racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
Fa un po' impressione. Sto cercando frasi adatte e non le trovo. Questo blog è la storia del mio rapporto con i lettori, è stato l'inizio della parte della mia scrittura condivisa con la gente. Mi ha portato i primi contatti con gli editori e relazioni umane che vanno oltre e al di là dei libri. E' più di uno spazio, più di un giornale online: è luogo di scambio, scoperta e discussione continua. E adesso trasloca. Nella rivoluzione dei quarant'anni e della vita, metto in valigia quattro cose e parto.
Da oggi, niente più post in questo blog: con i miei racconti, con i pezzi di parole e i libri, e le fotografie, vado nel nuovo sito internet. Proseguo il cammino là, questo è l'indirizzo:
Vi aspetto nel sito internet, quindi, basta fare click e memorizzare quell'indirizzo: pubblicherò là, nella sezione blog, tutto ciò che di nuovo mi verrà da scrivere, e potrete lasciare commenti esattamente come avete fatto qui.
Siamo ridicoli, è bene che tu lo sappia. Il peso della consapevolezza non deve ricadere solo sulle mie spalle: se si fa a metà non c'è sollievo, ma almeno non esiste il rischio teorico dell'ingiustizia. Equità, suvvia! Siamo ridicoli, sta tutto lì. Conosco il brivido subdolo del barlume di dubbio, e mi viene da ridere: sto contando a voce bassa i volti e i nomi che in questo momento, leggendo, indicano se stessi con un dito. "Parlerà con me?", anzi, chiedo scusa: "Parlerà di me?". Perché un certo gruppo di affezionati o saltuari lettori di questo blog cerca se stesso (o se stessa) nelle parole che vernicio ogni giorno, e non sempre c'è paura. Il paradosso della scrittura è che, in fondo, si desidera essere presenti. Il fascino irresistibile della menzione pubblica, con la mano di uno scrittore a cesellare identità che tanti scrutano. Perché anche nella critica o nella rabbia si è. Si è qualcosa per chi scrive, capite? Se uno scrittore si affanna a definirmi sbagliata, antipatica, piazzista di libri, becera e bulimica significa che mi pensa! Mi ha in testa! Creo invidia o faccio paura, o suscito rabbia fremente che è parente dell'amore. In un blog può anche essere esercizio da niente (per me non lo è: prendo seriamente il blog almeno quanto i libri che scrivo, ma non per tutti è così), ma se la dotta e malevola citazione si trova in un libro l'orgasmo è immediato. Almeno per me. Certo, la medesima regola si applica al mio scrivere. Oh, quanti mesi ho regalato a pensieri e gente inutili! Quante frasi e righe e paragrafi! Per niente! Dentro di me avevo la percezione esatta della forza storta di cui nutrivo persone che, poi, mi sono apparse nella loro verità. Cioé brutte.
A proposito di bruttezza. Questa sera, nelle vie fredde ma almeno non piovose di Padova, camminavo spavalda e, con il mezzo sorriso stampato sul trucco ibernato dalla passeggiata, pensavo. A cose varie, niente di drammaticamente importante: constatavo di essere serena. Appagata da una scelta leggera di assenza che è arrivata spontanea, come il silenzio che per ore ho desiderato senza ottenerlo e mi è nevicato addosso al termine della conferenza su creatività e dolore. Ho fatto pulizia senza troppo sforzo, mi rendevo conto che i movimenti erano più agili e liberi. "Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora", avrebbe detto il Sassaroli nella gigantesca e tragica opera d'arte di "Amici miei": i tre quarti d'ora sono trascorsi e il respiro è fresco e ampio. Insomma, non divaghiamo. Ero nelle vie di Padova e stavo bene come adesso. Ho incontrato un uomo che non conoscevo: fisicamente, nel buio, assomigliava a un altro che nel passato ho ricoperto di importanza eccessiva. Ho guardato la somiglianza falsata dalle tenebre e mi è venuto da ridere. L'altra faccia, quella del ricordo, mi è apparsa brutta. Ma brutta sul serio, per la prima volta. E mi è venuto da ridere. "Ma quanto eri brutto?", ho chiesto all'ombra spuntata fuori senza pathos né emozione, e ho accettato placidamente che lo stesso si dica di me, se si vuole. Niente di male nell'essere considerati brutti, in fondo. Se fossi amorfa mi seccherebbe, ma brutta può andare bene. A patto che si capisca che bruttezza e bellezza raramente sono universali, ma a rendere relativo l'eventuale concetto di mia bruttezza per fortuna esistono i cosiddetti rinforzi positivi, cioè i messaggi di chi mi ama e ritiene, senza mentire, che per lui/lei io sia bella. Sono certa che anche l'uomo che ho evocato nella notte padovana grazie a un volto visto di sfuggita sia meraviglioso per qualcuno, lo è stato anche per me in un tempo che adesso faccio fatica a mettere insieme in un sospiro.
