che le si piega addosso, quando non è sola. Poi ha chiuso il getto, è uscita cercando il tappetino bianco morbido con i piedi, si è asciugata, ha infilato la camicia da notte con la solita goccia di profumo dietro un orecchio. Ed è saltata sul letto, buttando la testa sul copriletto e chiudendo gli occhi.
Il viaggio in treno, le parole dette e ascoltate, la cena con l'amico poeta e le confidenze l'hanno liberata. Aria, aria pura di libri e viaggi, come piace a lei. Potrà dormire, adesso, può farlo perché si sveglierà alle cinque e manderà avanti il romanzo, la storia grossa pesante intensa che le viene fuori dalle mani. Ha pensato questo, mentre cercava il torpore. Ha spostato le lenzuola e si è infilata sotto, ha spento la luce. Per un attimo, ha benedetto il cielo freddo e le nuvole cariche di pioggia che desertificano il lungomare. Poi ha creduto di dormire.
La voce è arrivata quando gli occhi erano chiusi e le mani giunte di lato, sotto la guancia, sotto il cuscino. La camicia da notte liscia accarezzava il corpo convinto a dimenticare, a rimandare il desiderio dei tocchi lievi e dei baci umidi di voglia. Ma la voce, la voce ha rotto l'oblio. All'inizio ha pensato che non fosse vera, ha creduto a un sogno o un desiderio proiettato in una sensazione delirante. Zitta, ha acuito i sensi. E l'ha sentita di nuovo. Una donna urlava a tratti ritmici, ansimava e chiamava un nome che non riusciva a capire. Godeva, la donna, in una stanza vicina alla sua.
- Ma senti.
Ha sussurrato, e si è tirata su. Ha acceso la luce e preso il taccuino per scrivere, senza sapere perché. Le pareti rimbalzavano di gemiti e grida, vere e proprie grida sempre più veloci e acute, incuranti dell'albergo e degli ospiti e del sonno. Alte, poi ferme, poi di nuovo vive e piene, in un orgasmo sempre più vicino. Ha immaginato la donna, e l'uomo su di lei. O sotto, o di lato. Li ha immaginati insieme, e il volto di lei sciolto, contratto, trasfigurato dai gesti e dall'odore del desiderio che sicuramente impregnava la stanza.
Si è messa a ridere, la mano destra si è mossa sul foglio e ha scritto qualcosa. Ha visto i tratti blu sul bianco della carta, ha sentito, vissuto, bevuto le grida ormai continue, forti, assolute. E l'orgasmo, finalmente, l'ululato lungo, quasi un dolore incapace di fermarsi, un canto di sirena libera stracciata dalle onde. Fino al silenzio, dopo. E la voglia di dormire andata via, e la scrittura sbloccata fino alle cinque del mattino. Fino a non addormentarsi più.
Pensa a questo, con gli occhi tuffati nel mare. Ha scambiato qualche sms con un amico, gli ha raccontato la notte e i rumori, ha scherzato con lui su chi fosse la donna, quando era seduta nella sala della prima colazione. L'ha vista, ne è sicura: stanca, china su un giornale, placata dal riposo. Per un attimo le ha sorriso, ha detto buongiorno all'uomo che le accarezzava la mano. La luce negli occhi, quella che l'amico le ha suggerito di cercare per essere certo di riconoscerla, ha brillato nei residui del sonno, solo per lei.
Guarda il mare, e la rotonda. L'acqua grigia si confonde con le nuvole dense, di carne soffice da mangiare.
E' felice. Ha scritto la vita, grazie alle grida di una donna al di là del muro.
