racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Fa un po' impressione. Sto cercando frasi adatte e non le trovo. Questo blog è la storia del mio rapporto con i lettori, è stato l'inizio della parte della mia scrittura condivisa con la gente. Mi ha portato i primi contatti con gli editori e relazioni umane che vanno oltre e al di là dei libri. E' più di uno spazio, più di un giornale online: è luogo di scambio, scoperta e discussione continua. E adesso trasloca. Nella rivoluzione dei quarant'anni e della vita, metto in valigia quattro cose e parto.
Da oggi, niente più post in questo blog: con i miei racconti, con i pezzi di parole e i libri, e le fotografie, vado nel nuovo sito internet. Proseguo il cammino là, questo è l'indirizzo:
Vi aspetto nel sito internet, quindi, basta fare click e memorizzare quell'indirizzo: pubblicherò là, nella sezione blog, tutto ciò che di nuovo mi verrà da scrivere, e potrete lasciare commenti esattamente come avete fatto qui.
Lasciare andare le mani, è questo il senso. Abbandonarsi alla scrittura e decollare, lasciando indietro ciò che non ha relazione. Ciò che non è, in effetti, perché l'altro dalla scrittura non ha consistenza, la assume negli spazi liberi, nei vuoti silenziosi che altrimenti rischierebbero di implodere nel buco nero dell'inedia. Scrittura oppure niente, e il niente da riempire. Ho ascoltato brani a decine: lunghi, brevi, con l'audio storto oppure gestiti da professionisti della comunicazione. Scrittori a me simili e da me distanti hanno spiegato cosa sia per loro la scrittura. Li ho sentiti e decifrati nelle lingue diverse che sono riuscita a possedere, ho interiorizzato e paragonato a me personalità opposte e scritture aliene. Oppure aspirazioni comuni come quella casa nella campagna francese che avrei voluto insieme alla quiete, e ai libri, e al sorriso pacato e radioso di tortuosa consapevolezza. Di chi, sta a voi scoprirlo: la Rete è piena di bellissime interviste che spero non vorrete perdere.
Cosa è la scrittura, ecco la domanda che non può mancare: arriva a ogni incontro con i lettori, nelle interviste, nei discorsi da bar (non vado al bar, ma lo immagino) o con gli amici al ristorante. Qualcuno non chiede, tenta di ipotizzare poi si corregge nell'esitazione imbarazzata inevitabile del mio sguardo stentoreo: "La tua passione per la scrittura", "Il talento", "L'hobby", "Il bisogno". Non c'è bisogno che dica che passione e hobby ricevono sputi metaforici che a stento evitano di concretizzarsi in gesti carnali; l'istinto, il bisogno e ogni altro azzardo si perdonano di più, ma sono "uno" e non centrano l'obiettivo. Uno, non la molteplicità frammentaria e condensata in mistero segreto che è per me. Bisognerebbe evitare di chiedere, oppure tacere sulle ipotesi. Cosa importa cosa sia la scrittura per me? Quale significato ha interpretare le mie mani che scivolano sulla tastiera o sui taccuini, la testa impastata a una storia, ossessionata da un finale che manca, tormentata dall'incipit che deve essere perfetto? Nessuno chiede a un usignolo perché canta. Forse perché l'usignolo non saprebbe rispondere, o riderebbe mascherando l'ilarità con un gorgheggio apparentemente stolido.
Cosa sia la scrittura per me è affare che non riguarda il mondo, e non riguarda me. Perché non me lo chiedo, esiste e basta. Sono la mia scrittura, qualunque cosa significhi. Mi vengono in mente le critiche, di solito mascherate da pseudonimi o anonimato (chissà poi perché), e le so, adesso, rinforzate dalle mie parole: "Sono la mia scrittura", evidenza becera per alcuni, sorprendente per altri, assoluta per me. Eppure, se ritorno con la memoria a mesi, anni fa capisco che la scrittura è metamorfosi plastica e incagliata nelle pieghe necessarie dell'anima: non direi adesso ciò che ho creato prima, non confido solo nell'istinto e nell'immediatezza delle frasi fluenti, credo alla tecnica e all'autocritica, non accetto che chiunque possa dirsi scrittore. Ho perso la democrazia e il buonismo, forse per effetto dell'età oppure perché ho visto pubblicare opere raccapriccianti che hanno occupato indegne uno spazio tolto ad altri. Lo spazio di un'uscita che avrebbe potuto cambiare la storia, e il modo di pensare, e il piacere di chi sa cosa significhi leggere. Leggere, a proposito. La connessione tra scrittura e lettura non vede d'accordo i più. Il talento è talento, si può scrivere senza leggere: non lo dico io, non mi sognerei di farlo. Credo al DNA che ci determina e, con le associazioni casuali delle basi azotate, decide se io sappia scrivere o no, quindi posso ammettere che si possa scrivere senza amare la lettura, ma la mia limitatezza di quarantenne arrivata dalla Brianza fatica a immaginare che si possa essere scrittori e non leggere le opere altrui. Che retorica, sono partita da A e non arrivo a Z. Sono arrivata al solito pistolotto sulla lettura, penso che a breve arriverò all'esortazione ai giovani e mi alzerò in piedi sulla sedia, caracollando sulle ruote che non stanno ferme. Perdonate voi che leggete, e chi si è fermato dopo le prime righe perché ha capito che non è un racconto lieve e nemmeno un'allusione erotica non ha il problema di riflettere e digrignare i denti.
Scrivere cambia la vita. La vita cambia lo scrivere. Parole e versi, facce sbattute nella telecamera ammiccanti e senza sorriso (avete notato che gli scrittori raramente sorridono? Me l'ha detto anche un bambino, un paio di anni fa, a un incontro con i lettori: non sono uno scrittore vero perché sorrido troppo), musichette di apertura e chiusura di clip che su YouTube vanno a mille. Ognuno di noi tenta, prima o poi, di produrre il proprio video in cui regala la scienza esatta sulla scrittura. Perché scrivo? Aspetta che te lo dico, stai fermo un istante che mi immortalo nel video o in questo blog e sputo fuori parole che potrai regalare agli amici o citare nelle diapositive sulla creatività. Già che ci sono, ti racconto perché Picasso dipingeva, o perché lo faceva Monet: pensa che bomba. Scopriamo l'essenza della creazione, l'essenza di ciò che è arte. Peccato che la creazione non si dica. La creazione è.
Le mani scivolano bestiali e fluide, la tastiera rende eterno il pensiero affastellato che tiro fuori per voi. Sto scrivendo, sto raccontando, sto facendo la stessa cosa senza l'ausilio del video: nella sequenza delle frasi viene fuori la scrittura, e cosa penso. Cosa sia la scrittura per me, questo vedete se vi concentrate e se avete avuto il coraggio di arrivare fino qui. Chissà quanti siete: mi piacerebbe proseguire a lungo, con ragionamenti che portano lontano, per il gusto torbido di trascinare con me i più motivati, gli annoiati o i pazzi. Non so se lo farò, il motore della scrittura in questi pezzi di non-narrativa, non-saggistica, non-qualcosa è imprevedibile. Si accende, parte e non si sa quando finisca il carburante. Scopro sillaba dopo sillaba di avere qualcosa da dire, si materializzano concetti discutibili o aleatori su uno sfondo bianco niveo sporcato da caratteri neri tozzi che, al termine, ridurrò a dimensione 14. Scrivere, questa bestia agognata e temuta, questo obbrobrio da criticare perché pericoloso, o stimare se ci solletica l'amore di noi. Tu che mi guardi, vuoi che racconti di te o taccia? Vivi nella paura che prima o poi mi scappi un'allusione oppure sogni di diventare il protagonista di una storia tutta sesso, forza e crudeltà? Scrivere: lo fanno tanti, troppi, e troppi si illudono che sia letteratura. Mi illudo, io? Taccio, ma non per pudore: semplicemente, non lo so. Non sono io a doverlo dire, non mi pongo il problema, non adesso e non qui. Me lo pongo, credetemi, in altre sedi con un tormento dentro grosso come la morte. Perché la responsabilità dei vostri occhi addosso pesa sulle spalle, è piacevole e tremenda. Non credete a chi dice che scrive per se stesso, ma poi pubblica: l'atto in sé, la scrittura è autoerotismo puro, anzi più dell'autoerotismo, è piacere impossibile da riprodurre in altro modo, ma l'intenzione nello scrittore è sempre parcellizzata e ricomposta in miliardi di immaginari. E l'immaginario dello scrivere solo per sè è improbabile. Dopo un po', si impara a intuire il guizzo, la natura, la qualità dell'istante: ci sono scritture che sono davvero per sè, nascono e si sviluppano in un certo modo, con un sentire peculiare, e scritture che da qualche parte andranno, e riempiranno pupille e mani tese per afferrare la carta e la copertina e l'inchiostro impresso. Si sa che i pezzi che escono avranno un bersaglio, un lettore o mille.
Di recente, voglio raccontarvi, uno scrittore amico ha suggerito alcune cose che mi hanno spinta a riflessioni oltre. E oltre. E oltre. La verità esce nitida dalla foschia e sembra tanto semplice da assomigliare all'ovvio, ma mi succede di avere bisogno di una mano altrui che tolga il velo. Insomma, si parlava di critiche e della definizione di "scrittrice bulimica", definizione che in fondo non può offendermi perché ho dichiarato in "Diario di melassa" di avere sofferto di binge eating disorder (altro che bulimia!). Chi mi chiama bulimica lo fa per alludere al quanto, cioé al numero di libri e racconti e pezzi sul blog, e l'accezione è negativa. Insomma, qualunque sia l'intenzione non ha importanza: c'è chi scrive stitico, cioé pochissimo e con fatica (avrei nomi di scrittori notissimo ed eccellenti), chi scrive normale (non mi vengono in mente nomi, o forse uno sì) e chi scrive bulimico. Come me. Accettare lo stato dell'essere è saggezza ma anche passività pericolosa, quindi la bulimia scriptoria mi ha chiesto la riflessione. Sono proprio sicura sicura sicura che niente si possa fare? Che sia giusto così? Sono certa di rinunciare a un periodo sabbatico che forse potrebbe rivelarmi pezzi che ancora mancano? Ho sconfitto il binge eating disorder perché era malattia, perché non concentrare lo sguardo sull'eccesso delle mani che corrono sul foglio o sulla tastiera? Lascio sospeso il dubbio, che non mi tormenta proprio per niente ma che, come tutti i dubbi essenziali, da qualche parte mi porterà.L'amico scrittore ha squarciato un velo, nei miei neuroni cala il silenzio della gratitudine e di una corazzata da quattro colpita e affondata, come nella battaglia navale che mi piaceva nelle ore di ginnastica o religione.
Poco prima di iniziare questo delirio ho salutato via email Gianluca Ferrara, il mio editore Creativa. Si parlava de "Le parole del buio", esaurito, e di una possibile ristampa. Oggi, proprio "Le parole del buio" è stato il regalo che, insieme alla mimosa, le donne di Novellara hanno ricevuto dal Comune. Che vita misteriosa, i libri, imprevedibile e stupenda. Oppure squallida e triste, potremmo dire, per alcuni. Viaggiano, si fermano e perdono il fiato, poi qualcosa, un canto leggero in fondo alla foresta, li tira fuori. E, come un vento allegro e dispettoso, pungono la faccia con energia nuova.
