racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
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AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
Sorride. Le parole scivolano pigre e non si possono afferrare. E' Flavio a crederlo: lancia battute e discorsi pesanti frullati in una miscela che crede impalpabile, sorride, bacia e va via. Parole, niente altro: crede che Lucia non afferri il senso, è convinto che, persa nella morbidezza languida delle sue labbra, non analizzi lucida il motore delle sue fughe. Lei invece le beve pezzo per pezzo e non le dimentica, ne affastella il significato segreto da mesi costruendo idee e certezza, scavando nel desiderio che lui finge o, qualche volta, riesce a provare. Nei giorni che scivolano come sabbia e diventano niente.
- Hai la malattia del cibo. Ma stai dimagrendo, dimagrisci da quando mi conosci.
A vent'anni avrebbe pianto, a quaranta ride. E scuote la testa tirando avanti. Non riesce a spiegare, sarebbe inutile. Conosce l'immagine che lo specchio le regala: è bella per tanti, meno bella per altri. Non è più grassa, ma non è - non sarà mai - una donna magra. E' questo che Flavio non ama. Più del carattere mutevole che lo fa sentire sulle montagne russe, più dell'aria saccente o troppo umile o depressiva o euforica. Più delle amanti che già ha e gli riempiono le ore. Lucia le ha osservate, queste donne: magre, tutte. Belle o brutte non importa, sono magre. Nessuna ha la morbidezza che ha lei. Le accompagna alla fermata dell'autobus e scherza con loro, le guarda al bar oppure chiede che lo accompagnino nei viaggi di lavoro (per fermarsi in un albergo, se capita), riceve telefonate e sms e si districa ridendo di loro (e con loro, si augura quando lo vede e prova pena per voci di donna che riesce a captare nell'aria rara di discorsi vuoti). Donne. Magre. Diverse da lei.
- Ma questo è banale!
Nella testa le proteste degli uomini che ha avuto, quelli che sono riusciti a sfiorarla sul serio. Immagina Giuliano: ama le sue forme rotonde e i seni pesanti che riempiono le mani. Contesterebbe l'idea, anche solo l'idea, che Flavio la rifiuti perché non è magra. La sensualità è altro, direbbe, e penserebbe al suo erotismo che esplode e toglie la memoria, ai gesti lenti da geisha e alla voce roca sussurrata, sommessa, alle mani che trattengono la schiena o la allontanano, alle labbra piccole che baciano ogni centimetro e si fermano e succhiano. Penserebbe, insomma. Ad altro, e altro ancora. Ma non al corpo che è parte ma non tutto.
Ma non è Flavio. Flavio lascia cadere parole che Lucia ha decifrato da tempo. Troppa carne intorno alle ossa, l'estetica dell'eros non stimola altro che baci perfetti. Lucia sa, ha visto. I frammenti di occhi e inerzia e frasi si sono infilati nelle orecchie e negli anfratti spessi di ragionamenti che non può fermare. Scherza con lui e non permette che arrivi nel fondo di lei: l'avrebbe voluto, le sarebbe piaciuto pensare a un amico complice capace di ridere e toccare e respirare zitto nel piacere di istanti segreti. Ma è troppo giovane per rassegnarsi al desiderio costretto, e troppo vecchia per credere ancora che si possa fare qualcosa per la leggerezza mancata di un amore morto.
Ci sono uomini che ti amano perché sei. Altri per lo spazio che occupi.
C'è la volta in cui ti siedi e hai tutto in testa. Tutto, insomma, più o meno: hai l'idea della scrittura, un abbozzo di impressione o trama, un'intuizione piovuta chissà da dove che non si cancella, non va più via. Oppure è capitato che la storia ti sia venuta in mente e le mani stuzzichino il bisogno, si muovano da sole nell'attesa di tirare fuori le parole. Poi. C'è la volta in cui hai il vuoto in testa, e mai penseresti di scrivere. Ti succede solo all'inizio, però, di percepire il vuoto e pensare che non scriverai, perché quando diventi un po' furbo, e l'esperienza si accumula sulle spalle e nei pensieri, capisci che il silenzio è denso di parole. E ti siedi, anche in quel caso, consapevole che qualcosa verrà fuori.