Manda brevi messaggi email e pezzi di musica. Nell'ultimo messaggio, musica di Scarlatti. Ascolto molte volte, spesso è notte quando approfitto del silenzio per perdermi e immaginare. E' bello sapere che esista da qualche parte, lontano oppure vicinissimo, un uomo (il cui volto ho intuito da una fotografia) che suona per me. E spedisce, poi, i pezzi perché li possa ascoltare. Il nascisismo che non mi manca è gratificato, ma non si tratta solo di questo: queste mani misteriose che suonano e mandano messaggi ricostruiscono l'idea, l'impressione, come in un soffio impertinente, di delicatezza e pensiero. Delicatezza, pensiero. E' un'impressione che più volte è mancata, in questi anni recenti di rivoluzione e cambiamento: ho conosciuto uomini capaci di grandi crudeltà e piccineria impagabile, ma ne ho incontrati alcuni densi di tenerezza, e stupore per la bellezza di uno sguardo. Uomini che, a tratti, hanno saputo spiegarmi l'amore. Dico l'ennesimo grazie, in queste righe pubblicate dopo una giornata di viaggio e mare grigio e freddo, a chi mi spedisce la musica: non sono costante nelle risposte, probabilmente deludo le tue aspettative, ma la tua arte è compagnia frequente dei miei silenzi.
Strano come la posta che ricevo si assomigli nel contenuto in base a ciò che pubblico nel blog. O forse non è strano: la lettura provoca reazioni, che sono echi di ciò che nel blog compare e suscita riflessione. O critica. O emozioni. Insomma, alcune donne mi hanno parlato di amore nelle lettere notturne (tutte scritte di notte!) che hanno riempito il mio indirizzo email. Queste lettere, molto belle, hanno raccontato vite a frammenti e posto domande; si sono accavallate alle domande che ho ricevuto venerdì sera a Senigallia, alla presentazione di "Diario di melassa". A Senigallia, CG, una donna che considero amica e sento spesso in Facebook, ha chiesto se creda ancora nell'amore. Se dia fiducia all'amore. Il senso della domanda era questo: nei libri racconto amori mancati, interrotti, tragici, spesso traditi; come posso fidarmi ancora quando amo qualcuno, se la mia visione dell'amore è questa? Più o meno, è ciò che colgo anche nelle lettere recenti delle lettrici: ci si fida ancora dell'amore quando gli eventi hanno portato molto dolore? Confesso che la mia risposta è meno lineare rispetto al passato. L'istinto, fino a qualche tempo fa, mi avrebbe imposto di dire un "sì" convinto, spregiudicato, incosciente, un sì destinato a gettarmi nell'azzardo e nel pericolo con il sorriso sulle labbra. Ma. I tempi sono diversi, e qualcosa dentro è cambiato. Provo a raccontare che cosa.
Perdonate la digressione di vita vissuta, mi serve per calare nel reale parole che potranno sembrare filosofia da niente. In un momento della mia vita, ho amato molto qualcuno. L'ho amato tanto da accettare la consapevolezza che, prima o poi, l'amore sarebbe finito; e ho fatto ancora di più, non l'ho solo amato: mi sono fidata. Ho creduto che, anche nella peggiore delle situazioni, quell'uomo avrebbe rispettato un patto di lealtà da lui stesso proposto nei momenti migliori, e mi avrebbe parlato con tatto e delicatezza di un'eventuale rottura tra noi. In realtà, avevo dimenticato questi dettagli, avevo perfino rimosso la faccia di lui, mi sono ritornati in mente l'altra sera mentre lavoravo alla seconda stesura di un romanzo che al momento riempie le mie ore. Quell'uomo, a un certo punto della nostra storia, incontrò un'altra donna e con lei iniziò una relazione; lo capii dai soliti, squallidi segnali (resterà mirabile un telefono cellulare lanciato di fretta, nel bagno, a un mio incauto presentarmi sulla soglia: chi di voi ha vissuto una cosa del genere può capirmi) e provai a chiedere, ma mi sentii rispondere con una serie di banalità che solo una mente ottenebrata dall'amore avrebbe potuto accettare. La mia mente, ahime. L'ultima volta che lo vidi, preparò ogni cosa alla perfezione: trascorse la notte con me, si fermò a casa mia anche la mattina, poi mi portò a pranzo e aggiunse una passeggiata al mare. Per poi sparire senza spiegazioni e liquidarmi, dopo circa un mese, con l'epica frase (rigorosamente telefonica): "Sei stata una piccola parentesi".
