Ventuno minuti. No, venti.
Ho un limite di tempo, questa sera rivedrò qualcuno. Il viaggio è lungo, devo uscire presto. Conto i minuti, quindi, con un angolo degli occhi che si sposta in alto a destra all'orologio piccolo del computer. Accade anche in aereo: sfilano i secondi davanti alle pupille strette di ansia, e non appoggio la schiena. Tredici, quattordici ore impettita senza un respiro più profondo di quanto sia concesso. Dal peso, che tengo su con le dita aggranchiate alla poltrona. Dal pensiero, che forse può contribuire al volo. Dai libri che piego e lascio aperti, senza capire le parole. In aereo, sì, non stropicciate gli occhi mescolando mascara a lacrime di stupore: volo anche io, quando vale la pena. Se rifiuto è perché la proposta non compensa l'ansia, ma certo, eccome se volo!
Diciotto minuti.
Ho perso il minuto in mezzo. Mi sono lasciata andare al racconto dell'aereo e non ho visto che il tempo scorre. Non mi accorgo mai della velocità brutale e oscena del tempo, mi trovo a quaranta anni su una strada piena di sentieri collaterali e, se cerco tracce alle spalle, vedo boschi che non mi sono resa conto di attraversare. Meglio così, credo, anche se l'ultima foresta è stata densa e tragica e piena di luce, in fondo. Niente fa così luce come la scoperta di un errore. Ho forgiato me, e non trovo dirupi sufficientemente orribili da saltare. Ci sono, posso sentire il loro odore fetido di morti maciullati nella tracotanza di passare oltre. Ci sono e vado loro incontro con la speranza di schivarli, o saltare abbastanza in alto. Ma se cadrò, pazienza. Un urlo, un volo e l'oblio. Succede così.
Sedici minuti.
Sono vestita, ho il trucco elegante messo da una mano molle e precisa di artista. Non serve altro che baciare i gatti, stridere i capelli con le dita a pettine, indossare un cappotto e uscire, e rinfrescare il rossetto. Mi piace il rossetto, in borsa ne ho almeno quattro. Neutro, marrone, rosso fuoco, rosso scuro. E la matita per le labbra, per disegnare il contorno che non c'è. Orrore! Parlare di trucco nel blog di uno scrittore. Una scrittrice, dovrei dire, perché mi accusano di maschilismo. Sorrido, quando succede. Nè maschilista nè femminista, solo donna, meravigliosa donna che sa di esserlo. Mi piace la parola scrittore, come i rossetti scricchiolanti nella borsa. Il trucco, la pasta di bellezza che spalmo sul volto per sentirmi io. Sono i guanti della poetessa, questi miei rossetti che ballonzolano nella borsa nera e comoda con le agende e i libri e le penne che accumulo per non restare senza inchiostro. E il taccuino, ah, quello, che tanti imitano. Meglio per loro, un pezzo di vita da ricordare.
Quattordici minuti.
Alienante, nevvero? Sapeste quanta alienazione ho visto, figli miei. Tanta da riempire libri pesanti come massi. Ho visto vedovi stracciare il cuore dei figli per manici di scopa biondi con le gambe lunghe, ho visto donne stuzzicare la pace di famiglia per il desiderio contorto di un incesto mascherato da gioco. Ho visto me, inconsapevole ma orribile nella colpevolezza di un tradimento volontario: non assolvetemi perché ho amato, l'amore non è un motivo valido per lo strappo putrido del dolore. Ho visto bugie che a elencarle tutte non dovrei più fermarmi, e niente cena niente sera niente trucco e niente persona che rivedo dopo tempo. Tempo, appunto. Vedi sopra, rileggi e pensa. Al tempo che corre nonostante te.
Undici minuti.
Undici era il numero di un bambino, a scuola estraevano il numeretto rotondo della tombola per decidere chi sarebbe stato interrogato. E lui era l'undici. E' morto, quel bambino. E, chissà come, il mio cervello non si sposta dal numero undici, lo sceglie e rigira sulla lingua e non sa abbandonarlo. Undici, undici, undici. Ho giocato a tombola a Natale, con gli amici: abbiamo riso e ballato e vinto mutande larghe e formelle pesanti che nessuno avrà mai il coraggio di esporre in casa. Non ricordo se sia uscito l'undici.
Nove minuti.
Andiamo, andiamo. E' tempo di migrare. Tempo, il tempo ancora. Ho i freni sciolti, lo capisco dal silenzio. Sfioro mani senza afferrarle, aspetto il volto e gli occhi di un uomo. Un uomo solo. E mi diverto, figli miei, perché nei meandri del nugolo oscuro e sussurrante di lettori che amo con la pazienza carnale di chi scrive esistono sguardi che vanno oltre, e tentano di capire. Vogliono sapere chi sia l'uomo, e dove e come e perché. E cercano se stessi o altri, e dicono di sapere. Ma no, figli miei, l'età che rassoda le albicocche sulle piante è la stessa che scalda il cervello più maturo. Fate voi, decidete e abbracciate di gusto, bevete la credenza che vi pare. Uno sa, agli altri carezze di lacrime molli con un sorriso.
Sette minuti.
Sette e sette volte sette. Odiavo la matematica, non ho sopportato la fisica. Geometria spaziale, quella sì: era evidente, assecondava la mia pigrizia di indolente anarchica. Uno o due piani, e le rette, e i coni: basta vederli, il cervello offre la risposta. Senza studiare, perché dovrei? Guardo Darwin in piedi sulla scrivania, è severo e oscuro. O forse non ha finito di dire, e gli dispiace essere morto. Dispiacerebbe anche a me, che sono eterna.
Cinque minuti.
Fatica di alzarmi, cercare il cappotto e infilarci le braccia. Fatica di rileggere queste parole a caso in cui leggerete, figli miei, esausti i controsensi. Ho manoscritti rilegati e pronti, frasi e parole e il rifiuto di obbedire agli ordini. Una mano conforme dovrebbe plasmare i miei sensi sciolti: perde grinta quando crede che cambierò per lei.
D-u-e m-i-n-u-t-i.
Solo due. Dita a valanga sui tasti piatti che fanno clic clic. Dico alla gente che detesto il telefono e mi si chiama, ancora. Le eccezioni sanno di esserlo: a loro la gioia dello squillo è data, e vorrei che parlassero e parlassero e parlassero. Sanno. Altri no. Ma chiamano ugualmente, più di chi potrebbe. Più di chi dovrebbe. E se proprio vogliono che i miei nervi strizzino l'aria che respiro tolgono il numero chiamante, orrenda e meschina abiura di ogni minima chiarezza. Forse è il sorriso, figli miei. Sorrido sempre, e il sorriso apre le ferite.
Un minuto.
E vado via.
Se la donna del racconto sei tu, in bocca al lupo.
Scritto da: luciano / idefix | 01/15/2010 a 19:08
Presuntuoso come sono pretendo di sapere. Non e' lei. E' la creazione di una lei, Giovanna ama la luce adesso
Scritto da: GF | 01/15/2010 a 19:25
Potente.
Scritto da: Scriptor | 01/16/2010 a 01:43