Come adesso. Ho ricevuto un messaggio di posta elettronica che chiedeva una correzione per un pdf, un articolo da rivedere con la solita, notissima urgenza.Quando lo schermo è diventato bianco e l'articolo in pdf è ripartito per destinazione diversa, la calma ha tirato fuori la voglia di scrivere. Ho trascorso ore, oggi, su un capitolo del romanzo che da ieri è lì che si cucina: lungo, breve, intenso o scipito, non ne vengo a capo. E questa sera, molle della decisione di non intestardirmi per evitare di sciupare tutto (che brivido chi rivede un manoscritto in pochi giorni), ero tentata dalla lettura di tre o quattro libri portati a casa da Equilibri di via Farneti, la libreria di Milano dove mi sento a casa. Invece. Sono qui e scrivo, mi fotografo, dipingo, ritraggo, specchiata nello schermo grande del computer con riflessioni e ricordi recenti che non voglio condividere. Forse.
Non mi aspettavo una giornata così. Non immaginavo la gioia, le telefonate e l'amore. Non aspettavo la nostalgia e la rabbia, credevo avrei solo mangiato chilometri tra Milano e Pisa e ritorno, visitato persone e rimuginato un po' al tempo della musica mp3 attaccata al cavo nero che entra nel cruscotto. Invece il viaggio è stato un volo lieve, il rumore dell'autostrada che strinava le ruote si è diluito in decine di messaggi e chiamate e novità. Novità. Da poco, per chi si desse la pena di ascoltare. Da molto, per me che non ho l'intenzione di condividere. Non questo, non ora.
Poi. Questa sera, arrivata a Milano, ho fotografato il Duomo. Ho escluso l'albero di Natale dalla fotografia perché era eccessivo, troppa luce troppa gioia troppo tutto. E fotografato il Duomo. Chissà perché, di tanti ricordi remoti e recenti uno solo ritorna cattivo e tagliente: quello di una sera, al termine di un incontro d'amore, una passeggiata da sola con la nostalgia di lui. Fa male il ricordo quando tutto finisce, fa male soprattutto sapere come sia finita. Perché non credo che sia indifferente, il modo in cui una storia finisce. Eppure, nella mia sera di passi e squilli continui del telefono piatto intasato di sms, il male non c'era, non per lui. Non per l'uomo del ricordo di piazza Duomo. Difficile da spiegare, e non spiegherò. Dovrei dire che poi, ore dopo, ho letto un articolo in cui qualcuno racconta di sè: quel sè che conosco e ho amato, anche quello, un sè fuggito perché "sono un pensiero troppo forte".
Un pensiero troppo forte. Una donna impegnativa. Ormai lo dico da sola, davanti allo specchio: non sono come il colore nero, che è elegante e non impegna, mi sento un rosso vivo che offende, eccita, tortura, ripugna. Il rosso della passione e dell'eccesso, del sesso che butta fuori le lenzuola dal letto, dell'odore di corpo e profumo e sudore, della passione che sradica e non trova requie e della gelosia tremenda, del gesto urlato per strappare lacerazioni gementi e degli abbandoni brutali, che offendono il pensiero di essere stati vivi. Rosso, il rossetto che porto in borsa e tiro fuori solo nel tardo pomeriggio. Rosso, il colore che secondo l'uomo per cui sono diventata un pensiero troppo forte mi dona. Rosso, il furore accecante del 2009 che ha cambiato tutto. Tutto nella mia testa, e nel teatro rutilante della vita. Rosso, è il lampo che vedo quando mi guardi da lontano, e sorridi trattenuto perché non ti aspettavi che ci fossi. Rosso, la voglia di sentire l'odore della tua pelle quando mi avvicino per il solito bacio cortese, urbano, amichevole. Rosso, il desiderio feroce quando ti vedo timido e muto, serio e severo. E sussurro: "Frena l'entusiasmo".
Rosso. Come l'sms arrivato adesso, strappandomi una risata. Perché l'uomo per cui sono un pensiero troppo forte ha vibrisse da primo amore, sente il mio desiderio deviare e, da lontano, recupera metri nel ricordo, rosso, delle notti prima delle streghe. La strega delle mie notti, finché non sono stata troppo "forte".
Rido. Ho scritto dal vuoto in testa, dal silenzio dopo un pdf corretto e rispedito. Andrò a toccare i libri, adesso. E, con la penna in mano, scriverò appunti che un giorno diventeranno qualcosa.
Rosso, per una notte con l'unica quiete che conosco.