Sei stata una piccola parentesi.
Bene, fine del siparietto autobiografico. Sarebbe inutile, autolesionistico e fuori dal tempo presente soffermarci sul dolore devastante che quelle parole hanno provocato, senza una vera ragione per il suo pronunciarle. Fermiamoci alla frase, vero nucleo di tutto. A Senigallia, venerdì sera, ho tentato di analizzare le motivazioni per cui un uomo, finito l'amore (o l'affetto, o la simpatia, mettetela come vi pare), debba lasciare andare dalle labbra una frase del genere. Gratuita, non necessaria, fonte di dolore tremendo per chi la riceve, definitiva nell'azzerare la stima. Sincerità? No, è una risposta sciocca. Che sia stato sincero o meno, credo che nessuno abbia voglia di farsi ricordare come quell'uomo inevitabilmente è ricordato da me: un povero cretino. Disprezzo? E perché? Perché disprezzare chi ti ha amato, chi tu stesso hai amato? Scarsa educazione? Sì, questo sì, perché una cosa che ho dovuto per forza constatare è che, nonostante un'immagine sociale particolarmente "ricca", quell'uomo non abbia mai dato prova di particolare eleganza. Insomma, che l'amore finisca capita continuamente, ma che si ferisca qualcuno con poche parole buttate fuori così non dovrebbe essere previsto dal manuale del perfetto ex-amante.
Ritorniamo alla fiducia nell'amore, alla voglia di investire in una nuova storia dopo relazioni abbozzate, cadute, sfracellate per varie e più o meno evidenti ragioni. Rispondo a CG e alle lettrici: sì, credo valga la pena comunque di investire e buttarsi, credo che l'amore contenga il mistero della rinascita e della felicità, fuso insieme al dramma e all'imprevedibilità più assoluta. In fondo, dopo il povero cretino ho incontrato un uomo meraviglioso, una specie di miracolo, che ha saputo restituirmi dolcezza e passione senza la necessità di provocare inutile dolore. Però. Se dalla ferita della perdita di qualcuno che amiamo possiamo senza dubbio guarire, la ferita della delusione non rimargina mai completamente. Incredibile a dirsi, non ho ritenuto di dovere perdonare il nuovo amore del povero cretino (aveva il diritto di innamorarsi, come avrà il diritto di disamorarsi dieci, cento, mille volte), ma non potrò fare a meno di ricordarlo come qualcuno che non ha avuto coraggio, e che volontariamente ha provocato un dolore non necessario. Qui, proprio in questo insignificante dettaglio, la fiducia vacilla. E non sono pronta, brillante e schietta come una volta nel rispondere ale domande di CG e di altre lettrici.
Una di loro, una di queste lettrici, pone una domanda in particolare. "L'uomo che mi interessa è sposato, e ha avuto altre amanti in passato. Come posso essere sicura che non tradirà anche me? Dice di non essersi mai trovato tanto bene con una donna, ma devo credergli?". Cara FM, mi chiedo ogni giorno il motivo per cui queste domande vengano poste a me (i miei libri non sono l'esempio limpido dell'esperienza positiva in amore), tuttavia so di avere ragione quando dico che l'uomo che ti interessa tradirà te e qualsiasi altra donna avrà in futuro, e no, non dovresti credergli. E' uno schema: lo ripeti tu e lo ripete lui, come in un copione. Esistono uomini che tengono aperte molte porte e non sanno chiuderle, ne esistono altri che vivono con il bisogno di moglie e amante, e ce ne sono alcuni che, dopo anni di totale infedeltà, provano la strada della relazione serissima: questi ultimi si infilano il paraocchi, tirano dritto finché capita qualcosa che li fa cadere. E dopo la caduta non trovano più la strada. Comunque. Non fidarti del'uomo che ti interessa, ma decidi per te. Sii libera, prendi la vita nelle mani e vai avanti. Chi ha detto che non si debba amare un uomo che, prima o poi, tradisce? Stai attenta però a non farti troppo male, metti te stessa prima di lui. Sempre.