La scrittura, che mistero irrisolto, ameno per me, che arma pericolosa e stupida e micidiale, che sollievo e piacere e buiolucebuioluce. Che essenza indistinguibile dal mistero.
Il Comune di NOVELLARA ha sempre accolto la mia scrittura con l'entusiasmo e la disponibilità dei veri amici. L'amica Ebe Mirka Bonomi, che insieme a me ha incontrato più volte i lettori rendendo i reading indimenticabili grazie all'interpretazione unica, è presenza costante e stimatissima in questo blog.
Ringrazio con amore Ebe Mirka e il Comune di Novellara per l'amicizia e per questo grandissimo dono: l'8 marzo insieme alle mimose le donne di Novellara riceveranno dal Comune "Le parole del buio", il secondo romanzo che ho pubblicato con Creativa nel 2008.
Dovrei imparare dal gatto Camillo: quando ritorno a casa lo trovo in un sonno placido e innocente tra i cuscini del letto, sotto il copriletto che sembra perfetto, liscio e impeccabile come se non fosse stato spostato. Invece Camillo è sempre lì sotto che dorme: si infila languido e sinuoso tra il margine del copriletto e la testiera, scivola sotto e si nasconde. Per le dormite più immemori e placide che si conoscano. Camillo ha ragione: dovrebbero esistere momenti di scivolamento pigro e silenzioso sotto ripari perfetti che non lasciano impronta. Probabilmente i ripari esistono, il problema è che non tutti sanno vederli; se anche li vedono, rimandano indefinitamente l'istante in cui il ristoro si cerca e la figura si cela per qualche ora alla rapina altrui.
La notte scorsa, verso le due, ho ricevuto un sms. Il mio sonno è molto leggero, è bastato il piccolo pic pic per svegliarmi e darmi una strizzata di angoscia. Ho letto il messaggio e i pensieri sono partiti senza controllo. I miei pensieri partono spesso senza controllo, chi mi conosce lo sa. Comunque, ho messo il telefono di nuovo sul comodino, chiuso gli occhi e dedicato una riflessione lirica a chi non ha minimamente riflettuto sull'opportunità di scrivermi alle due di notte sottolineando un possibile motivo di preoccupazione. Dopo la riflessione ho cercato il sonno. Invano. Non avevo il copriletto sopra la testa, non avevo badato a procurarmelo e, cosa ancora peggiore, avevo lasciato il cellulare troppo vicino e troppo acceso. E' come quando dò retta alle persone che vanno dietro a pensieri neri: so che esistono persone così, so che inevitabilmente i loro discorsi finiscono in imbuti depressivi o ansiogeni, so anche che sono troppo sensibile per considerarmi immune dal contagio nevrotico, eppure non riesco a trattenere la curiosità di incontrarle quando me lo chiedono. Niente copriletto, anche lì, niente pisolo rilassante lontana dagli occhi della gente.
Ho acceso il computer con il respiro di Camillo sotto il copriletto, dopo una doccia fredda e un minuto di occhi chiusi e orecchie vuote. Giornata così. Così, proprio così. Non saprei che altro dire. Esistono argomenti che si possono spalmare in un blog e argomenti che dovrebbero (condizionale d'obbligo) restare nella mente, o nel cicaleccio bello di pochi. Insomma, lavorare nell'ambiente oncologico può portare giornate così, per tante ragioni: ciò che si vede, ciò che si soffre, ciò che si osserva increduli scuotendo la testa. O un misto di tutto, variamente shakerato. A volte capita di riflettere sulle priorità che cambiano all'improvviso di fronte alla malattia: come è vero, davanti agli occhi balena la fine possibile e la testa si ribalta, l'elenco di ciò che importa è stravolto in pochi attimi. Poi. La vita cammina, e non sempre la rivoluzione delle priorità resta quella dell'emergenza: si ricomincia ad arrabbiarsi per il banale, per le diatribe tra colleghi, per l'amante che non risponde a sms erotici, per piccoli grandi torti che immaginiamo di subire. Ci si arrabbia per il parere di un agente letterario, per esempio (un giorno pubblicherò un'analisi genetica degli agenti letterari: hanno proprio un DNA a parte), oppure si riesce a ridere per una critica perché di fronte si ha una donna di venticinque anni cui è stato diagnosticato un tumore e allora, lasciate che ve lo dica, dell'agente letterario non frega assolutamente niente. Come ondeggiano i nostri valori, come ci si sente forti o deboli, belli o brutti, vincenti o sfigati e in balia del vento! Forse andiamo a giorni, o, al massimo, a settimane: umore, ormoni, eventi, sensazioni, un ottimo polpettone di eccellenti motori spinti al massimo. Fino all'incoerenza. O alla mutevolezza, che incoerenza non è, solo accettazione del tempo che scorre e porta via.
Vi succede di sentirvi sbranati? Tagliati a pezzi slabbrati e dolorosi, abusati, rapiti, defraudati della dignità e del minimo spazio vitale? A me capita, e a niente valgono gli insegnamenti remoti delle suore: non sono felice a priori e grata per il cinguettio degli uccellini, ho imparato a ammettere in modo salutare che alcune cose no, proprio non mi piacciono. E non le accetto. Vedo tanto di più la bellezza dell'amore, vedo la gioia, vedo la fortuna quando c'è: vedo anche che ogni giorno, perfino quello che sarà ricordato come il peggiore, è sempre un'alchimia di bello e brutto. Poche cose apprendo nella retorica, ma una vale: la vita offre e toglie nello stesso momento, sempre. Mai tentare un bilancio, ma guardare con occhi puliti sì. E ammettere che insieme all'orrore c'è anche anche la luce, e viceversa.
Ho già detto che dovrei fare il predicatore. In un'altra vita ci penserò su. Ho visto lo spazio bianco nel blog e avuto voglia di scrivere, di parlarvi senza la metafora dei racconti rischiando di annoiare. Chi si annoia ha già smesso di leggere, quindi non mi preoccupo. Davanti ho la foto di mia nipote che mi augura buon compleanno: questo è bello. Nella testa ho una donna che oggi ha avuto un trauma terribile e non ho potuto fare altro che starle accanto: questo è brutto. Domani sarò con Nicoletta Carbone a radio24: questo è bello. Ho avuto l'ennesima discussione apparentemente utile ma di fatto complicata con un agente letterario: questo è brutto. Esistono persone che stimavo e mi hanno deluso, e anche persone false: questo è brutto. Ho intorno a me persone che mi amano, riamate: questo è molto bello. Ho in programma tante presentazioni di "Diario di melassa": questo è bello. Ho persone care in serissima difficoltà economica: questo è tanto brutto. Potrei andare avanti, e anche voi: sono sicura che abbiate seguito la mia cantilena e sostituito i miei piccoli dettagli con i vostri. La mia vita con la vostra. L'altalena del bello e brutto prosegue per tutti.
C'è una madre che oggi avrei voluto consolare o addormentare perché non sapesse e non vedesse, una donna cui voglio bene. C'è una figlia che ho visto diventare donna, con fiducia e energia mi ha accanto in un periodo difficile. Ma c'è anche la mia libertà, sapete? E la libertà adesso dice che per questa madre e questa figlia, e per il padre ovviamente, sono veramente incazzata. L'amore per loro e la sensazione che alcuni eventi siano contro natura mi fanno piangere e arrabbiare. Quando tolgo il camice e lascio la faccia di gomma della sicurezza appesa all'attaccapanni mi inferocisco per l'ingiustizia del caso e della malattia. Le suore non sarebbero d'accordo.
Ho voglia di un film vecchio, scontato e senza impegno, oppure di un copriletto impeccabile che mi nasconda la testa. C'è un nucleo di felicità inspiegabile che brucia dentro, non è coperto del tutto dal mutismo calato su di me appena entrata in casa. Ma come, un attimo fa ero arrabbiata e ora parlo di felicità? Sono arrabbiata e triste, lo sono tanto, eppure percepisco il soffio sottile di un'energia che posso chiamare vita e, senza capire il motivo, felicità. Attribuite l'insensatezza delle parole a un deperimento precoce dei miei neuroni o al tormento sconclusionato dell'artista, affari vostri e non miei. Io mi sono chiara, finalmente. Se dovessi raccontare a una ventenne il vantaggio dei quarant'anni in incipit che sto vivendo forse direi che ci metto meno tempo a eliminare la zavorra e vedo una strada per affrontare anche i problemi più grossi (magari la immagino, magari non è reale, ma la vedo, e mi ci aggrappo). Chissà.
sarò in diretta con Nicoletta Carbone a "Essere e Benessere", su RADIO24.
Parleremo di "Diario di melassa" e di cibo: quale rapporto abbiamo con il cibo? Cosa rappresenta per noi? Potete proporre argomenti e riflessioni in tema inviando un messaggio email a [email protected], oppure lasciando commenti nella pagina Facebook dell'evento.
Un'altra notizia per me bellissima è che Sara Caminati e Innovation Marketing hanno creato per me un sito totalmente rinnovato. Li ringrazio di cuore e vi invito a vedere:
Non serve dire che scrivere erotismo mi piace, lo sapete. Probabilmente è anche superfluo raccontare che Giulio Perrone è tra gli editori del mio cuore: l'ho detto qua e là e l'ho dimostrato partecipando volentieri alle iniziative di questo editore. L'ultimo piacere che ho deciso di regalarmi è stato il racconto erotico "La sua presenza, fuori" nell'antologia "Danzando nel sapore dell'uva", in uscita oggi per Perrone LAB.
Sorride. Le parole scivolano pigre e non si possono afferrare. E' Flavio a crederlo: lancia battute e discorsi pesanti frullati in una miscela che crede impalpabile, sorride, bacia e va via. Parole, niente altro: crede che Lucia non afferri il senso, è convinto che, persa nella morbidezza languida delle sue labbra, non analizzi lucida il motore delle sue fughe. Lei invece le beve pezzo per pezzo e non le dimentica, ne affastella il significato segreto da mesi costruendo idee e certezza, scavando nel desiderio che lui finge o, qualche volta, riesce a provare. Nei giorni che scivolano come sabbia e diventano niente.
- Hai la malattia del cibo. Ma stai dimagrendo, dimagrisci da quando mi conosci.
A vent'anni avrebbe pianto, a quaranta ride. E scuote la testa tirando avanti. Non riesce a spiegare, sarebbe inutile. Conosce l'immagine che lo specchio le regala: è bella per tanti, meno bella per altri. Non è più grassa, ma non è - non sarà mai - una donna magra. E' questo che Flavio non ama. Più del carattere mutevole che lo fa sentire sulle montagne russe, più dell'aria saccente o troppo umile o depressiva o euforica. Più delle amanti che già ha e gli riempiono le ore. Lucia le ha osservate, queste donne: magre, tutte. Belle o brutte non importa, sono magre. Nessuna ha la morbidezza che ha lei. Le accompagna alla fermata dell'autobus e scherza con loro, le guarda al bar oppure chiede che lo accompagnino nei viaggi di lavoro (per fermarsi in un albergo, se capita), riceve telefonate e sms e si districa ridendo di loro (e con loro, si augura quando lo vede e prova pena per voci di donna che riesce a captare nell'aria rara di discorsi vuoti). Donne. Magre. Diverse da lei.
- Ma questo è banale!