Possibile che sia grigia, sempre grigia e densa di gasolio? Si arriva e ci si immerge, si cala in una pozza di fango melmoso e viscido, triste come la morte prolungata e attesa. Desiderata, quasi. Ci si stringe nei vestiti come in una muta, si indossano occhiali e si trattiene il fiato per saltare, se si può. L'impatto è noioso e soffice, un male piccolo ma necessario; il fango torbido si muove appena, scivola addosso e lascia impronte di carezze senza poesia. Carezze che rimangono, se ci fai caso. I palazzi sfilano con la tangenziale al collo, gli alberi di un verde stupito, attonito, si piegano all'aria asfittica di un vento remoto e scialbo.
Milano. A volte chiudo gli occhi quando il treno entra in città, fingo di non vedere la periferia e le strade dove automobili lucide con le righe sui fianchi si affannano ai semafori e tentano di evitare le telecamere. Osservo i volti ignoti nelle case. Li sogno indaffarati dietro a spese che potrebbero evitare, a cene del sabato sera con amici o pizza portata a casa e preparativi per il Natale sotto le insegne ancora buie. Chiudo gli occhi, li riapro e telefono a qualcuno, voci che mi danno la gioia di arrivare. Li ascolto, trovo una ragione per scendere dal treno e cercare un taxi. Arrivo da altri posti, altre città piene di luci e abbracci caldi, e serate lunghe che finiscono in mattine precoci di scrittura e pezzi di illusione. Arrivo, e spalanco le palpebre per cercare amore rosso in teatri grigi.
Non ho patria, non riesco ad averla. Eppure la città tesa e veloce di grigio soffocante assomiglia a una patria, quando vuole. Ci sono pomeriggi tardivi di camminate a gamba tesa, respiro lungo e libero e mostre e libri: mi sento vicina a casa, in quelle ore. Stringo le mani di amici e ascolto, rido. Parlo di ciò che so, non fingo se non conosco: lo fanni tanti, millantano letture e cultura e conoscenza, il prurito che stuzzica le mani contro i guanti è abitudine che ho imparato a dominare.
Milano. E' la città della finzione e dei sorrisi piccoli e civili, dell'entusiasmo trattenuto e del sesso storto, fosco e passionale dietro cortine di pizzo e lampade che basta un pulsante e cambiano colore. Le strade mi guidano nel diluvio di negozi troppo ricchi e vuoti, opportunità nel palmo delle mani e tram lunghi che bloccano gli incroci. Guardo il Duomo e la Galleria, mi succede spesso di cercare tracce delle gite con mio padre: arrivavo dal paese, mi portava in cima alle guglie e guardavamo giù. Credo fossero i mercoledì in cui la scuola finiva presto. Pensavo a come fosse un volo da quelle guglie, la piazza era il mare e il tuffo un desiderio libero di bambina che già odiava le catene. Mi è successo di entrare in Duomo e cercare il parroco del mio paese, che abita là, adesso. L'ho visto in un confessionale e mi sono avvicinata, mi ha riconosciuta da lontano e ha sorriso come ricordavo.
- Non sorridere troppo, sei in chiesa.
Ha detto, ma rideva, e ha messo una mano sulla mia fronte e ascoltato la vita.
Girgio. Possibile che sia sempre così grigia, la città dove ritorno? Un bozzolo di crisalidi che nascono colte e spente, una fornace di opportunità che pochi riescono a capire. Perché dormono, serrano le palpebre per non guardare la fredda nebbia di catrame e i passi sempre rapidi, sempre sulla via più breve per chiudere porte blindate e lasciare fuori il mondo. Si scrive e non si legge, i quadri appesi a pareti uniche sono impegni che arrivano dopo, solo dopo. Sempre dopo. Si va alle mostre per raccontarlo agli altri, si prenotano i posti per evitare la coda, perché ogni confusione è nemica della fretta. Qualcuno evita l'affanno e mi chiede di mandargli il catalogo: basta quello, la mostra è tutta lì; esco dai corridoi dove ho socchiuso gli occhi e mi sono persa di emozione e mi carico di pagine pesanti rilegate a colla che dovrò spedire. "Ma sai, non ho tempo, ho altro da fare. L'anno prossimo, tra sei mesi, nella futura vita". Penso alle mie ore dense di ambulatori e scrittura e voci, volti da tenere insieme e rido, dentro. Quando vorrei piangere. Perché il tempo, se vuoi, lo trovi, si tratta solo di agire di scalpello e non capitolare del tutto. Però. Ci sono i party di Natale, iniziano a novembre e riuniscono tacchi a gamba nuda e pedicure costose a opere pie stringate di salotti vip e calici traboccanti champagne benefico. Si inaugura e chiude, si cena in piedi fumando fuori dalla finestra e si presentano libri ai volti, sempre quelli, che alzano gli occhi dall'ombelico per leggere altre scritture. I taxi aspettano sulle piazze e nelle vie, si lamentano per la crisi e non riducono le tariffe. Qualcuno litiga per il turno, uomini eleganti con la ventiquattrore non cedono il posto e donne alte su tacchi a punta inforcano portiere commentando attese di scarsi, eterni, inaccettabili minuti.