Sospiri. Ne ho sentiti tanti oggi. L'incontro con l'università popolare su creatività e dolore ha portato emozione. Tanta emozione, anche a me. Ho superato la pigrizia della lettura pubblica e condiviso brani dalle memorie intime di Simenon, da libri di Tiziano Scarpa (ma sì, dai, fate il commentino e tirate avanti: la scrittura di Scarpa mi piace e lo dico fino alla vostra noia; il blog è mio e andrò avanti finché ne avrò voglia), "Diario di melassa", "Una storia ai delfini" (la prefazione di Veronesi) e "Le parole del buio", il diario di Virginia Woolf. E ancora, "Rendez-vous", "Niente di grave", "Ho il cancro e non ho l'abito adatto". Stuzzicando la mia fantasia (forse anche quella di altri presenti in sala, non saprei dirlo) con Hopper, Picasso nel suo periodo blu, Van Gogh e Munch. Abbiamo discusso di dolore e amore, e scrittura, e riflettuto sull'importanza drammatica dei saggi, i libri che possono creare una differenza nella cultura della gente. A proposito di cultura, sapete che cultura è vita? I dati statistici dicono che chi si ammala di tumore ha una probabilità maggiore di guarire se ha un livello culturale alto. Alt, fermi: ho detto livello culturale, NON economico! Significa che chi ha gli strumenti culturali per informarsi e scegliere criticamente le cure fa qualcosa di buono per sé.
Fare qualcosa di buono per sè. Non so voi, care amiche lettrici, ma questo compleanno che mi galoppa addosso crea riflessioni da "i miei primi quarant'anni". Non è che mi piaccia troppo, ma serve. Un assioma: le amiche che hanno vissuto i quaranta e oltre dicono che "adesso inizia il bello", e tutto sommato, se considero la luce e non le ombre che popolano la vita di ciascuno indipendentemente dall'età, posso crederci. Il bello dovrebbe essere un amore per sé finalmente scoperto e reso saldo. Anche nel mezzo di difficoltà e, talvolta, vere e proprie tragedie. Oppure in mezzo ai soliti problemucci di sesso e relazioni altalenanti o solo immaginate. L'amore di sè, fare qualcosa di buono per sè. Rinunciare, per esempio. Udite, udite! La Luini finalmente proclama qualche rinuncia! Temo di sì, ma non la rinuncia alla scrittura e neanche a relazioni e affetti che ritengo meravigliosi, e non rinuncio, sappiate, a qualche abitudine privata che mi rende ciò che sono. Rinuncio all'autolesionismo. A quella spinta orribile nata con me, più o meno, che ha fatto di tanti miei anni un cumulo di tortuose, complicatissime salite con poche radure e quasi nessuna tappa di vero e gratuito refrigerio. Ho sempre pagato tutto, chiunque mi conosca bene lo sa. Pago ogni singolo piacere a prezzo tremendamente alto, sono diventata una bestia feroce perché ho dovuto affrontare ogni genere di ostacolo occulto o palese per raggiungere quello che ho. Ma. In parte ho anche camminato a passi più pesanti perché io stessa appoggiavo alle caviglie una zavorra inutile. Ostinata e convinta della mia potenziale onnipotenza, ero la nemica più sottile di me stessa. Bene, questo non cambia con un compleanno, è già cambiato: la data del 21 febbraio sancirà solo il passaggio ufficiale. Come il capodanno appena trascorso: gli amici più intimi sanno che da mesi preparavo, lentamente, alcune espulsioni da celebrare nell'istante di passaggio tra il 31 dicembre e il primo gennaio 2010. Macinavo pensieri e altalenanti serenità, parlavo o tacevo, ma quelle espulsioni avevano un timer che, effettivamente, è scattato inesorabile e ha funzionato. Intorno a Saturno abbiamo qualche anello in più, ho spedito in orbita perenne persone che ormai erano solo dolore e ostacolo, e credetemi se dico che sono davvero uscite dal mio cuore nel rapido cambiare della data. Quindi. Niente svolte epocali, a meno che non siano preparate da un cammino paziente e lucido. Ciò che accade ora. Ho qualcosa da fare, ancora. Avrò sempre qualcosa da fare nella mia eternità. La tappa dei quarant'anni è fare qualcosa per me, abbandonare l'autolesionismo. E smettere di accettare situazioni da fumetto di serie zeta. Amen.