Nella testa le proteste degli uomini che ha avuto, quelli che sono riusciti a sfiorarla sul serio. Immagina Giuliano: ama le sue forme rotonde e i seni pesanti che riempiono le mani. Contesterebbe l'idea, anche solo l'idea, che Flavio la rifiuti perché non è magra. La sensualità è altro, direbbe, e penserebbe al suo erotismo che esplode e toglie la memoria, ai gesti lenti da geisha e alla voce roca sussurrata, sommessa, alle mani che trattengono la schiena o la allontanano, alle labbra piccole che baciano ogni centimetro e si fermano e succhiano. Penserebbe, insomma. Ad altro, e altro ancora. Ma non al corpo che è parte ma non tutto.
Ma non è Flavio. Flavio lascia cadere parole che Lucia ha decifrato da tempo. Troppa carne intorno alle ossa, l'estetica dell'eros non stimola altro che baci perfetti. Lucia sa, ha visto. I frammenti di occhi e inerzia e frasi si sono infilati nelle orecchie e negli anfratti spessi di ragionamenti che non può fermare. Scherza con lui e non permette che arrivi nel fondo di lei: l'avrebbe voluto, le sarebbe piaciuto pensare a un amico complice capace di ridere e toccare e respirare zitto nel piacere di istanti segreti. Ma è troppo giovane per rassegnarsi al desiderio costretto, e troppo vecchia per credere ancora che si possa fare qualcosa per la leggerezza mancata di un amore morto.
Ci sono uomini che ti amano perché sei. Altri per lo spazio che occupi.
Siamo ridicoli, è bene che tu lo sappia. Il peso della consapevolezza non deve ricadere solo sulle mie spalle: se si fa a metà non c'è sollievo, ma almeno non esiste il rischio teorico dell'ingiustizia. Equità, suvvia! Siamo ridicoli, sta tutto lì. Conosco il brivido subdolo del barlume di dubbio, e mi viene da ridere: sto contando a voce bassa i volti e i nomi che in questo momento, leggendo, indicano se stessi con un dito. "Parlerà con me?", anzi, chiedo scusa: "Parlerà di me?". Perché un certo gruppo di affezionati o saltuari lettori di questo blog cerca se stesso (o se stessa) nelle parole che vernicio ogni giorno, e non sempre c'è paura. Il paradosso della scrittura è che, in fondo, si desidera essere presenti. Il fascino irresistibile della menzione pubblica, con la mano di uno scrittore a cesellare identità che tanti scrutano. Perché anche nella critica o nella rabbia si è. Si è qualcosa per chi scrive, capite? Se uno scrittore si affanna a definirmi sbagliata, antipatica, piazzista di libri, becera e bulimica significa che mi pensa! Mi ha in testa! Creo invidia o faccio paura, o suscito rabbia fremente che è parente dell'amore. In un blog può anche essere esercizio da niente (per me non lo è: prendo seriamente il blog almeno quanto i libri che scrivo, ma non per tutti è così), ma se la dotta e malevola citazione si trova in un libro l'orgasmo è immediato. Almeno per me. Certo, la medesima regola si applica al mio scrivere. Oh, quanti mesi ho regalato a pensieri e gente inutili! Quante frasi e righe e paragrafi! Per niente! Dentro di me avevo la percezione esatta della forza storta di cui nutrivo persone che, poi, mi sono apparse nella loro verità. Cioé brutte.
A proposito di bruttezza. Questa sera, nelle vie fredde ma almeno non piovose di Padova, camminavo spavalda e, con il mezzo sorriso stampato sul trucco ibernato dalla passeggiata, pensavo. A cose varie, niente di drammaticamente importante: constatavo di essere serena. Appagata da una scelta leggera di assenza che è arrivata spontanea, come il silenzio che per ore ho desiderato senza ottenerlo e mi è nevicato addosso al termine della conferenza su creatività e dolore. Ho fatto pulizia senza troppo sforzo, mi rendevo conto che i movimenti erano più agili e liberi. "Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora", avrebbe detto il Sassaroli nella gigantesca e tragica opera d'arte di "Amici miei": i tre quarti d'ora sono trascorsi e il respiro è fresco e ampio. Insomma, non divaghiamo. Ero nelle vie di Padova e stavo bene come adesso. Ho incontrato un uomo che non conoscevo: fisicamente, nel buio, assomigliava a un altro che nel passato ho ricoperto di importanza eccessiva. Ho guardato la somiglianza falsata dalle tenebre e mi è venuto da ridere. L'altra faccia, quella del ricordo, mi è apparsa brutta. Ma brutta sul serio, per la prima volta. E mi è venuto da ridere. "Ma quanto eri brutto?", ho chiesto all'ombra spuntata fuori senza pathos né emozione, e ho accettato placidamente che lo stesso si dica di me, se si vuole. Niente di male nell'essere considerati brutti, in fondo. Se fossi amorfa mi seccherebbe, ma brutta può andare bene. A patto che si capisca che bruttezza e bellezza raramente sono universali, ma a rendere relativo l'eventuale concetto di mia bruttezza per fortuna esistono i cosiddetti rinforzi positivi, cioè i messaggi di chi mi ama e ritiene, senza mentire, che per lui/lei io sia bella. Sono certa che anche l'uomo che ho evocato nella notte padovana grazie a un volto visto di sfuggita sia meraviglioso per qualcuno, lo è stato anche per me in un tempo che adesso faccio fatica a mettere insieme in un sospiro.
Sospiri. Ne ho sentiti tanti oggi. L'incontro con l'università popolare su creatività e dolore ha portato emozione. Tanta emozione, anche a me. Ho superato la pigrizia della lettura pubblica e condiviso brani dalle memorie intime di Simenon, da libri di Tiziano Scarpa (ma sì, dai, fate il commentino e tirate avanti: la scrittura di Scarpa mi piace e lo dico fino alla vostra noia; il blog è mio e andrò avanti finché ne avrò voglia), "Diario di melassa", "Una storia ai delfini" (la prefazione di Veronesi) e "Le parole del buio", il diario di Virginia Woolf. E ancora, "Rendez-vous", "Niente di grave", "Ho il cancro e non ho l'abito adatto". Stuzzicando la mia fantasia (forse anche quella di altri presenti in sala, non saprei dirlo) con Hopper, Picasso nel suo periodo blu, Van Gogh e Munch. Abbiamo discusso di dolore e amore, e scrittura, e riflettuto sull'importanza drammatica dei saggi, i libri che possono creare una differenza nella cultura della gente. A proposito di cultura, sapete che cultura è vita? I dati statistici dicono che chi si ammala di tumore ha una probabilità maggiore di guarire se ha un livello culturale alto. Alt, fermi: ho detto livello culturale, NON economico! Significa che chi ha gli strumenti culturali per informarsi e scegliere criticamente le cure fa qualcosa di buono per sé.
Fare qualcosa di buono per sè. Non so voi, care amiche lettrici, ma questo compleanno che mi galoppa addosso crea riflessioni da "i miei primi quarant'anni". Non è che mi piaccia troppo, ma serve. Un assioma: le amiche che hanno vissuto i quaranta e oltre dicono che "adesso inizia il bello", e tutto sommato, se considero la luce e non le ombre che popolano la vita di ciascuno indipendentemente dall'età, posso crederci. Il bello dovrebbe essere un amore per sé finalmente scoperto e reso saldo. Anche nel mezzo di difficoltà e, talvolta, vere e proprie tragedie. Oppure in mezzo ai soliti problemucci di sesso e relazioni altalenanti o solo immaginate. L'amore di sè, fare qualcosa di buono per sè. Rinunciare, per esempio. Udite, udite! La Luini finalmente proclama qualche rinuncia! Temo di sì, ma non la rinuncia alla scrittura e neanche a relazioni e affetti che ritengo meravigliosi, e non rinuncio, sappiate, a qualche abitudine privata che mi rende ciò che sono. Rinuncio all'autolesionismo. A quella spinta orribile nata con me, più o meno, che ha fatto di tanti miei anni un cumulo di tortuose, complicatissime salite con poche radure e quasi nessuna tappa di vero e gratuito refrigerio. Ho sempre pagato tutto, chiunque mi conosca bene lo sa. Pago ogni singolo piacere a prezzo tremendamente alto, sono diventata una bestia feroce perché ho dovuto affrontare ogni genere di ostacolo occulto o palese per raggiungere quello che ho. Ma. In parte ho anche camminato a passi più pesanti perché io stessa appoggiavo alle caviglie una zavorra inutile. Ostinata e convinta della mia potenziale onnipotenza, ero la nemica più sottile di me stessa. Bene, questo non cambia con un compleanno, è già cambiato: la data del 21 febbraio sancirà solo il passaggio ufficiale. Come il capodanno appena trascorso: gli amici più intimi sanno che da mesi preparavo, lentamente, alcune espulsioni da celebrare nell'istante di passaggio tra il 31 dicembre e il primo gennaio 2010. Macinavo pensieri e altalenanti serenità, parlavo o tacevo, ma quelle espulsioni avevano un timer che, effettivamente, è scattato inesorabile e ha funzionato. Intorno a Saturno abbiamo qualche anello in più, ho spedito in orbita perenne persone che ormai erano solo dolore e ostacolo, e credetemi se dico che sono davvero uscite dal mio cuore nel rapido cambiare della data. Quindi. Niente svolte epocali, a meno che non siano preparate da un cammino paziente e lucido. Ciò che accade ora. Ho qualcosa da fare, ancora. Avrò sempre qualcosa da fare nella mia eternità. La tappa dei quarant'anni è fare qualcosa per me, abbandonare l'autolesionismo. E smettere di accettare situazioni da fumetto di serie zeta. Amen.
Oh, che peso questa Luini! Ma no dai, la realtà è luminosa e serena. Qualcuno ride leggendo "luminosa e serena", ma sbaglia: se la luce si accende in testa, o in un posto interno del corpo a vostra scelta, già molto è stato ottenuto.
Mi sento un predicatore americano. Alzate le mani e cantate con me. Nel tocco della pelle con la pelle la piccola scarica di adrenalina sarà sensuale, credetemi. Guardate i miei occhi, lo sguardo è per voi. Sensualità e affetto, perché penso a voi che leggete e non sempre mi siete noti. Quando vedo il numero di letture di questo blog mi emoziono, e quando qualcuno si ferma e mi tocca la spalla e sussurra "Lei è la scrittrice del blog, vero?" (come è accaduto martedì scorso) ho la nettissima sicurezza di amare. Amo gli occhi che leggono, le mani che commentano e quelle che invece restano ferme accanto alla tastiera del computer, amo chi fa finta di non leggermi e ritorna a dare un'occhiata simulando disinteresse, amo chi si chiede se la mia vita sia quella che si legge qui oppure sia completamente diversa, amo chi si manifesta e chi no. Amo chi ispira i miei racconti: suscita emozioni fortissime, lo dicevo qualche paragrafo sopra, e non solo la rabbia. C'è chi ispira racconti negativi, chi ispira erotismo, chi ispira o ha ispirato amore. O tutto questo insieme. C'è la mia amica Simona, parte di me, che si è chiesta perché non l'abbia mai nominata nei miei scritti: non capisci che sei in ognuna delle parole? Non capisci perché sono diventata ciò che sono anche in ambito medico? Credi davvero che sia stato solo per quel ricordo drammatico che abbiamo condiviso? Secondo te non ho temuto per altri, non ho pianto, sperato, tremato, pregato? Simona, sei qui adesso ma non serviva che ti menzionassi. La natura di noi è fusa nelle mie parole.