Eppure. Ho visto stazioni e monumenti e gente. Ho altre città, che non sono patria, non sono riuscite a esserlo, ma allargano le braccia quando arrivo. Ho la luce di un sole che piove solo altrove a scintillare le serate di terrazze romane, musei fiorentini che riempiono la giornata e maledizione veneziana di canali nascosti d'amore. Ho vita che scivola nelle dita e gonfia la testa di emozione. Ricca, l'emozione che spinge le mani a scrivere. Riconosco i colori, ho nel naso e nella carne i profumi che mangio senza doverli spiegare.
Milano. C'è stato un tempo in cui ho odiato ritornare. Ho dovuto accorgermi che le parole uscivano fluide e quiete, continue e appassionate; la nebbia, piano, ha avvolto le mie angosce e restituito sorrisi persi, o solo dimenticati. Le storie escono a fiumi voraci nel silenzio, lontane da grovigli di passione e tormento che sono schermi, cumuli di piombo per i passi che sognano leggerezza. Non credo che potrò spiegare dove e come ho scoperto il nucleo di amore che fa della melassa viscida del grigio odiato una coperta morbida cui non rinuncio più: sono le passeggiate da sola nel centro che così bello non è mai stato, gli appuntamenti pieni che riempiono l'agenda di libri, libri e libri, gli amici veri che, nell'anno più tremendo e strano della vita, hanno detto "Perchè non resti qui?". E' il senso dell'appartenere, dettaglio che mancava e ora appare, nitido e tranquillo, in un'assenza di enfasi eccessiva. Che, finalmente, è medicina.
Mi siedo in mezzo a un tram, a volte, e lascio che mi porti dove non so. Corpi sfiorano la mia spalla ferma, case e strade e parchi ordinati con i cespugli e i fiori riempiono la vista. Ascolto parole e le ricordo, le fermo sul taccuino e le mastico a lungo, dopo, nei racconti che non sempre pubblico nel blog. Capisco la vita, e il mio errore. A lungo sono fuggita, e fuggirò ancora, perché le catene che non potevo sopportare erano persone e non città. Stringevo mani e permettevo che fermassero il sogno di un volo solo mio. Non era Milano la melma grigia che sporcava i miei vestiti, e non erano Roma o Firenze o Venezia o Napoli a ripulirmi. Erano voci che creavo e dipingevo con la fantasia, e collocavo dove mi piaceva. Peccato. Sì, peccato. Che per troppi anni abbia avuto paura di ammettere che esistono uomini e donne sbagliati per me, e scelte che non avrei dovuto fare.
Milano. Grigia e fumosa. Sa di gasolio. Ma è la mia coperta calda, adesso. Mi ha insegnato che tradimento, bugia, finzione e crudeltà pensate e agite per opportunismo e soldi, soldi, soldi appartengono agli uomini, non ai palazzi che incombono nella nebbia. Milano, non è patria ma assomiglia a un nido dove scrivere, nella danza di fughe cui non posso rinunciare. E a mani piene offre occasioni che solo gli stupidi non sanno cogliere.