Oh, che impressione. La posta del cuore sta diventando davvero "l'angolo Liala": chissà come sono contenti i miei colleghi che parlano invece di massimi sistemi! Ma cosa volete farci, ho questa fissazione di rispondere a tutti,lo faccio in privato e, qualche volta, anche nel blog. Soprattutto, me ne frego altamente di ciò che pensano i nasini ritorti in su.
Un gentile lettore insiste nel mandarmi email pornografiche con descrizioni dettagliatissime dei nostri improbabili, futuri rapporti sessuali. Grazie anche a Lei, è tenace e fedele in questo autoerotismo comunicativo, ammetto che nell'ultima lettera le fantasie erano meno banali e un tantino migliori delle precedenti, però non riesco proprio a vedere un futuro per me e Lei insieme. E non lo vede neanche Lei, sono certa. Sarà per un'altra vita.
Moltissime lettere riguardano "Diario di melassa". Sono lettere di donne, ma c'è anche qualche uomo, che hanno sofferto o soffrono di "binge eating disorder". Come me. Questi lettori dicono di sentirsi capiti, di leggere nelle poche e scarne pagine del libro la descrizione di ciò che accade davvero, al di là e oltre la retorica di scrittori che tentano di dipingere i disturbi alimentari come malattie poetiche e tormentose con un filo di romantica poesia. Nessuna poesia, il binge eating disorder fa schifo. Mangi tutto, mescolando sapori che non senti e buttando giù senza masticare, rischi di soffocare nella cioccolata mista al prosciutto crudo e maionese, e fai in fretta, sempre più in fretta, ti nascondi anche quando sei sola in casa, poi ti senti il peggio del peggio, lo scarto abietto e inutile dell'umanità, ma non puoi fermarti. Il mondo ti guarda, se ingrassi a dismisura come è capitato a me ti osservano con un punto interrogativo sulla fronte e chiedono "Ma tu che sei così intelligente, perché sei grassa? Basta solo smettere di mangiare".
Basta solo smettere di mangiare.
Altra frase che fa il paio con quella del povero cretino, qualche paragrafo più su. No, che non basta smettere di mangiare; o forse sì, basta quello, ma da soli non si riesce! Perché tutto passa attraverso il cibo, la dolcezza, la voglia di amore, il sesso, la rabbia, la nostalgia, la noia. Il cibo è amore che non c'è, è il tentativo di riempire una voragine nerissima che, fatalmente, non si riempie mai, resta vuota e sempre più grande, nonostante le tonnellate di roba informe, a volte perfino scaduta, che si butta dentro. Il cibo, per chi unisce al disturbo il ricordo di molestie sessuali, è il modo per respigere attenzioni malsane oppure sanissime ma difficili da accettare, è il modo per coccolare se stessi perché le coccole umane non bastano, oppure non si riescono ad accettare. Il cibo è nemesi e priorità assoluta. E questa è una MALATTIA.
Il binge eating disorder è una malattia. Notizia buona per chi ne soffre perché, come è capitato a me, si può chiedere aiuto. Non so se si possa definire guarigione ciò che accade dopo, quando l'aiuto professionale porta a stare meglio: guardate le mie foto in tempi diversi della vita, capirete che il cibo è rimasto una reazione spontanea agli eventi belli e brutti che capitano, però è possibile conoscere se stessi e imparare a salvarsi, a limitare i danni. A fermarsi, là dove per anni non siamo stati capaci di farlo. Ciò che mi auguro è che "Diario di melassa" dica che si può migliorare, e stare molto, molto meglio. Non era nelle mie intenzioni dare un senso al manoscritto: quando scrivo non ho finalità etiche o terapeutiche, metto giù quello che l'istinto e la ragione vogliono, però ho capito, grazie a chi ha letto il libro e ha voluto condividere con me le proprie impressioni, che raccontare qualcosa di sè a volte può fare sentire capiti, incoraggiati. Può fare sentire più leggeri, in tanti sensi.