Uh, quanta roba. Raffiche di follie e aliti di niente. Cielo! E tutto è partito da cosa? Ah, certo. Dal fatto che siamo ridicoli. Parlo di te, vedi? So che hai letto fino in fondo, adesso sei fermo su queste sillabe che si rincorrono una a una. Nella tua testa hai costruito spiegazioni plausibili per la nostra ridicolaggine, e sono costretta a deluderti: non è così complicato. Siamo ridicoli come tanti altri: sono stata ridicola così con altre persone che, come te, mi sono piaciute molto. Abbiamo messo in atto l'unica forma di stupidità possibile per gente come noi. Non abbiamo avuto la lealtà e il coraggio di parlarci. Sottovalutando la reciproca intelligenza e, anche, sminuendoci un po'. Che peccato. E' come morire senza avere visto il mare.
Lenta. Mai stata così. Spingo il tempo oltre la necessità e spruzzo la passione agli angoli nascosti. Eppure sono lenta, oggi.
Il treno regionale di stazione in stazione trascinava nuvole grigie di pioggia rada: gli occhi seguivano il cammino nella campagna brutta di palazzi bassi e scrostati, attraversavano luoghi che per anni ho sentito miei. Ho sorriso quando si è fermato a una certa stazione, ho mandato amore silenzioso e mi sono nascosta dietro il finestrino più opaco che sono riuscita a trovare. Perché non è più logico dire ciò che non può essere detto, e chi mi cerca sa che potrà trovarmi sempre. Gente che parlava al telefono a voce alta ha raccontato traumi scolastici, equazioni differenziali che mai riuscirò a capire e posti di lavoro nuovi e ancora precari. Un manifesto senza troppa fantasia parlava del carnevale di Viareggio. Avevo un libro in mano, sottolineavo frasi indimenticabili con la tentazione di riempire le pagine di segni: l'ho scoperto grazie a una persona, al mio Edward che sta da qualche parte e, sono certa, sorride. Il telefono vibrava, vibrava, vibrava: messaggi si affastellavano e irritavano i nervi placidi ma acuti, la malinconia spenta di un viaggio che ho ripetuto cento volte sfilacciata dalla scoperta di un buco opaco là dove, tante altre volte, intuivo gioia.
Lenta, anche adesso. Bach solleva pensieri che non condensano racconti o erotismo o gesti di impeto straziante. Riconosco i concerti e aspetto che arrivi il tempo per alzarmi dalla poltrona, ammiccare a Adriana e portare in casa il sushi. Ho in testa una risposta data con la cattiveria della rabbia, sono certa che non sia stata compresa e non mi dispiace: inutile spiegare che avrei voluto. Desiderato con la leggerezza di un'amicizia che non c'è. Ma sembrava possibile. Non importa, niente importa sul serio. Ho libri accanto. Potrei diventare ogni cosa o niente, trasmigrare in case che non conosco o ricordo appena, respirare aria nuova o stantia in un boccone da masticare con il languore appassito della testa voltata indietro. Ma no, così non si deve. Così non è.
Infelicemente felice, l'ho letto nel libro che Edward mi ha permesso di scoprire. Per la prima volta, alle soglie di un quarantennio che non ho molta voglia di raggiungere, so cosa significhi: infelicemente felice. Ci sono risposte che non darei, domande rimosse e chiuse sotto la lingua, gare di velocità che non mi interessa vedere: conosco le poche, cristalline e assolute priorità che sono bisogno e istinto, il resto scivoli meglio che può. Oltre non vado. Il difetto che dovrei cancellare è scendere nelle mischie che non mi appartengono, pollai pennuti e sporchi così distanti da farmi sentire ancora più estranea. Ho dovuto scegliere le persone, guardare a destra e sinistra e capire chi fosse falso: ho seguito l'anima, e non mi pentirò per questo. Chi resta nel parcheggio squallido del sorriso falso avrà la stessa me, che sa di essere usata. La rivoluzione di una me strumento che infila parole e bugie con i sospiri.
Lenta, vedete come non riesco a creare guizzi? Ho progetti da materializzare con la scrittura veloce e intensa dei giorni soliti, ma questa sera, mentre una sirena parla di ambulanze che corrono oltre l'Arno, non ho altro che pace inframmezzata a ansia scintillante a stilettate. Da addomesticare. Felice, infelicemente. Perché chi scrive non può agguantare la felicità gratuita, non è dato, non deve. Il velo di sguardo crudele sulla realtà, sul sesso sudato che sa perdermi, sulle parole di amori perfetti mi rende ciò che sono. La distruzione dell'incanto in un eterno paese delle meraviglie. Ho tentato di spiegarlo, questo paese che alcuni hanno intravisto ma nessuno ha saputo comprendere: sarebbe sufficiente seguire la mia onda, accettare che la realtà che stringo, l'unica accettabile, sia l'invenzione comoda e piena che la mia mente ha costruito, non sembra difficile. Pesci ascendente pesci, qualcuno dice che è importante: sognatrice, creativa, ipersensibile. Che siano stelle o ora e giorno della nascita interessa poco: lasciatemi i confini tenui e paffuti del mondo che ho voluto, non bucateli con i punteruoli del tradimento gratuito che in fondo interessa a nessuno. E' faticoso provare rancore, non ne sono capace, è sciocco perdersi nelle beghe infantili della polemica che non crea respiro o vita. Ho chiesto a amori e incontri da niente di prendermi così, come un'Alice irreale persa in un castello dai muri fluttuanti, ho chiesto di non sapere. Ma. Per Alice conta solo la passione tragica del vuoto che riempie di creazione. E il resto delude.
Ogni tanto penso alla terra che trema, a uno scoppio improvviso, a una frattura inspiegabile. Stringo i denti come se stessero arrivando. Allungo la mano e ne cerco un'altra, non sempre è quella giusta, e se è giusta mi spavento e scappo. Perché l'amore giusto è una fiamma che fa male quando si spegne. E l'amore, poi, che non esiste, non è altro che fluido fallace e incandescente di illusione: porta via la mente e intorpidisce le dita che devono scrivere. Ecco, è questo, forse. Ritirarsi e non capire. Eppure, a un certo punto della vita è scomparsa un'ombra tormentata che credevo di amare e sono arrivate luci dense e radiose di genuina gioia. Ho avuto, ho uomini e donne che sanno regalare carezze, e canzoni dal ritornello allegro, e telefonate a sorpresa nelle sere fiorentine. E corpi, se li voglio. Ho creduto che l'ombra nera di un uomo solo e tormentato fosse il segno delle scelte che non sapevo fare, deve essere così. Il più grande dono è stato andare via. Oppure no, non mi soffermo su sabbia scipita volata indietro.
Mi alzo dalla poltrona. Pesce crudo senza altro. E, lenta, riprendo il computer tra le mani. Insieme ai libri e alla neve che, dicono, ricopre Milano.
Impresa difficile, questa recensione passionale. Che recensione non è, ma un commento lungo a voce alta, con il sapore del libro ancora sulla lingua. "La vita, non il mondo" è l'opera edita più recente di Tiziano Scarpa, impossibile da sintetizzare in una trama. Perché non ha trama, in effetti: potrei dirvi che il titolo è tutto, un condensato di significati diversi e il senso delle pagine brevi, ciascuna con mille caratteri al massimo, che affrontano fulminei oppure lenti, musicali o cacofonici, emozioni, esperienze, incontri, riflessioni e amori di un autore che per la prima volta vediamo quasi nudo. Fermi, conosco l'obiezione: l'abbiamo visto nudo tante di quelle volte... E qui sta una delle sorprese più grandi: il percorso dei capitoli che si inseguono rapidi con una scrittura che in qualche momento mi ha commossa di piacere quasi fisico racconta Tiziano Scarpa adulto, con la testa (calva) aliena rispetto a pochi, pochissimi anni fa. All'improvviso, la profondità che abbiamo sempre sospettato esistesse ma che si tingeva dei colori più assurdi con le invenzioni roboanti dell'esagerazione, del sesso, della risata sarcastica sull'amore, ci si svela facile, evidente. E ci lascia increduli. Non dobbiamo più intuire e sentirci più intelligenti della media per capire che Tiziano sa amare e praticare la fedeltà, riconoscere l'incanto e gioire di ogni banale istante della vita: lo possiamo quasi toccare, in questo libro, quando si ferma a osservare il cadavere di un uccellino e lo mette poi sotto terra in giardino "per proteggerlo con un po' di silenzio", non abbiamo bisogno di immaginare che abbracci la sua compagna e si commuova per un istante, schiacciato dal'amore, non siamo più costretti a sentirci pazzi nel vederlo intenerito di fronte all'ingenua verità dei bambini o a una pagnotta tagliata a metà che è il simbolo più bieco (più tenero) della stupidità degli innamorati. A proposito di questa pagnotta, andate a leggere la parte che la riguarda: ho ricordato la raccolta di racconti "Amore" e sono stata incerta se ridere o piangere; non voglio, non posso descrivervi qualcosa che va gustato nel silenzio, ma la stupidità di tutti noi, presi dall'amore, salta la barriera dell'ironia e diventa poesia. Sfogliamo e accarezziamo pagine che non hanno più lo strappo esagerato della provocazione, riusciamo a intuire che l'anno di nascita dell'autore (1963), e la consapevolezza di ciò che adesso un pubblico molto vasto si aspetta da lui, hanno creato l'inevitabile, meraviglioso mostro dell'uomo fedele, che parzialmente (bisogna dirlo) rinnega la sprezzante libertà che tutti grazie a lui abbiamo sognato. Tiziano ci ha illusi a lungo, adesso ci spiega che prima o poi si cambia. E riesce a convincerci, nonostante il piccolo, ineliminabile dubbio che dietro il mio orecchio destro sussurra che forse la mano un po' pesante sulla melassa vada a beneficio degli occhi della compagna. Ma evitiamo i gineprai. Mi sono fermata spesso, durante la lettura: ho resistito alla tentazione di sottolineare con la matita grossa le meraviglie, se l'avessi fatto avrei riempito di sottolineature il libro, ma ho anche riso e scosso la testa a intervalli regolari, incerta se rimpiangere la libertà che credevo assoluta in un uomo senza dubbio superiore a tanti altri oppure commuovermi per la bellezza dell'impasto arte-scrittura-amore-casa-resa. Resa, sì, la resa di chiunque, prima o poi. La resa di Scarpa, anche. Ci fa un regalo, Tiziano: ci lascia guardare nella sua vita. Ci permette di seguirlo nei viaggi e nell'incanto dell'arte e della musica, condivide con noi lo stupore per i neuroni che assomigliano a anemoni e non ce la fa a scandalizzarci con uno dei suoi classici refrain: perfino quando si lascia andare all'autocitazione del passato e descrive il sesso con la sua compagna che ha le mestruazioni la smorfia divertita sorge solo a metà. Perché c'è amore, anche lì, e non sappiamo se dire "Sei invecchiato" oppure "Finalmente". Che libro, ragazzi. Non trascrivo qui i pezzi di bravura, andare a comprare il libro perché non può mancare in casa vostra, ma la scrittura è superiore a... Non voglio dirlo, è superiore a tanti altri libri che ho amato. Da estasi, in qualche momento. Mettiamola così: se la caduta dell'eroe libero e romanticamente selvaggio un po' mi toglie il respiro, la scrittura mi incanta. E dirò in chiusura ciò che io stessa ho inventato quando recensivo per Mangialibri, e ho riservato a pochissimi (Massimiliano Parente prima di tutti). Tiziano, chapeau.