Certo. Diventare burrasca. Sciogliersi nel vento che piega gli alberi e strappa, striglia, mastica le foglie ancora verdi e sposta le auto al centro della strada. Mi piacciono le burrasche, anche se trovarsi nel mezzo della ribellione assoluta del cielo e del mare, delle rocce di montagne pronte a rotolare a valle, di tronchi d'albero che si inclinano senza certezze scoperchia la patina di controllo che serve a ridurre al silenzio i miei tormenti. La burrasca non ha controllo, recide gli ormeggi e porta via. Mi sono sempre immaginata con le mani strette, i muscoli tesi a disegnare il profilo sulla pelle e le unghie conficcate in una porta di legno, svolazzante nell'uragano, decisa a non lasciarmi trascinare via. Comunque. A Milano sembra che il vento celebri la mia vita nuova con una burrasca imprevista. Mentre scrivo, sollevo una carta buddhista (ne ho un mazzo sulla scrivania), e leggo:
"Tutti gli esseri tremano di fronte alla violenza
Tutti hanno paura della morte
Tutti amano la vita"
Tutti. Dice così. Violenza e burrasca, ancora. E morte e vita.
Una manciata di ore tra domenica e oggi. Sono uscita con due borse nelle mani e il divertimento segreto di quattro parole in croce sputate in messaggi email a muovere il sorriso, ho camminato rifiutando mezzi protettivi e veloci. E, passo dopo passo, ho raggiunto il solito tavolo tra le solite mura nella solita invidia fatta crepuscolo. E scrivo. Ma no, non scrivo. Sono.
Il violino che ho ascoltato sciogliendomi di emozione a Pisa, le parole che erano musica e rabbia e passione, la stanchezza di notti insonni emotive pesanti dense e stridenti hanno ricostruito l'anima sgretolata, ma solo per un po', dalla mancanza d'acqua. Dall'arsura di stanze pettegole e vuote, sostituite da altre dense di scrittura e volti finalmente simili ai miei. E le mani, anche, il sorriso di Marco nelle pieghe dell'incontro con i lettori, i discorsi scambiati nei corridoi stretti tra i libri. E' stata una ricostruzione strana, con sorprese stupende e la constatazione di avere perso una parte di me, la peggiore, la più inutile.
I minuti perfetti tolgono polvere agli angoli che hanno ospitato cadaveri decomposti da tempo.
Non ho obiettivi con questo lento scivolare delle dita sulla tastiera, ho solo sensazioni che vorrei tradurre perché si potessero condividere. Sento le foglie, immagino i rami piegarsi e sfiorare la finestra. Ho una valigia aperta che aspetta che butti dentro qualcosa, il gatto che gioca e copre lo schermo del computer, un colloquio con un editore che mi dondola in testa. Ho ore nuove, che forse mesi fa non avrei voluto, ferma in un'illusione di amore e bellezza che è bastato un attimo a sgretolare: sono ore che adesso diventano tutto, e odorano di libertà. Quella vera. Come abbia potuto rinunciare al vuoto terrificante della libertà, come mi sia incatenata a un dipinto che niente aveva di reale è stupore, quando mi permetto di pensarci.
Insomma. Non posso trascinare oltre cristalli istantanei di emozioni, di evidenza che forse solo una fotografia sfocata e buia potrebbe mostrare. Vento. E burrasca. Uscirò di nuovo, un racconto erotico da scrivere e il manoscritto in tasca per non perdere le gocce della storia che preme.
C'è voluto un po' per prendere questa fotografia, e nonostante tutto qualcuno è riuscito a infilarci una spalla. Poco male. La mia lunga visita alla Biennale e a Punta della Dogana ha fatto nascere la voglia di inserire figure umane nelle installazioni. Veramente, l'idea sarebbe di mettere in un angolo, in una stanza buia e nera con un'installazione al centro, una coppia che fa l'amore in piedi. E' il perpetuo rinnovare un rito bestialmente sacro e pagano insieme, la copula dell'arte nell'arte. Ho immaginato uomo e donna con le spalle al pubblico (l'uomo dà le spalle al pubblico, la donna è nascosta dal corpo di lui) e le onde lunghe dei movimenti sincroni del bacino. I gemiti sarebbero corona perfetta per i passi attutiti dei visitatori nella stanza. Con l'amore che si consuma e ripete, in eterno. Il pubblico paga il biglietto, legge o ascolta la guida, cammina, visita e assiste al sesso sudato e indifferente della coppia nell'angolo della stanza nera. Vivo, erotico, per niente pornografico se ci pensate.