Concludo con altre lettere, pesanti e dense di dolore. Qua e là, non solo in "Diario di melassa", ho parlato di incesto. E la cosa ha creato rabbia, dolore, empatia, insulti, voglia di confessioni epistolari. Penso che l'incesto sia abnorme, mi succede di accorgermi che tanta gente arrivi al mio blog digitando sui motori di ricerca "racconti erotici in famiglia, con cognate, figli, sorelle, madri". Questo mi rende triste, ma fa anche tanto pensare. Il confine tra incesto e attrazione sessuale casuale, involontaria, caduta addosso senza premeditazione è sottilissimo. Giudicare a priori è sbagliato. Però il problema esiste, e crea sofferenza. L'incesto viene nascosto, ma spesso percepito ugualmente: si sa e non si dice, si fa tutto per coprirlo. Ma, di notte, si controllano i siti che pubblicano racconti e video pornografici per cercare la trasgressione massima: ho visto molti siti del genere, succede spesso che vada a vedere perché in un prossimo romanzo racconterò parte dell'esperienza con queste letture, e ho capito che tuonare con aria pontificale non basta, non è la soluzione. A chi mi ha scritto non ho risposte intelligenti da dare, se non che, forse, la repressione sessuale palpabile di una società che usa internet, ha a disposizione tecnologia da sogno e apparentemente è riuscita a raggiungere il massimo della libertà, sia ancora troppo pesante. Si cerca di trasgredire almeno a parole, o nella lettura, distorcendo il significato di una parte meravigliosa della vita: il sesso. Niente di più naturale, istintivo e appagante del sesso. Eppure, come per il cibo, anche per il sesso esiste il disturbo, l'abbuffata patologica che scompensa e colpisce duro.
A proposito. Qualcuno ha chiesto come mai scriva racconti erotici. Non esiste un motivo che riesca a spiegare. Considero il sesso una realtà stupenda, necessaria, superflua negli atti per chi non desidera o non può viverlo, ma integrata radicalmente nell'essere. Mi piace scriverne, in alcuni momenti. C'è il momento per scrivere il sesso, e il momento in cui il sesso proprio non fa parte della scrittura. Succede che ironizzi descrivendo situazioni eccitanti, al limite del pornografico, oppure che sia serissima e intenzionata a parlare di relazioni che stimolano la mia fantasia. Succede che non trovi motivo per non parlarne, che non veda il male (no, proprio non lo vedo) o la "caduta di stile" (alludo alla lettera di CC): perché il sesso dovrebbe fare cadere lo stile? Lo stile cade se la scrittura è brutta, ma non è certo colpa dell'argomento! Chissà perché, la domanda più frequente è se i miei racconti siano tutti vita vissuta: volete sapere se trascrivo le mie avventure per la gioia dei lettori e per il narcisismo inevitabile di ogni scrittore? Certo, ogni pezzo di scrittura è vita vissuta da qualcuno, e lo scrittore nemmeno lo sa: non racconto la mia vita sessuale (forse) e neanche quella di persone che conosco, racconto situazioni possibili, probabili, realistiche o meno, ma concrete. Da qualche parte, in qualche luogo. Non è importante, per me. E' chiaro che conosca il sesso, ma anche nei racconti erotici, come nel resto delle cose che scrivo, ritengo che la mia vita sia per niente interessante: trovatemi dove vi pare, forse ho fatto ciò che scrivo o forse no, non è questo che davvero conta.
Concludo, ora, davvero. Ritornerò con altre lettere più avanti.