Succede di osservare da lontananze remote, avvolti da una coperta spessa così. La testa immersa nel silenzio, si captano tuoni esplosivi di parole e non ci si scheggia. Non più.
Ero seduta alla mia scrivania, questa mattina, gli occhi persi avanti verso un mobile che sorregge, esibisce raccoglitori di documenti rossi, gialli e blu. Nelle orecchie si trasferivano suoni e rumori, picchiettavano appena il cervello e tiravano avanti senza una meta precisa.
Pensavo. Sentivo addosso, come un solletico caldo, i corpi dei "pazienti" che affollano l'Istituto, li ascoltavo e annusavo, stringevo le loro carni tra le mani ferme ai lati della tastiera del computer. Erano con me, e io con loro, e mi avvolgevano di una presenza impenetrabile.
- Sono loro la mia coperta.
Ho raccontato al niente della stanza vuota.
In fondo a me, ricordi recenti o remoti e volti, scritture meravigliose che hanno fatto male. Ragionamenti veri, ansie e priorità, calcoli e pettegolezzi che qui non attraversano la soglia. Perché non lo possono fare. Bisognerebbe trascorrere una giornata nella contemplazione attenta di questi corridoi affollati di dolore, lo dico spesso (solo con la mente) a tanti che si affannano a odiare e rendere acido il giorno. A tanti che guardano il dito e non la luna, abbandonano emozioni che potrebbero essere lievi per il peso intollerabile della cattiveria. E dell'invidia. E della povertà d'anima. Non uso la voce quando auguro loro di venire qui e guardare, crederebbero che voglia augurare un male assoluto. No, non lo potrei fare: questo che assaggio ogni giorno è impossibile da augurare a chiunque. Vorrei solo che capissero, respirassero la paura e la fiducia, e la concretezza brutale del brusio vivo che questa mattina mi solleticava e avvolgeva in una coperta di piume: dovrebbero sapere, sarebbe giusto, che se scavalchi un limite ti rendi conto all'improvviso di ciò che fa la differenza sul serio.
Per questo il mio dolore è lento, a volte. Sembra sepolto sotto strati di indifferenza che nella realtà non possiedo, ha tempi e modalità di reazione incomprensibili a chi mi crede ovvia. Per questo l'allegria esce come un torrente che pochi riescono a guardare fisso. Nelle cavità risonanti del mio cranio vivo come gli altri, lascio che la nevrosi mi possieda e ho paura, a volte. Poi tocco la scrivania con le mani, associo nomi e cognomi a malattia e guarigione e morte e terrore e il mondo si allontana, diventa l'immagine sullo sfondo.Non ce la faccio a prendermela e neanche a scaricare sacchi di rabbia che mulinano sulle spalle. Saluto gente che se ne va, rispondo a morsi quando so che mi si prende in giro. Ma accetto, perché la coperta di piume delle persone vere, quelle che sanno calcolare i minuti perché sono diventati importanti (e sono vita, in contrasto, vita che strappano alla morte), toglie importanza al nulla.
Scrivere gocce di pensiero. Accade ogni giorno. Che permetta a occhi estranei di leggere invece è molto più raro. Un libro che mi ha fulminata di bellezza ieri, però, mi ha convinta a tirare fuori ciò che finora bruciava su pagine oscure. Si può condividere, in fondo. A patto che si accetti l'incomprensione.
Mi chiedo cosa sia una vittima. Cosa significhi essere vittime.
A un incontro con i lettori a Rimini, mesi fa, abbiamo discusso di quanto (e se) la pedofilia possa essere oggetto di prevenzione. "Diario di melassa" affronta anche questo, la pedofilia e le conseguenze su chi la subisce: ecco il perché della discussione, nata spontanea e forse ovvia nel contesto dell'alternarsi domande-risposte sul libro.
La prevenzione della pedofilia è necessaria, sottovalutata e, purtroppo, destinata a un certo grado di fallimento a priori. Spero di riuscire a spiegare perché.
Dedico qualche riga al carnefice. Salvo casi eclatanti, è subdolo e apparentemente irreprensibile, il più corretto e probo degli uomini (o delle donne). In più, fa spesso parte della famiglia o della ristretta cerchia di amici: ho visto, so cosa significhi sapere e tacere, il marcio della perversione pedofila il più delle volte è rifiutato dalla consapevolezza (dalla dimensione conscia di chi potrebbe intervenire) anche quando intuito o intuibile, oppure nascosto a priori per evitare lo scandalo o i traumi (per gli adulti), le separazioni, le liti. Mentre i media ululano che la pedofilia vada identificata con tempestività, le famiglie coprono, ignorano, voltano gli sguardi altrove. Oppure inventano patetiche ragioni per il comportamento patologico di alcuni irreprensibili (insospettabili) componenti. Dico l'ovvio, fino qui, ma la verità è che si arriva a giustificare la pedofilia in alcune forme perché "solo molestia leggera", senza considerare che per un bambino la molestia leggera è, di fatto, violenza.
Pensiamo alla vittima, però, e spostiamoci dall'ovvio.
La vittima della pedofilia entra pesantemente nella successiva prevenzione perché può reagire in modo poco prevedibile a ciò che ha vissuto nell'infanzia e adolescenza. Nell'immaginario, la parola "vittima" rimanda a pianto, dolore, sofferenza e compatimento. Fa pensare a qualcuno che abbia ricevuto torti, violenza, offesa, e debba conseguentemente ricevere un po' più di affetto, un po' più di attenzione, forse un po' più di pazienza. Poche volte ci si concentra su quanti danni psicologici la vittima abbia ricevuto e strutturato dentro di sè: soprattutto se bambina (o bambino), la vittima viene plasmata dall'accaduto e se lo porta dietro, lo rende parte del proprio modo di vivere, amare o non amare, reagire e desiderare. Non sempre lo sviluppo della personalità va verso la serena e triste accettazione della violenza ricevuta, con il fermo proposito che il ricordo di eventi traumatici non causi ulteriore violenza. Non sempre, soprattutto, si hanno gli strumenti e i mezzi per chiedere aiuto. Quando impari da bambino a leggere il sesso come gesto di complicità e amore con il pedofilo (cosa sia l'amore ti viene insegnato dalla vita, non certo dalle parole degli educatori), l'atto sessuale assume significati che per la persona fortunatamente libera da ricordi di violenza sarebbero impensabili. Ciò che è torbido, duplice, connivente e sadomasochistico entra a fare parte di un orizzonte misto paura-repulsione-desiderio, si scambia facilmente l'erotismo per l'unica manifestazione possibile dell'amore. E, nei casi peggiori, si assume il medesimo atteggiamento del pedofilo conosciuto nell'infanzia, per un senso di rivincita, di vendetta postuma, ma anche di malsana passione assorbita con i gesti, e con l'impasto putrido di complicità e perversione acquisito nei primi anni di vita.
Il pedofilo (uso il maschile intendendo uomo o donna, indifferentemente) è spesso parte della ristretta cerchia familiare, o di quella degli amici fidati: se coinvolge un bambino o bambina in giochi erotici che millanta con amore o "amicizia segreta e particolare" crea il duplice danno della sofferenza fisica e della maledizione eterna di non conoscere più la differenza tra amore e tortura. Il bambino molestato cresce convinto di avere ricevuto attenzioni particolari e molto preziose in quanto essere speciale, non riesce a vedere che ogni dettaglio, anche il più insignificante, è stato solo il frutto di un'orrenda e brutale violenza fisica e psicologica. Rischia, successivamente, di vivere e desiderare il sesso come una ripetizione di ciò che nell'infanzia ha suscitato brivido, emozione confusa ma fortissima, intimità indicibile con qualcuno che "amava". Rischia di infilarsi in reazioni che ricalcano il rapporto vittima-carnefice, senza esserne consapevole, trasformandosi in vittima (ancora) oppure carnefice, incapace di fermare quella che, secondo me, non è altro che l'eterna ripetizione dell'orrore. Si resta vittime anche da adulti, a meno che non intervengano persone esperte che riescano a fermare un copione che è condanna.
Qualcuno all'incontro di Rimini ha detto che la pedofilia dovrebbe essere combattuta con la prevenzione. Ho seri dubbi sulla possibilità di prevenire un orrore che troppe volte fa parte della famiglia: come dicevo all'inizio, è difficile se non impossibile accorgersi della perversione di un fratello, una sorella, padre o madre, nonno o nonna, e ancora più difficile è affrontare il problema quando i segnali vengono percepiti e la verità rischia di rompere equilibri di affetto e immagine costruiti negli anni. Si ignora perché si desidera farlo, perché è la via più facile e accettabile per tutti. Perfino la vittima tace, anche quando prende coscienza della situazione (e ciò non accade subito, almeno non sempre). La vittima sa che non dovrà parlare, e se lo farà non verrà creduta, e se anche verrò creduta provocherà dolore. Il dolore dei genitori, dei parenti, di chiunque sarà colpito dall'evidenza di un vizio malato difficile da affrontare.
"Se parlo succederanno cose brutte, e sarà tutta colpa mia". "Forse ho sognato e frainteso, forse sono stata io a provocare l'interesse della persona che mi ama tanto e accuserò ingiustamente". Mi sembra di sentire i pensieri di queste vittime silenziose, che strutturano dentro di sè la colpa e la infilano a forza nella propria personalità, tirando fuori la rabbia molto dopo, con manifestazioni che niente hanno a che vedere con il motivo vero. Quello che avrebbe dovuto essere stroncato sul nascere da chi poteva.
Vittima. Povera, triste vittima.
Vittima. Pericolosa, triste vittima.
Mi è stato chiesto cosa mi aspetti da "Diario di melassa", che affronta il disturbo alimentare e la pedofilia. Ho risposto, e rispondo qui ora, che non è altro che un libro. Esistono decine, centinaia di altri libri su questi argomenti: alcuni hanno dentro la verità, cioè l'ambiguità profonda e disperante di chi davvero sa cosa significhi essere vittima, altri sono invenzioni. E' vero però che il silenzio totale che cade, cristallizza tra i lettori alle presentazioni di questo libro in alcuni momenti, e le testimonianze successive, a tu per tu, e le decine di email che ricevo mi regalano la flebile speranza che un libro in più possa servire a aggiungere voce. E' la stessa flebile speranza che ho sentito a Pontedera nell'ottobre 2009, quando ho presentato per la prima volta il libro al Festival organizzato da Librialsole e Tagete Edizioni. Non ho soluzioni, non ho scritto "Diario di melassa" con l'intento di proporne: avevo in mente di raccontare, l'ho fatto. Non aprirò gruppi anti-pedofilia sui social network, non mi sento in grado e avrei sempre la sensazione di essere fraintesa. Sono uno scrittore (anche qui uso il maschile, mi piace di più: è un termine globale, ha dentro uomini e donne) che ha voluto, e vorrà ancora, parlare di pedofilia e incesto. Posso raccontare cosa accada a una donna che ha sofferto pesantemente di binge eating disorder e, forse, conosce le conseguenze torbide della pedofilia. Posso, probabilmente, dire a chi si sente solo che l'aiuto esiste, e funziona. Posso testimoniare che si incontrano persone meravigliose in grado di capire, e persone aride che chiedono la cortesia di evitare alcuni argomenti. Oltre non voglio andare.