Insomma, in questa domenica mattina di pioggia ho la valigia messa sul pavimento, piena. Accanto c'è il solito zaino nero ricolmo di libri e cavi di telefoni, ebook e aggeggi vari. Il computer non è ancora pronto, sta sulle mie gambe e i tasti picchiettano per tirare fuori qualche idea. Ripenso a ieri sera, quando ho abbandonato le riflessioni sulla Biennale e sono scesa a terra, in un centro commerciale stracolmo di gente che spingeva carrelli e si affannava a riempirsi la casa di roba. Il centro commerciale è un narcotico potentissimo: l'ottundimento che raggiungo in pochi secondi sarebbe difficile da ottenere in altra maniera. Entro, respiro la folla, mi confondo per i troppi prodotti esposti e disponibili per le mie mani, mi perdo. Ho la sensazione che cumuli di oggetti inutili ma intriganti mi sovrastino, rischino di cadermi addosso soffocandomi con un odore di plastica a poco prezzo. Vedo volti che sfrecciano lungo i corridoi con l'accordo implicito di rispettare un ordine: si entra e si svolta a destra, e dove ci sono i salumi il flusso dei carrelli va verso il pesce, mai viceversa. Io vado viceversa: non lo faccio di proposito, mi capita così. Non seguo l'ordine dei corridoi tanto per lasciare passare il tempo, penso a cosa mi serve nel rallentamento felpato del cervello e imbocco gli ingressi a caso, come mi viene. Non è così che si fa. Ma non mi importa, mi importa sempre meno di ciò che si fa ormai.
Comunque. Ero in un centro commerciale verso le sei, ho avuto la prima illuminazione davanti al bancone dei formaggi. Ho visto mio marito afferrare il pecorino e chiedermi: "E' questo che mangio?". Ho annuito, sì era quello. Mangia quello, di solito. Ho preso il prezzo con il bip della macchinetta del prontospesa e capito che lì sta il segreto dei matrimoni, delle coppie che restano insieme per anni: "E' questo che mangio?". La donna deve avere un gene speciale nel suo DNA, che è la memorizzazione dei bisogni dell'uomo: quella microscopica, infinitesimale frazione di codice genetico rende ragione della durata della coppia. Perché il sesso, l'amore, la complicità sono destinati a finire, ma la consapevolezza delle abitudini, l'applicazione dei codici di queste abitudini nel quotidiano è il segreto che rende difficile l'idea della separazione. Se so che l'uomo che da anni sta con me la mattina beve l'orzoro (amiche, piano con le battute sull'orzoro: il tizio dell'orzoro si alzava la mattina e mi spiegava addirittura come scioglierlo bene in poche dita di latte, ne ho avanzato un quantitativo che causerebbe problemi di reimmissione sul mercato, sto ancora cercando qualcuno che accetti in regalo la mia fornitura fiorentina ma è più difficile del previsto: non ho incontrato altri esseri umani apparentemente adulti propensi a nutrirsi di orzoro, credo che scriverò un saggio su questo, insieme a uno psichiatra), questa mia conoscenza rappresenta un vantaggio sulla giovane e rampante nuova pulzella che tenterà di sottrarmi le attenzioni di colui che fa coppia con me. Perché ho visto uomini, e tanti, ma credetemi: non ne esiste uno realmente libero. Soprattutto se si tratta di rinunciare ad abitudini noiose ma tanto rassicuranti. Si scatenano in dichiarazioni di indipendenza folle, ballano sudati fino alle quattro del mattino rischiando l'occlusione coronarica o il TIA, fanno spallucce e ostentano una smorfia quando alludono alla moglie da cui "tanto sono separati di fatto", ma nel segreto della loro casa infilano le pantofole e tengono il telecomando tra pollice e indice chiedendo a gran voce un brodo leggero. La donna realmente motivata (tale non sono, ahimè), spinta da atavica necessità di badare a se stessa, capta in breve tempo i punti deboli dell'uomo, cioé le sue abitudini quotidiane, e si rende indispensabile in quanto vestale di tali abitudini, guardiano del solito e ovvio scorrere della routine. Per l'uomo non vale lo stesso: ammetto che di recente ci sia stato un uomo capace di ricordarsi che non mi piacciono i finocchi e neanche la rucola, e sapeva perfino che nel caffé non metto zucchero, ma a mia memoria queste informazioni gli sono servite solo per fare capire all'uditorio che aveva una relazione con me quando ciò era bello e comodo e favorevole per l'immagine: "Ragazzi, so che non le piacciono i finocchi, capito? Significa che me la scopo". Pezzo di DNA simile, uso completamente diverso delle informazioni.