Oh, che peso questa Luini! Ma no dai, la realtà è luminosa e serena. Qualcuno ride leggendo "luminosa e serena", ma sbaglia: se la luce si accende in testa, o in un posto interno del corpo a vostra scelta, già molto è stato ottenuto.
Mi sento un predicatore americano. Alzate le mani e cantate con me. Nel tocco della pelle con la pelle la piccola scarica di adrenalina sarà sensuale, credetemi. Guardate i miei occhi, lo sguardo è per voi. Sensualità e affetto, perché penso a voi che leggete e non sempre mi siete noti. Quando vedo il numero di letture di questo blog mi emoziono, e quando qualcuno si ferma e mi tocca la spalla e sussurra "Lei è la scrittrice del blog, vero?" (come è accaduto martedì scorso) ho la nettissima sicurezza di amare. Amo gli occhi che leggono, le mani che commentano e quelle che invece restano ferme accanto alla tastiera del computer, amo chi fa finta di non leggermi e ritorna a dare un'occhiata simulando disinteresse, amo chi si chiede se la mia vita sia quella che si legge qui oppure sia completamente diversa, amo chi si manifesta e chi no. Amo chi ispira i miei racconti: suscita emozioni fortissime, lo dicevo qualche paragrafo sopra, e non solo la rabbia. C'è chi ispira racconti negativi, chi ispira erotismo, chi ispira o ha ispirato amore. O tutto questo insieme. C'è la mia amica Simona, parte di me, che si è chiesta perché non l'abbia mai nominata nei miei scritti: non capisci che sei in ognuna delle parole? Non capisci perché sono diventata ciò che sono anche in ambito medico? Credi davvero che sia stato solo per quel ricordo drammatico che abbiamo condiviso? Secondo te non ho temuto per altri, non ho pianto, sperato, tremato, pregato? Simona, sei qui adesso ma non serviva che ti menzionassi. La natura di noi è fusa nelle mie parole.
Uh, quanta roba. Raffiche di follie e aliti di niente. Cielo! E tutto è partito da cosa? Ah, certo. Dal fatto che siamo ridicoli. Parlo di te, vedi? So che hai letto fino in fondo, adesso sei fermo su queste sillabe che si rincorrono una a una. Nella tua testa hai costruito spiegazioni plausibili per la nostra ridicolaggine, e sono costretta a deluderti: non è così complicato. Siamo ridicoli come tanti altri: sono stata ridicola così con altre persone che, come te, mi sono piaciute molto. Abbiamo messo in atto l'unica forma di stupidità possibile per gente come noi. Non abbiamo avuto la lealtà e il coraggio di parlarci. Sottovalutando la reciproca intelligenza e, anche, sminuendoci un po'. Che peccato. E' come morire senza avere visto il mare.
Il caldo appiccica i vestiti alla pelle, stropiccia le guance con le mani per il contrasto con l'aria gelida che la colpisce ogni volta che si sporge.