Vittima. Cosa è una vittima? E' una bomba inesplosa che ha dentro un buco orrendo, ecco cosa penso. Non merita pietà speciale quando provoca a sua volta dolore, va punita se sbaglia, ma avrebbe potuto ricevere aiuto: se non l'ha avuto forse la colpa è anche mia, vostra, nostra. Per ritornare a qualche paragrafo sopra, dicevo che in teoria la vittima dovrebbe ricevere più affetto e pazienza, ma non lo penso sul serio: di recente qualcuno che mi vuole bene ha detto che in una determinata occasione sono stata trattata malissimo proprio da chi sapeva cosa ho vissuto nel passato, e questo è ingiusto. No, non è ingiusto. Succede e basta. In fondo, è segno di normalità. Non esiste ragione per cui la gente debba usare con me tenerezza quando non ha voglia di farlo. La vita è questa.
Nel vuoto di un treno che corre,
con un compagno di viaggio che non mi piace (non so perché, è ingiusto dirlo:
non russa, non strepita, non sta ore al telefono, eppure non mi piace), lascio
andare le mani sulla tastiera confidando nel silenzio, e l’incipit diventa
“cosa ti aspetti da me?”.
Potrebbe non esserci un seguito.
Potrei lasciare sospesa la domanda e non entrare nel merito, non attribuirla a
un mio moto spontaneo o all’esigenza di un altro, chissà chi, nei miei
confronti. Sono io a aspettarmi qualcosa da qualcuno? Sono altri a farlo con
me? Nel viaggio scialbo verso Milano non trovo la grinta per riflettere, non ho
voglia di ascoltare musica o leggere, ma anche scrivere è difficile. Come se il
silenzio necessario per scrivere non sia gravido di parole, questa volta. Una
sensazione simile a altre, che forse posso ricordare a voce alta.
Capita che osservi
l’allontanamento di amici, e capita che ne soffra: non è piacevole constatare
che alcune persone siano ondivaghe abbastanza da infiammarsi di affetto (o
amore), poi declinare in una sempre più tiepida pazienza fino a trovare altri
fuochi, altri incendi destinati a subire la stessa sorte. Non è piacevole, ma
succede con una frequenza piuttosto alta. Uomini o donne, è uguale: ha ragione
la mia analista quando dice che dovremmo stabilire il destino di una relazione
affettiva osservando il curriculum di chi abbiamo di fronte. Per evitare il
solito, banale can can di allusioni a uomini del mistero avvolti da una nuvola
di fumo, parliamo di donne. Di amiche. Quando un’amica ti si avviluppa addosso,
con molta reciproca soddisfazione, e racconta che la sua amicizia con te ha
provocato il dolore di altre donne, altre amiche che si sentono lasciate al
margine, invece di essere felice dovresti porti alcune domande. Se è incapace
di tenere in piedi più amicizie senza ferirle reciprocamente, cosa farà con me?
Dovrebbe esistere una paratia che si alza automaticamente, ti fa vivere la
relazione con profonda condivisione ma anche un allarme rosso acceso in un
angolo della testa: “attenzione, persona incostante”. Ho avuto la fortuna di
accendere i neuroni su questa consapevolezza qualche tempo fa, prefigurando ciò
che effettivamente poi accadde. Con la gioia nel cuore, posso dire di essermi
salvata: ho assistito rilassata e neanche troppo delusa all’adolescenziale
deriva di un’amica mai cresciuta sul serio. E’ solo un esempio, forse non
utile. Chissà. Perché l’ho detto? Ah, ecco, sono partita dal silenzio non
gravido di parole. Evidentemente non era così: lo era, era gravido e ha avuto
bisogno di una valle di sconforto scriptorio per partorire. Ho paragonato il
silenzio vuoto a ciò che provo in questi giorni nei confronti di dolori ormai
passati, che ogni tanto vogliono rialzare la testa ma si scoprono fuori tempo e
luogo, quasi noiosi. Ci sono volti che, richiamati alla memoria grazie a
automatismi più longevi del sentimento, in teoria dovrebbero muovermi emozioni,
in pratica non riescono a stimolare altro che uno sbadiglio. Che tristezza.
Uno scambio delle ultime ore su
Facebook mi ha mosso pensieri desolanti e desolati sulle banalità che si dicono
a proposito di amore. Mi considero la prima, sono io a stimolare la più infima
banalità: ritorno a casa nel cuore di Roma in piena notte, dopo una sera meravigliosa,
e filosofeggio sul social network senza considerare le reazioni. Dovrei trovare
gli aggeggi elettronici scarichi, quando mi vengono in mente le frasi che
scatenano forum da cioccolatino. Comunque. In uno dei lampi di genio, ho detto
che spesso l’amore patologico (eccessivo) per una sola persona oscura,
cancella, rovina la presa di coscienza di tanti altri amori, magari meno
dirompenti ma drammaticamente importanti. Ho capito però che ogni volta che si
sfiora l’argomento “amore” e si critica in qualche modo l’entità del sentimento
o si stigmatizzano le sue conseguenze, il coro di chi protesta si leva
immediato. L’amore, questo bene assoluto, questa purezza intoccabile,
indicibile, non criticabile! L’amore, che muove la penna ai poeti e agli
scrittori! Macché, togliamo di mezzo queste banalità che io stessa ho
colpevolmente contribuito a alimentare. Non adottiamo assiomi quando si parla
di amore, per pietà. Che l’amore sia meraviglioso in alcune sue fasi, è vero.
Che la sua assenza regali la sensazione di una parte mancante è altrettanto
vero. Ma no, non è vero che tutto ciò che deriva dall’amore sia buono. La distinzione tra amore e
“altro” esiste, ma non ci serve. Possiamo dire che non sia amore ciò che è
patologico: ce la caviamo ipotizzando che sia vero amore solo ciò che è
positivo in ogni propria manifestazione, ma se lo facciamo dobbiamo ammettere
di non tenere conto della realtà. La verità concreta del quotidiano. Siamo
ormai abituati a confondere con l’amore troppi altri sentimenti, e qualche emozione
passeggera: quando la confusione è tanto radicata nel pensiero comune,
puntualizzare aiuta pochi. O nessuno. L’amore, ciò che la media della gente
intende per amore, può fare male: rovinare famiglie, uccidere la fiducia,
diminuire il talento di un artista. Amore, quanto idealismo raccapricciante, in
fondo. Leggete, se avete voglia di volare, “Amore R” di Tiziano Scarpa, Einaudi: è
la migliore e più originale, realistica rappresentazione dell’amore. A me è successo di leggerlo in un periodo della vita drammatico e destinato a cambiarmi: ho trovato il senso vero, quello che pochi hanno il coraggio di guardare e, ancora meno, di raccontare.
E arriviamo alla scrittura,
eccoci lì. La scrittura non ha l’amore come energia di fondo, o meglio: ha
l’amore per la scrittura come parziale energia, ma non altro. Non si scrive per
amore, non si scrive per dolore. Si scrive perché si è scrittura oppure no. Qualcuno dirà che mi smentisco, in
passato ho detto cose diverse. Vero, ma il tempo, lo studio, l’incontro di
persone che della scrittura sanno veramente mi ha svelato aspetti di me (della
scrittura) meno piacevoli da discutere, ma indubbiamente veri. Ho capito che
molte persone non dovrebbero essere pubblicate, perché si può conoscere
sintassi e grammatica e mettere giù una storia gradevole senza essere
scrittori, ho capito che la scrittura, quella vera, è a sé, non ha relazione
con lo stato d’animo e il frangente di vita, non si siede a aspettare quando
arrivano le feste di Natale e si devono avere altre priorità (regali amici casa
albero addobbati pacchetti: sappiate che casa mia è identica a come potete
trovarla in agosto, niente fronzoli che fanno perdere tempo), non dipende
dall’amore o dal dolore. Parlo di narrativa, perché la poesia è altro, tanto
altro da non entrare in questa digressione da freccia rossa fast in ritardo di
venti minuti (il concetto di fast è relativo, come ogni altro concetto). Dovremmo
chiedere a Maeba Sciutti, una delle più grandi, che è poesia vera. Lei potrebbe
dirci se, in termini poetici, sto delirando.
“Ma la scrittura aiuta nei
traumi, nel dolore, nella ripresa dopo una malattia”. Certo, verissimo. La
scrittura è tanto assoluta, piena, enorme e stupenda da salvare psiche e vite. Non
mi stancherò di favorire, esaltare, incitare scritture reattive di persone che
si trovano in frangenti difficili (o drammatici): se la creatività può aiutare,
se può lenire, anestetizzare, esprimere, sfogare un grande dolore mi ha al
proprio fianco per raggiungere ogni angolo del pianeta e muovere i
traumatizzati a una resurrezione. Tuttavia, nel grande mare di scrittori “per
reazione” continuerò a operare distinzioni, cercando la perla, l’elemento raro,
il talento assoluto, dando per scontato che non tutto sia davvero di valore.
Valore scriptorio, non altro valore. La buona notizia però è che, come ogni
altro essere, anche la scrittura può cambiare, evolvere e migliorare. Può
nascere da un abbozzo informe e farsi opera d’arte. Grazie all’esercizio
costante (sì, anche durante le feste natalizie, lasciando al margine i
pacchetti da confezionare), alla lettura di altri autori e alla critica, al
confronto. E all’apertura della mente. Giorni fa, ero da qualche parte a una
certa presentazione. Tra le varie baggianate ho sentito che “la scrittura deve
comunicare valori, positività, relazioni solo e sempre basate sull’importanza
insostituibile della famiglia, degli affetti veri”, eccetera. No, cara collega
alla prima opera: la scrittura è scrittura, non comunica necessariamente e non
è etica. E’ come un quadro: bello in sé oppure no. Poi. Se esistono scrittori
che sentono il dovere morale di comunicare valori alti (quello della famiglia
fa tanto grotta di Betlemme: vero, indiscutibile, ma serve proprio ribadirlo
ogni istante nella speranza che diventi assoluto?), meglio così. Che la
scrittura incida davvero sul livello culturale di un popolo, che muova le
coscienze, che insinui il germe del confronto pacifico e della non violenza!
Magari fosse. Sogno che si smetta di vedere il sangue, fingersi inorriditi e,
nello stesso momento, suscitare violenza fingendo di essere inconsapevoli del
proprio ruolo nella società. Sogno che l’esempio, l’unica cosa che conta al di
là delle parole, faccia scattare un’emulazione finalmente intelligente,
finalmente vuota di gesti e pensieri di brutale e ignorantissima violenza.
Violenza. Non è solo una
statuetta lanciata in faccia a un uomo, qualsiasi uomo, o a un’istituzione (ci
si pensa, a questo? Qualunque sia il voto che dai alle elezioni, mio lettore,
hai pensato al fatto che in piazza Duomo si è ferita un’istituzione, piaccia o
meno? Sai che a me fa impressione che un’istituzione, anche quando non è vicina
alle mie idee – e non sai se lo sia o meno, mi rifiuto di dire quali siano, le
mie idee politiche, non è rilevante – andrebbe rispettata nell’interesse di
tutti, e della pace sociale?). E’ anche il pettegolezzo storto, è la lite per
il primo o secondo posto a un premio piazzata sui giornali e non sapientemente
sdrammatizzata da chi potrebbe farlo, è la frase idiota detta a una donna (o un
uomo) per interrompere una relazione, è il piccolo dispetto di cui, siamo
certi, nessuno si accorgerà, che si gonfia invece a dismisura e va a finire in
un lago di orrore. Violenza, tutto lì. Che banalità.