Il centro commerciale mi ha travolta, come sempre. A un certo punto, immersa nella riflessione sulle coppie che restano insieme perché la donna conosce la marca giusta di pecorino, ho visto un fantastico cubo elettronico che prometteva la prenotazione dei libri. Annoiata oltre il lecito mi sono avvicinata, e come nei peggiori copioni di quarta categoria ho cercato il mio nome. Ero pronta allo sberleffo, a una pernacchia che avrebbe raggiunto anche le cassiere del lato opposto del gigantesco megastore. Invece no. Eccola lì, MariaGiovanna Luini, con le sue fiabe, e avrei anche potuto ordinarle. Tranquilli, mi sono trattenuta. Ma per un istante mi sono risollevata dalla preoccupazione dell'orzoro da regalare a qualcuno per liberare la casa di Firenze e dell'idea opprimente della valigia da riempire con tacchi e merletti qualche ora dopo, e non ho nemmeno sentito mio marito che diceva: "Senti ma come facciamo per mangiare questa sera?". Perché non so cucinare, la tradizione dice così. Ho sorriso, l'ho preso per mano e accompagnato ai surgelati che ormai contemplano ogni genere di luculliano pasto compresso, vaporizzato, piegato dentro buste di plastica riempite di quadretti gelidi e promettenti.
Gli ho mostrato i primi, i secondi già pronti, i gelati, la verdura con colori che neanche nell'orto sono tanto vivaci. "Ecco, ti basta scegliere". Non ha potuto obiettare: cibo è cibo, inutile stare a discutere. E con una bottiglia di vino di lusso potremo anche pensare che la leggenda sbagli: sono una cuoca provetta.
E' ora di andare. Ho una pentola con dentro qualcosa, un pezzo di carne trovato nel freezer galleggia immerso in un misto di acqua, dado e spezie. E' il mio tributo al ruolo prima di scendere, accendere il motore e partire per Riva del Garda. Vi lancerò segnali da VeDrò, intanto vi lascio con un consiglio di lettura per menti non annacquate. Ho letto due volte questo libro, è straordinario. Qui nel blog trovate anche qualche video con Tiziano Scarpa fantastico performer.
"Kamikaze d'Occidente", di Tiziano Scarpa. Rizzoli
Entri nella stanza e sei circondato da volti e corpi a metà, mani alzate oppure giunte sul ventre, occhi scuri nel blu del buio, della pittura a tocchi e sfumature; un applauso esplode all'improvviso con gli ululati da stadio che dalle parete ti cadono addosso, rimbombano in un vuoto che scopri dentro, al centro del petto, poi vomitano fuori, esaltandoti anche se ti vergogni, schiacciandoti al sogno che prima o poi vorresti che capitasse. Sì che lo vorresti, un applauso così solo per te. E tace, in un istante. Ti trovi nel mezzo del delirio di un'illusione di trionfo, il blu ti penetra insieme all'entusiasmo di una folla che vorresti solo tua, poi le voci all'improvviso si zittiscono, la luce si accende mentre le immagini sulle pareti svaniscono e ti fanno sentire stupido. Un povero mentecatto che ha proiettato sui volti blu e le mani alzate un applauso che non ha avuto.Ridono, quei muri che ritornano bianchi e spogli, hanno capito che anche tu come tanti ti sei fermato al centro e hai chiuso gli occhi solo un po', hai lasciato filtrare attraverso le ciglia il tanto che bastava per sentire che intorno le figure diverse ma uguali, livellate dal colore e da dettagli appena percettibili, stessero acclamando te. Il caldo sudore sbavato sulla pelle è evaporato nell'esaltazione di un momento, la cappa opprimente di laguna appiccicosa solo in parte alleviata dalle foglie degli alberi lungo i viali è caduta sul pavimento per metterti nudo, e perfetto, al cospetto di un pubblico che mai avresti pensato di avere. Non hai avuto caldo, non eri stanco, non sentivi più la fame che hai premuto indietro nello stomaco per cogliere il tempo e vedere. Vedere di più. Blu, e applausi. E luce bianca che ha spazzato via l'estasi, quando il sogno è arrivato e stava per sollevarti dalla normalità di una vita come le altre.La Biennale è l'assaggio per eccellenza, non puoi dire di averla vista ma neanche l'hai ignorata. Porti a casa il catalogo completo con l'illusione che ciò