- Sto sudando.
Raffaella ride.
- Come è possibile? Ci sono due gradi, a me sembra di essere in freezer.
- Mi sono vestita troppo. Ho il volto ghiacciato e il resto del corpo avvolto da un incendio. Detesto essere sudata, voglio che i vestiti mi scricchiolino addosso secchi e morbidi. Mi hai costretta a mettere questo piumino da alta montagna, non so più come fare entrare un refolo di aria. Sto soffocando.
- Esagerata. A parte che un vestito secco e morbido insieme non esiste, la stai mettendo giù dura. Non puoi soffocare. Guardati, la testa ha freddo.
- No, ha caldo, solo la pelle della faccia è congelata.
- Come vuoi. Che spettacolo, però, non l'avrei detto.
Si sposta avanti di mezzo passo, butta gli occhi oltre il muro di pietra che le arriva allo stomaco.
- Ti rendi conto che non ci sono paratie o reti? Se un bambino si sporge e perde l'equilibrio, addio. E un tizio seduto su una sedia che legge un libro, ecco l'unica sorveglianza. Guardalo, avrà vent'anni: scommetto che ci sono gli studenti universitari che si danno il cambio per restare seduti là e leggere mentre la gente visita la torre. Un suicida qui ha la strada spianata.
- L'ho pensato anche io. I bambini probabilmente restano accanto ai genitori, ma ai suicidi questo posto deve apparire come un paradiso: nessuno guarda, semplicissimo scavalcare, e si vola. Oltretutto, se atterri su quella piazza in piena città fai notizia. Una morte quasi eroica, nel senso moderno del termine.
- Cioè?
- Beh, ormai gli eroi sono quelli che creano la notizia. Qualunque notizia. Non importa quale metodo scelgano per passare alla storia, se finiscono in televisione o nei filmatini internet hanno inciso un segno nell'eternità. Gli eroi sono questi, ormai.
Camminano, Raffaella soffia nel palmo delle mani infilate in due paia di guanti.
- Certo che fa freddo.
- Ho caldo.
- Sì, hai caldo. Invece io ho freddo.
- Siamo sempre state diverse. Tu magra e io no, tu meticolosa e precisissima e io confusionaria, tu controllata nel cibo e senza vizi, io lasciamo perdere. Forse è il segreto per essere amiche. Adesso tu hai freddo e io mi sento bollire.
Raffaella ride, si ferma e le passa il guanto destro sulla guancia.
- Può darsi che siamo diverse, ma non in tutto. Non sono così sicura. In fondo i massimi sistemi ci accomunano. L'amore, per esempio, e la professione.
- Già. L'amore. Ma dai, non ci accomuna. Tu ce l'hai.
- Oh, capirai. E' solo questione di momenti. Adesso ce l'ho io, domani sarai tu a innamorarti. Si fluttua. Ma abbiamo gli stessi difetti: buone, disponibili, cerebrali. Eccetera.
- Sì, eccetera.
- E' l'eccetera che ci frega.
Ridono. Dalle bocche esce una nuvola che precipita in aghi sottilissimi di ghiaccio, si perdono nell'aria pungente del pomeriggio. I corpi si agitano nella risata, ogni tanto si urtano: la spalla di Raffaella finisce contro il braccio di Laura, un po' più alta, le teste insaccate nei berretti di lana dondolano avanti e indietro. La gente le oltrepassa senza notarle, qualcuno sorride divertito. Una coppia fa una fotografia al cielo, un'altra si mette in posa e chiede a uno straniero di scattare.
- Pensi che scriverai qualcosa su questo nostro viaggio?
Annuisce. Smette di ridere e posa una mano sulla spalla di Raffaella.
- Può darsi. Magari non lo farò subito, ma prima o poi il ricordo premerà per uscire e trasformarsi. Diventerà un racconto.
- O un romanzo erotico.
- Non credo.
- Perché no?
Alza le spalle.
- Non so. Non c'è motivo. Ho detto che non credo ma in effetti non ci ho pensato. Vedremo.