A tutti, tutti voi, un sorriso e un grazie incredulo e felice: ricevere le vostre parole, qualunque sia l'argomento, è una parte del mio essere che regala emozioni importanti. Mi rendete un po' migliore.
Un cappotto nero appeso vicino alla porta, con una sciarpa di lana rossa girata intorno al collo. Accanto, la giacca blu senza un pelo, senza una traccia dell'abbraccio dei primi istanti.
- Ciao, amore.
Ha detto mentre la stringeva, e ha tenuto la sua testa nell'incavo del collo, appoggiata di lato sulla spalla. Ha sentito sulla guancia il calore della pelle, e l'alito in gola insieme alla saliva; il seno premeva sul petto e si poteva solo immaginare, abbottonato, avvolto dentro il cappotto nero.
- Mi piace che apri le braccia e mi nascondi.
Ha sussurrato, mordendogli il mento. E ha preso la sua bocca, si è infilata con le mani nella giacca mentre la baciava. Bacia bene, lo fa sentire uomo: l'ha notato subito, la prima volta che ha avuto il coraggio di avvicinare le labbra al suo viso.
Parlavano, come facevano spesso nei giorni in cui il lavoro lo teneva in città: i pretesti per incontrarsi sempre più fantasiosi, la osservava seduta con le mani mobili a disegnare l'aria insieme alle parole. Studiava i movimenti e si incantava di un sorriso, della storia di un libro nuovo o una digressione che faticava a ricordare tutta. Quando ha deciso, e l'intera notte sveglio a preparare il gesto l'ha convinto a tentare, si è alzato dalla poltrona, ha superato la scrivania e l'ha raggiunta. Una mano sul volto per accarezzarla, ha notato che forse i gesti erano quelli che anche lei sperava. Così ha avvicinato la bocca, e ha trovato la sua. E ha pensato, sì, l'ha pensato subito, che baciasse proprio bene. Come ha fatto due ore fa, più o meno, quando hanno attraversato la hall lussuosa come due estranei, prima lei poi lui, sono saliti su ascensori diversi e hanno raggiunto il settimo piano, hanno camminato senza rumore fino alla porta della stanza (sempre quella, a lei piace così) e si sono tenuti stretti solo quando si sono sentiti al sicuro. Dagli occhi, dagli inchini, dal pettegolezzo che tanto esiste ugualmente. L'ha baciata appena ha sentito il clac della serratura, la sua testa appoggiata alla spalla e le labbra morbidissime, sottili, la lingua dentro di lui, intorno alla sua.
- Non vedevo l'ora.
Si è lasciato scappare. L'ha vista sorridere, compiaciuta. Per un istante, solo un istante ha ricordato un racconto che lei ha scritto per un'antologia, l'unico racconto d'amore.
L'unico racconto d'amore. E non era per lui.
- Bah, come ero sciocca.
Ha detto quando l'ha visto leggere quel racconto, e non ha raccontato chi fosse l'uomo con la barba. Ha dovuto fare da solo, con le indagini che in fondo sono tanto semplici: ha visto e ricordato, si è stupito un po'. Ha pensato che non fosse per lei, ma si è fermato a chiedersi se da qualche parte, nascosto a tanti occhi, esistesse il grumo che l'aveva fatta innamorare.
- E' uno che non valeva la pena amare.
Eppure. Gli è venuto in mente il racconto, e anche l'uomo con la barba, quando ha visto i suoi occhi felici con un sentimento che assomigliava all'amore. Perché ha pensato di essere simile a lui, all'uomo con la barba, in un albergo di lusso con Milano fredda fuori, e il sesso rubato agli sguardi e all'insistenza sospetta di sua moglie. Gli capita troppe volte di fermarsi a pensare a Chiara, quando è con sua moglie. E, se ricorda i baci o il corpo nudo che gli si accoccola sopra con l'estasi dipinta in viso, non può fare a meno di odiare l'uomo con la barba che ha avuto tutto prima, e forse l'ha avuto meglio. Perché lei non dice mai ti amo.