Giorni fa ho avuto uno scambio
bellissimo di posta con un amico. Non violenza, ecco l’argomento. Grazie, a
quell’amico. Con il suo fare schivo e timido, affermazioni perentorie e severe
e un sorriso da sciogliermi riesce a scolpire ricordi perfetti. Mi ha ricordato
chi sono meglio di quanto abbiano fatto decine di altri, negli ultimi anni. Non
violenza, o almeno ci provo. Non taccio più, non misuro e nemmeno peso le frasi
con una ritrosia che finora ha solo danneggiato la stima di me, esco libera e a
volte troppo sciolta ma rifiuto la violenza, in ogni caso. Che mi si lasci
dire, come lascio dire agli altri, ma non si prendano le parole come pretesti
per cadere in un modo di vivere che non mi appartiene. Libertà di espressione,
niente censura e non violenza. Ecco ciò che sono o tento di essere. Con molti
errori, certo.
Cosa ti aspetti da me?
Uffa, non ho affrontato
l’argomento. Ho buttato lì la
domanda e l’ho lasciata a metà. Abbiate pazienza: sono su un treno, la testa è
vuota. Qualcosa accadrà.
C'è la volta in cui ti siedi e hai tutto in testa. Tutto, insomma, più o meno: hai l'idea della scrittura, un abbozzo di impressione o trama, un'intuizione piovuta chissà da dove che non si cancella, non va più via. Oppure è capitato che la storia ti sia venuta in mente e le mani stuzzichino il bisogno, si muovano da sole nell'attesa di tirare fuori le parole. Poi. C'è la volta in cui hai il vuoto in testa, e mai penseresti di scrivere. Ti succede solo all'inizio, però, di percepire il vuoto e pensare che non scriverai, perché quando diventi un po' furbo, e l'esperienza si accumula sulle spalle e nei pensieri, capisci che il silenzio è denso di parole. E ti siedi, anche in quel caso, consapevole che qualcosa verrà fuori.
Come adesso. Ho ricevuto un messaggio di posta elettronica che chiedeva una correzione per un pdf, un articolo da rivedere con la solita, notissima urgenza.Quando lo schermo è diventato bianco e l'articolo in pdf è ripartito per destinazione diversa, la calma ha tirato fuori la voglia di scrivere. Ho trascorso ore, oggi, su un capitolo del romanzo che da ieri è lì che si cucina: lungo, breve, intenso o scipito, non ne vengo a capo. E questa sera, molle della decisione di non intestardirmi per evitare di sciupare tutto (che brivido chi rivede un manoscritto in pochi giorni), ero tentata dalla lettura di tre o quattro libri portati a casa da Equilibri di via Farneti, la libreria di Milano dove mi sento a casa. Invece. Sono qui e scrivo, mi fotografo, dipingo, ritraggo, specchiata nello schermo grande del computer con riflessioni e ricordi recenti che non voglio condividere. Forse.
Non mi aspettavo una giornata così. Non immaginavo la gioia, le telefonate e l'amore. Non aspettavo la nostalgia e la rabbia, credevo avrei solo mangiato chilometri tra Milano e Pisa e ritorno, visitato persone e rimuginato un po' al tempo della musica mp3 attaccata al cavo nero che entra nel cruscotto. Invece il viaggio è stato un volo lieve, il rumore dell'autostrada che strinava le ruote si è diluito in decine di messaggi e chiamate e novità. Novità. Da poco, per chi si desse la pena di ascoltare. Da molto, per me che non ho l'intenzione di condividere. Non questo, non ora.
Poi. Questa sera, arrivata a Milano, ho fotografato il Duomo. Ho escluso l'albero di Natale dalla fotografia perché era eccessivo, troppa luce troppa gioia troppo tutto. E fotografato il Duomo. Chissà perché, di tanti ricordi remoti e recenti uno solo ritorna cattivo e tagliente: quello di una sera, al termine di un incontro d'amore, una passeggiata da sola con la nostalgia di lui. Fa male il ricordo quando tutto finisce, fa male soprattutto sapere come sia finita. Perché non credo che sia indifferente, il modo in cui una storia finisce. Eppure, nella mia sera di passi e squilli continui del telefono piatto intasato di sms, il male non c'era, non per lui. Non per l'uomo del ricordo di piazza Duomo. Difficile da spiegare, e non spiegherò. Dovrei dire che poi, ore dopo, ho letto un articolo in cui qualcuno racconta di sè: quel sè che conosco e ho amato, anche quello, un sè fuggito perché "sono un pensiero troppo forte".
Un pensiero troppo forte. Una donna impegnativa. Ormai lo dico da sola, davanti allo specchio: non sono come il colore nero, che è elegante e non impegna, mi sento un rosso vivo che offende, eccita, tortura, ripugna. Il rosso della passione e dell'eccesso, del sesso che butta fuori le lenzuola dal letto, dell'odore di corpo e profumo e sudore, della passione che sradica e non trova requie e della gelosia tremenda, del gesto urlato per strappare lacerazioni gementi e degli abbandoni brutali, che offendono il pensiero di essere stati vivi. Rosso, il rossetto che porto in borsa e tiro fuori solo nel tardo pomeriggio. Rosso, il colore che secondo l'uomo per cui sono diventata un pensiero troppo forte mi dona. Rosso, il furore accecante del 2009 che ha cambiato tutto. Tutto nella mia testa, e nel teatro rutilante della vita. Rosso, è il lampo che vedo quando mi guardi da lontano, e sorridi trattenuto perché non ti aspettavi che ci fossi. Rosso, la voglia di sentire l'odore della tua pelle quando mi avvicino per il solito bacio cortese, urbano, amichevole. Rosso, il desiderio feroce quando ti vedo timido e muto, serio e severo. E sussurro: "Frena l'entusiasmo".
Rosso. Come l'sms arrivato adesso, strappandomi una risata. Perché l'uomo per cui sono un pensiero troppo forte ha vibrisse da primo amore, sente il mio desiderio deviare e, da lontano, recupera metri nel ricordo, rosso, delle notti prima delle streghe. La strega delle mie notti, finché non sono stata troppo "forte".
Rido. Ho scritto dal vuoto in testa, dal silenzio dopo un pdf corretto e rispedito. Andrò a toccare i libri, adesso. E, con la penna in mano, scriverò appunti che un giorno diventeranno qualcosa.
Rosso, per una notte con l'unica quiete che conosco.
Possibile che sia grigia, sempre grigia e densa di gasolio? Si arriva e ci si immerge, si cala in una pozza di fango melmoso e viscido, triste come la morte prolungata e attesa. Desiderata, quasi. Ci si stringe nei vestiti come in una muta, si indossano occhiali e si trattiene il fiato per saltare, se si può. L'impatto è noioso e soffice, un male piccolo ma necessario; il fango torbido si muove appena, scivola addosso e lascia impronte di carezze senza poesia. Carezze che rimangono, se ci fai caso. I palazzi sfilano con la tangenziale al collo, gli alberi di un verde stupito, attonito, si piegano all'aria asfittica di un vento remoto e scialbo.
Milano. A volte chiudo gli occhi quando il treno entra in città, fingo di non vedere la periferia e le strade dove automobili lucide con le righe sui fianchi si affannano ai semafori e tentano di evitare le telecamere. Osservo i volti ignoti nelle case. Li sogno indaffarati dietro a spese che potrebbero evitare, a cene del sabato sera con amici o pizza portata a casa e preparativi per il Natale sotto le insegne ancora buie. Chiudo gli occhi, li riapro e telefono a qualcuno, voci che mi danno la gioia di arrivare. Li ascolto, trovo una ragione per scendere dal treno e cercare un taxi. Arrivo da altri posti, altre città piene di luci e abbracci caldi, e serate lunghe che finiscono in mattine precoci di scrittura e pezzi di illusione. Arrivo, e spalanco le palpebre per cercare amore rosso in teatri grigi.
Non ho patria, non riesco ad averla. Eppure la città tesa e veloce di grigio soffocante assomiglia a una patria, quando vuole. Ci sono pomeriggi tardivi di camminate a gamba tesa, respiro lungo e libero e mostre e libri: mi sento vicina a casa, in quelle ore. Stringo le mani di amici e ascolto, rido. Parlo di ciò che so, non fingo se non conosco: lo fanni tanti, millantano letture e cultura e conoscenza, il prurito che stuzzica le mani contro i guanti è abitudine che ho imparato a dominare.
Milano. E' la città della finzione e dei sorrisi piccoli e civili, dell'entusiasmo trattenuto e del sesso storto, fosco e passionale dietro cortine di pizzo e lampade che basta un pulsante e cambiano colore. Le strade mi guidano nel diluvio di negozi troppo ricchi e vuoti, opportunità nel palmo delle mani e tram lunghi che bloccano gli incroci. Guardo il Duomo e la Galleria, mi succede spesso di cercare tracce delle gite con mio padre: arrivavo dal paese, mi portava in cima alle guglie e guardavamo giù. Credo fossero i mercoledì in cui la scuola finiva presto. Pensavo a come fosse un volo da quelle guglie, la piazza era il mare e il tuffo un desiderio libero di bambina che già odiava le catene. Mi è successo di entrare in Duomo e cercare il parroco del mio paese, che abita là, adesso. L'ho visto in un confessionale e mi sono avvicinata, mi ha riconosciuta da lontano e ha sorriso come ricordavo.
- Non sorridere troppo, sei in chiesa.
Ha detto, ma rideva, e ha messo una mano sulla mia fronte e ascoltato la vita.
Girgio. Possibile che sia sempre così grigia, la città dove ritorno? Un bozzolo di crisalidi che nascono colte e spente, una fornace di opportunità che pochi riescono a capire. Perché dormono, serrano le palpebre per non guardare la fredda nebbia di catrame e i passi sempre rapidi, sempre sulla via più breve per chiudere porte blindate e lasciare fuori il mondo. Si scrive e non si legge, i quadri appesi a pareti uniche sono impegni che arrivano dopo, solo dopo. Sempre dopo. Si va alle mostre per raccontarlo agli altri, si prenotano i posti per evitare la coda, perché ogni confusione è nemica della fretta. Qualcuno evita l'affanno e mi chiede di mandargli il catalogo: basta quello, la mostra è tutta lì; esco dai corridoi dove ho socchiuso gli occhi e mi sono persa di emozione e mi carico di pagine pesanti rilegate a colla che dovrò spedire. "Ma sai, non ho tempo, ho altro da fare. L'anno prossimo, tra sei mesi, nella futura vita". Penso alle mie ore dense di ambulatori e scrittura e voci, volti da tenere insieme e rido, dentro. Quando vorrei piangere. Perché il tempo, se vuoi, lo trovi, si tratta solo di agire di scalpello e non capitolare del tutto. Però. Ci sono i party di Natale, iniziano a novembre e riuniscono tacchi a gamba nuda e pedicure costose a opere pie stringate di salotti vip e calici traboccanti champagne benefico. Si inaugura e chiude, si cena in piedi fumando fuori dalla finestra e si presentano libri ai volti, sempre quelli, che alzano gli occhi dall'ombelico per leggere altre scritture. I taxi aspettano sulle piazze e nelle vie, si lamentano per la crisi e non riducono le tariffe. Qualcuno litiga per il turno, uomini eleganti con la ventiquattrore non cedono il posto e donne alte su tacchi a punta inforcano portiere commentando attese di scarsi, eterni, inaccettabili minuti.