Gli occhi di Raffaella diventano obliqui, la bocca si stira ai lati in una smorfia furba.
- Non dirmi che la tua vita da scrittore single o quasi non si può raccontare in un romanzo erotico.
- Se sono single come posso scrivere un romanzo erotico basato sulla mia vita? E' la gente che mi immagina donna fatale.
- Ho detto single o quasi. E' il quasi che fa la differenza, come l'eccetera di prima. Capisci? Le sfumature sono l'essenza, solo gli stupidi fissano lo sguardo sul grossolano, sull'immagine plateale. Il dettaglio, l'eccetera o il quasi, fanno la reale differenza, e se sei abbastanza intelligente lo capisci. Dunque, sei scrittore single o quasi e la tua vita attuale è compatibile con un romanzo erotico.
- Può darsi.
- Dai, con chi eri la notte scorsa?
- Con nessuno.
- Ah, sì? Allora mentre dormivi nella tua stanza è entrato qualcuno e non ti sei accorta. Stai più attenta, chiudi a chiave.
Arrossisce.
- Stavo scrivendo, forse era il rumore di...
Raffaella la interrompe.
- Forse era il rumore di? Di ciò che vuoi, ma hai messo il forse. Forse. Eri sola, forse. Stavi solo scrivendo, forse. Il forse ti accusa e assolve insieme. Come quasi e eccetera. I dettagli. Ecco, riesci a capire finalmente?
La fissa.
- Sai che riesci sempre a colpire?
- Sì, lo so. E finirò in un tuo racconto, prima o poi. Per ora mi sono salvata.
- Non direi, sei in un romanzo inedito.
- Oh, santo cielo. E cosa faccio?
- Lo vedrai.
- Ma almeno mi hai cambiato il nome?
- No, altrimenti che gusto c'è?
La sente protestare volta le spalle e rientra. Ha caldo e freddo insieme, l'aria gelida e i quasi, forse, eccetera le hanno messo la voglia di Luca. Che è in albergo, scrive e si nasconde. In attesa di lei.
- Allora, andiamo? Mi è venuto un freddo pazzesco, voglio stare un paio di ore in albergo, al caldo.
Raffaella la segue e scuote la testa.
- Chi ti capisce...
Scendono le scale, le sfiora la guancia con un bacio.
- Tu capisci, tu e pochi altri. E' questione di sfumature.
Ha aperto la finestra e respirato l'aria fredda, le piccole gocce di pioggia troppo leggere per cadere, rarefatte nel cielo basso che le entra nel naso. Ha guardato la spiaggia vuota e la strada, pochi metri oltre il suo balcone, deserta. Sorride. Ha ancora nella testa il ricordo della voce che l'ha tenuta sveglia dopo la presentazione del libro, la voce di donna che verso l'una di notte si è messa a urlare.
Ha aperto la porta della stanza e trascinato dentro la valigia, l'ha sollevata sul trespolo di legno e aperta per togliere la schiuma da bagno, il dentifricio e la camicia da notte di seta, corta e leggera; con tutto in mano, è andata in bagno e si è persa sotto la doccia. C'era il silenzio, oltre lo scrosciare dell'acqua, tanto silenzio da farle sognare il sonno, le lenzuola bianche pulite e un cuscino ignoto sotto la testa. Ci ha messo un po', a liberarsi della voglia di acqua sul corpo, e della schiuma densa profumata che si è spalmata addosso. Le piace sentire le gocce battere sulla pelle, le piace quando mani grandi e esperte esplorano, lavano, solleticano ogni piega di lei. Le ha ricordate, le mani scivolose di schiuma, troppo stanca per concentrarsi ma abbastanza viva da desiderarle ancora. Ha sentito i morsi sul collo e il corpo tonico e giovane che le si piega addosso, quando non è sola. Poi ha chiuso il getto, è uscita cercando il tappetino bianco morbido con i piedi, si è asciugata, ha infilato la camicia da notte con la solita goccia di profumo dietro un orecchio. Ed è saltata sul letto, buttando la testa sul copriletto e chiudendo gli occhi.