che ti è scivolato sugli occhi per stanchezza, per il limite fisiologico di attenzione del cervello umano, ritornerà quando sul divano sfoglierai le pagine con l'aria condizionata accesa. Resti fermo in alcune stanze, in qualche padiglione, quando il brivido dei sensi ti impedisce di proseguire, altre volte corri con la sensazione di perdere e non poterci fare niente. Il catalogo affascina e stimola i ricordi, ma non aiuta: puoi avere il divano e forse l'aria condizionata, ma capisci che devi ritornare. Il taccuino nero su cui scrivi dove, quando, perché, non serve: vuoi masticare la sabbia aspra delle emozioni, e vuoi farlo subito. Come succede nelle installazioni sparse qua e là, che ti acchiappano a tradimento e sono sorprese che si lasciano strappare, ti seguono incollate alla memoria, come il rombo inquietante nel buio quasi totale del Lussemburgo, con le immagini proiettate a scuoterti l'anima su uno squallore da scarafaggio che emerge dalla desolazione della guerra. Oppure la fotografia scattata alla tua ombra, in un altro punto di Venezia che raggiungi se sai seguire le indicazioni sul pavimento: ho visto il mio corpo eretto, con lo zaino floscio sulle spalle e la testa avanti, inconsapevole del flash che pochi secondi dopo l'avrebbe fatto sussultare. Ho guardato la mia ombra e sono rimasta ferma, scoprendomi nuova e diversa da come immaginavo.Alla Biennale, che regalo. Ho pensato di scrivere qualcosa dei miei giorni, poi ho capito che ci vorranno tempo e ordine. E ritornerò, per assaggiare di nuovo e meglio. E perdermi come poche altre volte nella mia vita.Ci sono stati momenti di sorriso, come nel padiglione belga dove ho ricordato i miei tre anni di vita a Bruxelles davanti alla scritta "Etterbeek" su alcune fotografie, e ho considerato che sì, il padiglione rispecchia il popolo. Mai visto padiglione più belga di quello: chi ha vissuto in Belgio può capire il senso quieto di un'apatia non reale, quella specie di sonno che nasconde guizzi vivaci che bisogna essere capaci di cogliere e seguire per non scivolare nella narcolessia. Il Belgio della cortesia, della cena alle cinque e mezza del pomeriggio e dei club privèè indicati con luci al neon: quando ritorni hai nella testa le luci al neon che i belgi usano solo per ciò che è sessuale, e per un po' di tempo guardi con sospetto i locali che a casa tua ostentano le stesse luci e sono semplici ristoranti, o bar, o negozi con la voglia di apparire. E il padiglione del Brasile, con i colori vivaci spinti a ristorarmi che hanno sbloccato finalmente la ritrosia alle fotografie. O l'Egitto, le gigantesche figure con l'odore della paglia inchinate ad accogliere i visitatori: mi sono fermata e ho apprezzato l'amore, in un tempo di scetticismo evidente, osservando due giganti immortali che si baciano teneramente circondati da gatti con le code ritte e le zampe snelle. E ancora, ancora.Scriverò, con più calma. Perché niente può bastare: non bastano giorni di visite, non bastano ore di ricordo silenzioso. Intanto qualche fotografia.
Ci sono cose che restano e altre che arrivano e partono. Anche qui. Grazie per il numero incredibilmente alto di letture al post "di una cognata", ho ricevuto tanti messaggi personali e capito che alcuni argomenti suscitano molto interesse (purtroppo?): il post non sparisce, resta nascosto per un po' perché ha fatto nascere l'idea per qualcosa di più lungo. Ritornerà presto.
A chi ci ha pensato e a chi ha dimenticato. A chi finge di non esserci e a chi invece non c'è sul serio ma lancia parole.
Ad Alberto. A Camilla. A Fabiana. A Filippo e Betti. A Simone e Luisa. A Roberta. A Raffaella. A Loredana. A Mirka. A Tiziano (che tulipani meravigliosi!). A Floriana e Beppe. A Nadia. A chi sa che sto pensando a lui/lei.
Ai miei genitori e agli zii.
A Francesca, Maria Grazia, Lucia, Eva, Donata.
A tutta proprio tutta la Fondazione Umberto Veronesi.
A Franco (e alle sue rose bianchissime!). All'IEO, ai miei colleghi fantastici e alle "mie pazienti".
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