- Io te lo dico spesso.
Le ha rinfacciato una volta, osservando i gesti lenti con cui si rivestiva dopo una doccia lunga e profumata in cui si era infilato per continuare ad averla, averla ancora finché poteva.
- Lo so. Ma sono parole. Cazzate.
Non le sta bene la parola storta sulla bocca, non è la sua. La perdona perché ha capito che qualcosa non è andato, non molto tempo fa. La perdona perché in fondo la sua fortuna è stata il dolore di una delusione che non riesce ancora a mascherare, con la mano che si alza di scatto e dice:
- Non toccarmi!
Se le propone di andare in vacanza qualche giorno insieme. Perché non sa ancora accettare che sia suo, e divida con lei strade e tempi e luoghi. Deve prenderla e portarla via, organizzare sorprese che la lasciano stordita con la bocca semiaperta e gli occhi di una bambina impaurita, la vibrazione sottile di quando chiede di fare l'amore. Riesce ad averla solo se la picchia di un amore sovrabbondante e zuccherato, ironico di gesti lontani dai ricordi che non vuole raccontare.
E' stato fortunato quando lei ha perso l'amore, ha raccolto dove altri avevano buttato via e fatto rinascere l'unica donna che valesse la pena incontrare. Perché è sicuro, lei lo ama.Lo capisce dal sudore che lo copre quando la fa perdere di piacere, dai "Finalmente" che le sfuggono se si lascia andare ed è felice. Lo capisce dai regali, dai piccoli pensieri nascosti e dai messaggi che vorrebbe ogni ora, ogni minuto, ogni istante. Per respirarla anche quando è costretto a starle lontano.
- A cosa serve dirtelo, dovresti saperlo. Dovresti sentirlo da me, da cosa faccio e come.
Lo sente. Lo vede. Sa che la loro storia le regala vita. Respira l'amore che l'ha travolta almeno quanto abbia travolto lui. E, se solo l'uomo con la barba non esistesse, potrebbe raccontare a se stesso di avere avuto l'ultimo miracolo della vita.
Se l'uomo con la barba non ci fosse.
- Che stupido, è l'ultima persona di cui avere paura. Anzi, no, quella ancora dopo l'ultima! Se restassi sola al mondo, e ci fosse solo lui, non mi accorgerei della sua presenza. Era un abbaglio, sai, ho visto un uomo che non c'era.
Quando lo rassicura è sincera, lo legge nei suoi occhi. Lo pensa sul serio, non ama più l'uomo con la barba e forse lo disprezza un po'. Ma la verità di oggi non è il punto, non il punto vero. C'è il racconto, l'unico racconto d'amore.
L'unico racconto d'amore.
- Ma scusa, è passato! Non ricordo, non ha senso. Non è più...
Niente. Dice che è niente. E sa che è vero, lo sente. L'ha guardata a lungo a Firenze, l'ha seguita a Roma, ha parlato con l'amica che conosceva anche l'altro, l'uomo con la barba.
- Avrei giurato che fosse diverso, almeno educato. E che le volesse bene. Ma sai, adesso che la vedo così sono felice e non me ne importa niente. Anzi, non capisco come mi sia venuto in mente di pensare che fosse al nostro livello. Meno male che è andato via. Le farei rivivere in pieno tutto il dolore che ha avuto per essere sicura che poi si metta con te. Guardala, cosa ti importa di lui? Guardala adesso.
La guarda. Tanto spesso da stupirsi. Ha avuto donne alte, flessuose e capaci di togliergli il portafogli ogni volta che volevano. Ha avuto attrici, modelle, ballerine. Ha avuto amiche di sua moglie che fingevano di porgergli la guancia la domenica sera, per salutarlo caste e stridenti di fraterno affetto, poi gli sfioravano la cerniera dei pantaloni. Ma lei, lei è unica. La guarda e vede l'amore, la felicità libera di un'artista libera che lo trascina, liberi, nei letti morbidi degli alberghi o della casa a Ponte Vecchio, e gli fa perdere il ricordo del tempo.