Il viaggio in treno, le parole dette e ascoltate, la cena con l'amico poeta e le confidenze l'hanno liberata. Aria, aria pura di libri e viaggi, come piace a lei. Potrà dormire, adesso, può farlo perché si sveglierà alle cinque e manderà avanti il romanzo, la storia grossa pesante intensa che le viene fuori dalle mani. Ha pensato questo, mentre cercava il torpore. Ha spostato le lenzuola e si è infilata sotto, ha spento la luce. Per un attimo, ha benedetto il cielo freddo e le nuvole cariche di pioggia che desertificano il lungomare. Poi ha creduto di dormire.
La voce è arrivata quando gli occhi erano chiusi e le mani giunte di lato, sotto la guancia, sotto il cuscino. La camicia da notte liscia accarezzava il corpo convinto a dimenticare, a rimandare il desiderio dei tocchi lievi e dei baci umidi di voglia. Ma la voce, la voce ha rotto l'oblio. All'inizio ha pensato che non fosse vera, ha creduto a un sogno o un desiderio proiettato in una sensazione delirante. Zitta, ha acuito i sensi. E l'ha sentita di nuovo. Una donna urlava a tratti ritmici, ansimava e chiamava un nome che non riusciva a capire. Godeva, la donna, in una stanza vicina alla sua.
- Ma senti.
Ha sussurrato, e si è tirata su. Ha acceso la luce e preso il taccuino per scrivere, senza sapere perché. Le pareti rimbalzavano di gemiti e grida, vere e proprie grida sempre più veloci e acute, incuranti dell'albergo e degli ospiti e del sonno. Alte, poi ferme, poi di nuovo vive e piene, in un orgasmo sempre più vicino. Ha immaginato la donna, e l'uomo su di lei. O sotto, o di lato. Li ha immaginati insieme, e il volto di lei sciolto, contratto, trasfigurato dai gesti e dall'odore del desiderio che sicuramente impregnava la stanza.
Si è messa a ridere, la mano destra si è mossa sul foglio e ha scritto qualcosa. Ha visto i tratti blu sul bianco della carta, ha sentito, vissuto, bevuto le grida ormai continue, forti, assolute. E l'orgasmo, finalmente, l'ululato lungo, quasi un dolore incapace di fermarsi, un canto di sirena libera stracciata dalle onde. Fino al silenzio, dopo. E la voglia di dormire andata via, e la scrittura sbloccata fino alle cinque del mattino. Fino a non addormentarsi più.
Pensa a questo, con gli occhi tuffati nel mare. Ha scambiato qualche sms con un amico, gli ha raccontato la notte e i rumori, ha scherzato con lui su chi fosse la donna, quando era seduta nella sala della prima colazione. L'ha vista, ne è sicura: stanca, china su un giornale, placata dal riposo. Per un attimo le ha sorriso, ha detto buongiorno all'uomo che le accarezzava la mano. La luce negli occhi, quella che l'amico le ha suggerito di cercare per essere certo di riconoscerla, ha brillato nei residui del sonno, solo per lei.
Guarda il mare, e la rotonda. L'acqua grigia si confonde con le nuvole dense, di carne soffice da mangiare.
E' felice. Ha scritto la vita, grazie alle grida di una donna al di là del muro.
Possibile che sia grigia, sempre grigia e densa di gasolio? Si arriva e ci si immerge, si cala in una pozza di fango melmoso e viscido, triste come la morte prolungata e attesa. Desiderata, quasi. Ci si stringe nei vestiti come in una muta, si indossano occhiali e si trattiene il fiato per saltare, se si può. L'impatto è noioso e soffice, un male piccolo ma necessario; il fango torbido si muove appena, scivola addosso e lascia impronte di carezze senza poesia. Carezze che rimangono, se ci fai caso. I palazzi sfilano con la tangenziale al collo, gli alberi di un verde stupito, attonito, si piegano all'aria asfittica di un vento remoto e scialbo.