Eppure. Ho visto stazioni e monumenti e gente. Ho altre città, che non sono patria, non sono riuscite a esserlo, ma allargano le braccia quando arrivo. Ho la luce di un sole che piove solo altrove a scintillare le serate di terrazze romane, musei fiorentini che riempiono la giornata e maledizione veneziana di canali nascosti d'amore. Ho vita che scivola nelle dita e gonfia la testa di emozione. Ricca, l'emozione che spinge le mani a scrivere. Riconosco i colori, ho nel naso e nella carne i profumi che mangio senza doverli spiegare.
Milano. C'è stato un tempo in cui ho odiato ritornare. Ho dovuto accorgermi che le parole uscivano fluide e quiete, continue e appassionate; la nebbia, piano, ha avvolto le mie angosce e restituito sorrisi persi, o solo dimenticati. Le storie escono a fiumi voraci nel silenzio, lontane da grovigli di passione e tormento che sono schermi, cumuli di piombo per i passi che sognano leggerezza. Non credo che potrò spiegare dove e come ho scoperto il nucleo di amore che fa della melassa viscida del grigio odiato una coperta morbida cui non rinuncio più: sono le passeggiate da sola nel centro che così bello non è mai stato, gli appuntamenti pieni che riempiono l'agenda di libri, libri e libri, gli amici veri che, nell'anno più tremendo e strano della vita, hanno detto "Perchè non resti qui?". E' il senso dell'appartenere, dettaglio che mancava e ora appare, nitido e tranquillo, in un'assenza di enfasi eccessiva. Che, finalmente, è medicina.
Mi siedo in mezzo a un tram, a volte, e lascio che mi porti dove non so. Corpi sfiorano la mia spalla ferma, case e strade e parchi ordinati con i cespugli e i fiori riempiono la vista. Ascolto parole e le ricordo, le fermo sul taccuino e le mastico a lungo, dopo, nei racconti che non sempre pubblico nel blog. Capisco la vita, e il mio errore. A lungo sono fuggita, e fuggirò ancora, perché le catene che non potevo sopportare erano persone e non città. Stringevo mani e permettevo che fermassero il sogno di un volo solo mio. Non era Milano la melma grigia che sporcava i miei vestiti, e non erano Roma o Firenze o Venezia o Napoli a ripulirmi. Erano voci che creavo e dipingevo con la fantasia, e collocavo dove mi piaceva. Peccato. Sì, peccato. Che per troppi anni abbia avuto paura di ammettere che esistono uomini e donne sbagliati per me, e scelte che non avrei dovuto fare.
Milano. Grigia e fumosa. Sa di gasolio. Ma è la mia coperta calda, adesso. Mi ha insegnato che tradimento, bugia, finzione e crudeltà pensate e agite per opportunismo e soldi, soldi, soldi appartengono agli uomini, non ai palazzi che incombono nella nebbia. Milano, non è patria ma assomiglia a un nido dove scrivere, nella danza di fughe cui non posso rinunciare. E a mani piene offre occasioni che solo gli stupidi non sanno cogliere.
Vediamo cosa viene fuori. Mi sono seduta, ho acceso il computer per rispondere alla posta di oggi (rispondo a tutti, o quasi), poi ho pensato di scrivere altro qui nel blog.
Ho lasciato da poco IEO, salutando un'amica molto bella che, come un fungo raro e prezioso, è saltata fuori da qualche tempo e mi ha arricchito la vita, e ho guidato fino a casa. Pochi chilometri, con la testa a puzzle sul viaggio di domani a Livorno (venerdì sarò a un congresso e parlerò di diritti del malato oncologico), su due o tre persone con problemi particolari visitate questo pomeriggio, sul mio esofago in fiamme da questa mattina e sulle lettere che sto ricevendo negli ultimi giorni. Perché mi scrivete, e mi stupisco. E sono contenta e curiosa.
Sono contenta perché mi piace lo scambio, mi piace chi parla invece di restare in silenzio. Niente a che fare con la caciara, quella va bene per le serate su di giri insieme alle amiche; alludo al dialogo, alle parole messe una dietro l'altra per dire, spiegare, chiedere e capire. Chi mi conosce sa che soffro molto quando qualcuno si sottrae al confronto e al dialogo: tacere quando si può invece parlare (o scrivere) è per me una specie di ferita, a volte anche un'offesa. E' illogico, va contro l'intelligenza, ma accade. Si tace, e si lascia intendere. Accettando il rischio che l'altro capisca il contrario o interpreti male. Insomma, si buttano via occasioni. Comunque, ritorniamo alla posta che ricevo. Una donna che scrive racconti erotici ha detto in una lettera lunga e interessante che le sembro equilibrata e calma, nonostante scriva erotismo e faccia intuire tristezza e una vita sessuale tumultuosa: pacatezza, calma, equilibrio, tutto vero. E' ciò che spesso si percepisce di me. Credo siano tutti aspetti reali della mia personalità, altrimenti non saprei mostrarli sul serio. Mi aiuta la professione medica, credo: è difficile pensare di lasciare andare, di esprimere le insicurezze e il pathos quando si ha a che fare con la malattia seria, pericolosa e traumatica di tante persone. Il medico dovrebbe essere pacato e rassicurante con me, quindi voglio a mia volta rassicurare. Senza fingere, con la genuina serenità che so trovare dentro di me. Perché esiste. Con chi amo, con gli amici penso di essere calma e rassicurante, in molte occasioni. Certo, cara scrittrice erotica che mi ha mandato una lettera bellissima, qualcun altro ti direbbe che è vero il contrario: sono esplosiva e umorale e ho davvero, come dici tu, una vita tumultuosa. Vero, vero anche questo. E' la doppia identità cui alludo, più o meno, nell'intervista rilasciata a Gian Paolo Grattarola e pubblicata su Mangialibri. E, a proposito, ecco un'altra brevissima lettera, di un uomo che conosco e mi piace molto (anche se tace troppo, deludendomi): dice che la fotografia di Mangialibri è sdrucita (l'avevo definita io così), ma esprime dolcezza e insicurezza. Eh, sì. Le fotografie non mentono. Dolcezza (nascosta bene) e insicurezza (nascosta mica tanto). Hai ragione, caro e silenzioso potenziale amico.
Andiamo sull'erotico. Ho ricevuto qualche email particolarmente ispirata in questo senso. Mi sono divertita. L'equivalenza tra scrittura erotica, cioé scrittura di qualche racconto erotico, e disponibilità non vale, sapete? Come spiegavo a un interlocutore galante il cui viso non conosco, i partner non si cercano, si trovano. Scrivere erotismo non implica la ricerca di un uomo, una donna, una coppia, un trans. Insomma, non implica la ricerca del partner sessuale di una notte o una vita. Scrivere è scrivere, e basta. Perché io scriva erotismo è impossibile da dire, la scrittura non va spiegata. E', e basta. La dovizia di particolari con cui un lettore, che si firma con nome e cognome (corrispondono anche nell'indirizzo email quindi li prendo per veri) descrive ciò che vorrebbe farmi mi fa sorridere, ma senza ironia: mi sono veramente divertita, è stato molto simpatico, chissà se la sue proposte mi piacciono oppure no, non è importante. Certo, ricevere una lettera così può lusingare, ma quando è il primo approccio in assoluto, senza un preambolo o un preliminare non erotico, è un po' difficile lasciarsi affascinare. Un uomo che scrive a una donna "ti farei così e cosà", con i termini più espliciti e chiari per posizionare anatomicamente i gesti immaginati, sta senza dubbio scherzando, allora rido insieme a lui. Chapeau, ardito interlocutore con nome e cognome. Altro lettore, altra lettera: che poesia l'uomo che mi manda pezzi musicali perché mi ispiri quando scrivo! Grazie, la musica mi stacca dal contesto e trascina via, riesce a crearmi e farmi creare.
Creare. Tre lettori chiedono come abbia scoperto la scrittura, come sia arrivata a pubblicare. Non voglio evitare l'argomento, ma credo che l'intervista pubblicata su Mangialibri sia molto chiara. Gian Paolo Grattarola ha posto domande interessanti e puntuali. Aggiungo solo che scrivere, scrivere, scrivere è un segreto di Pulcinella che vale in ogni caso: la scrittura pretende e ruba, ma regala anche tanto. Va esercitata e limata, piegata, ristretta oppure sviluppata. E la lettura, anche, è un altro segreto che credevo scontato, invece va ripetuto, ribadito ogni volta che si può: leggere arricchisce lo stile e l'anima, non potrei concepire una vita senza lettura. Una gentile lettrice insinua che il mio stile sia imitato da altri scrittori: può darsi, anzi sì, è vero, ed è vero anche, come tu dici, che qualcuno imita le fotografie (posa, luce, dettagli), il modo di parlare, perfino il mio feticismo del piede ormai arcinoto, con la passione assoluta per manicure e pedicure perfette. Vedo tutto, le vibrazioni del mio corpo ormai sono chiare, le so leggere e interpretare. So moltissimo, anche quando fingo di no. So l'invidia, la fuga di chi ha paura del mio carattere mutevole (sono una donna "impegnativa", pare), so il pettegolezzo, l'amore e il disamore. So chi mi ha usata, purtroppo. E so l'imitazione. Non ha importanza, chissà quante volte sono stata io a imitare qualcuno senza rendermi conto! Cara amica, da anni lavoro con uno scienziato che è genio assoluto: lo imitano in tanti, ma l'originale è irripetibile. Io genio non sono, ma alcuni tratti della mia follia possono essere scimmiottati o resi migliori da altri, chissà, ma mai riprodotti uguali. Inoltre, l'imitazione si percepisce. Come l'hai percepita tu.
Mi scrivono molte donne che mi conoscono in IEO. A loro devo gratitudine perché mi insegnano a vivere. Detesto la retorica: alcune di loro sono simpatiche, altre irascibili, rissose, fredde oppure scostanti, ma tutte sanno che esistono segreti nel fondo dell'esistenza. Li hanno toccati quando hanno conosciuto la malattia, e sanno che riesco a vederli, quei segreti. Grazie anche all'uomo molto "importante" che mi ha lasciato una lettera sulla scrivania in IEO: ha parlato di "Diario di melassa" e mi ha commossa. Ogni tanto prendo penna e carta da lettere, inizio e lascio lì. Vorrei rispondere a quella bellissima lettera, dire che ci sono sorprese, parole scritte inattese che danno senso a tutto. Ma sono sicura che lo sappia.
Andiamo alle critiche. Sono istrionica, ho un ego enorme, dice un anonimo. E' vero, sono scrittore quindi devo essere così. Non credere mai, amico anonimo, alla mite ritrosia dell'autore: scrivere e pubblicare è esporsi, si accetta di farlo senza una pistola puntata alla tempia quindi qualcosa nella psiche lo rende possibile. E desiderabile. Non credere all'umiltà, è l'atteggiamento più millantato in assoluto. Tra gli scrittori, poi... Devo ancora incontrare una persona realmente capace di umiltà. Anzi, non è vero: una la conosco, è il medico più colto che conosca, ed è donna. Lavora all'Istituto dei Tumori di Milano. Non vado oltre perché non gradirebbe: è, appunto, realmente umile d'animo nonostante la genialità.
Bene, mi sono sciolta in frasi e parole. E' stato bello. Non ho esaurito la corrispondenza, chissà che non ritorni a parlare con i miei amici di penna qui nel blog. Vi saluto e passo ad altro, e preparo una piccola valigia per la partenza, domani.
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