Se solo non ci fosse l'uomo con la barba, e il racconto. Se non dovesse paragonarsi a un tizio che ha immortalato con la scrittura, tenendogli le dita sul viso con le parole nelle orecchie.
- Uffa, smettila. Non so più come dirti che neanche mi viene in mente. Ci pensi più tu! Dai, baciami, ricco e vecchio signore.
Ha capito, però. Sa che il problema è il racconto. Sa che non vuole chiederle di parlare di lui, di dire l'amore, anche se con tutta l'anima spera che lo faccia. Sogna uno specchio che lo rifletta accanto a lei, nelle lenzuola lente e impregnate del loro odore e nelle colazioni eterne con decine di baci sui cumuli dei giornali aperti e scricchiolanti tra le dita. Lo vuole, il suo racconto, e che sia più bello. Molto più bello di quello nell'antologia, con la barba di un uomo che non ha saputo capirla.
Ha voglia di essere nelle sue dita mentre scrive, nei suoi amplessi fedeli e urlati e nei pensieri, pieni densi totali, quei pensieri che crea respirandogli addosso. Vuole che la barba sia cancellata dal suo volto liscio, dai pochi capelli scuri, dal portamento calmo e la stretta di mano forte. Vuole sentire, e leggere, che anche lei è piena d'amore, sente la sua mancanza quando è costretto o vuole o pensa di starle un po' lontano. Per la famiglia, il lavoro, la barca, i soldi.
- I sooooldiiiiii!
Dice lei scherzando, e fa sentire che non le importa. Non potrebbe comprarla nemmeno se volesse, lui che riuscirebbe a comprare tutto, tutto ciò che si fa comprare. Più dell'uomo con la barba, più di chiunque altro. Glielo ha detto, una volta, le ha detto che se volesse potrebbe portarsi a casa l'uomo con la barba e tutte le sue aziende, tutto ciò che ha.
- Sono più ricco di lui, sai? Molto di più.
Non ha mai dimenticato lo sguardo, e le frasi piccole sibilate con la erre blesa.
- Prendi i tuoi soldi e vai via. Devo dimenticarmi che sei ricco, altrimenti ti paragono a lui e me ne vado. Piccoli uomini senza cultura.
Non ha più sbagliato, dopo. Ha letto i libri e bevuto verità nascoste, e ha lasciato i soldi fuori dalla porta. Perché può comprare tutto. Lei no.
- Vuoi che scriva che ti amo?
Ride, mentre dondola sul letto e lo prende in giro. E' piena di lui, spettinata e sexy. Ride. Ride.
- Devo dire a tutti che ti amo?
Dondola, lo fissa. Deve essere serio, quando fa così. Non può permetterle di camminargli sopra. Ma lo vorrebbe, sì, vorrebbe leggersi. E sapere di essere meglio dell'uomo con la barba, meglio in tutto.
Lo saprà solo leggendo.
Un cappotto nero appeso vicino alla porta, con una sciarpa di lana rossa girata intorno al collo. Accanto, la giacca blu senza un pelo, senza una traccia dell'abbraccio dei primi istanti.
Domani mattina dovrà lasciarla, uscire dal suo corpo e portarsi dietro il suo profumo. Fino al giorno dopo, quando fuggirano in albergo. Ancora. Prima che parta per una presentazione. Con lui nei sensi.
Ha deciso di seguirla, questo fine settimana di menzogne a casa e sapore della sua carne sotto le unghie. Andrà con lei e salirà sul treno per sorprenderla con la testa china sul romanzo da finire. Sorriderà furba con gli occhi dolci e la luce da demonio.
- Oh, guarda.
Commenterà felice.
E chissà. Chissà se scriverà di lui, questa volta.
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