Milano. A volte chiudo gli occhi quando il treno entra in città, fingo di non vedere la periferia e le strade dove automobili lucide con le righe sui fianchi si affannano ai semafori e tentano di evitare le telecamere. Osservo i volti ignoti nelle case. Li sogno indaffarati dietro a spese che potrebbero evitare, a cene del sabato sera con amici o pizza portata a casa e preparativi per il Natale sotto le insegne ancora buie. Chiudo gli occhi, li riapro e telefono a qualcuno, voci che mi danno la gioia di arrivare. Li ascolto, trovo una ragione per scendere dal treno e cercare un taxi. Arrivo da altri posti, altre città piene di luci e abbracci caldi, e serate lunghe che finiscono in mattine precoci di scrittura e pezzi di illusione. Arrivo, e spalanco le palpebre per cercare amore rosso in teatri grigi.
Non ho patria, non riesco ad averla. Eppure la città tesa e veloce di grigio soffocante assomiglia a una patria, quando vuole. Ci sono pomeriggi tardivi di camminate a gamba tesa, respiro lungo e libero e mostre e libri: mi sento vicina a casa, in quelle ore. Stringo le mani di amici e ascolto, rido. Parlo di ciò che so, non fingo se non conosco: lo fanni tanti, millantano letture e cultura e conoscenza, il prurito che stuzzica le mani contro i guanti è abitudine che ho imparato a dominare.
Milano. E' la città della finzione e dei sorrisi piccoli e civili, dell'entusiasmo trattenuto e del sesso storto, fosco e passionale dietro cortine di pizzo e lampade che basta un pulsante e cambiano colore. Le strade mi guidano nel diluvio di negozi troppo ricchi e vuoti, opportunità nel palmo delle mani e tram lunghi che bloccano gli incroci. Guardo il Duomo e la Galleria, mi succede spesso di cercare tracce delle gite con mio padre: arrivavo dal paese, mi portava in cima alle guglie e guardavamo giù. Credo fossero i mercoledì in cui la scuola finiva presto. Pensavo a come fosse un volo da quelle guglie, la piazza era il mare e il tuffo un desiderio libero di bambina che già odiava le catene. Mi è successo di entrare in Duomo e cercare il parroco del mio paese, che abita là, adesso. L'ho visto in un confessionale e mi sono avvicinata, mi ha riconosciuta da lontano e ha sorriso come ricordavo.
- Non sorridere troppo, sei in chiesa.
Ha detto, ma rideva, e ha messo una mano sulla mia fronte e ascoltato la vita.
Girgio. Possibile che sia sempre così grigia, la città dove ritorno? Un bozzolo di crisalidi che nascono colte e spente, una fornace di opportunità che pochi riescono a capire. Perché dormono, serrano le palpebre per non guardare la fredda nebbia di catrame e i passi sempre rapidi, sempre sulla via più breve per chiudere porte blindate e lasciare fuori il mondo. Si scrive e non si legge, i quadri appesi a pareti uniche sono impegni che arrivano dopo, solo dopo. Sempre dopo. Si va alle mostre per raccontarlo agli altri, si prenotano i posti per evitare la coda, perché ogni confusione è nemica della fretta. Qualcuno evita l'affanno e mi chiede di mandargli il catalogo: basta quello, la mostra è tutta lì; esco dai corridoi dove ho socchiuso gli occhi e mi sono persa di emozione e mi carico di pagine pesanti rilegate a colla che dovrò spedire. "Ma sai, non ho tempo, ho altro da fare. L'anno prossimo, tra sei mesi, nella futura vita". Penso alle mie ore dense di ambulatori e scrittura e voci, volti da tenere insieme e rido, dentro. Quando vorrei piangere. Perché il tempo, se vuoi, lo trovi, si tratta solo di agire di scalpello e non capitolare del tutto. Però. Ci sono i party di Natale, iniziano a novembre e riuniscono tacchi a gamba nuda e pedicure costose a opere pie stringate di salotti vip e calici traboccanti champagne benefico. Si inaugura e chiude, si cena in piedi fumando fuori dalla finestra e si presentano libri ai volti, sempre quelli, che alzano gli occhi dall'ombelico per leggere altre scritture. I taxi aspettano sulle piazze e nelle vie, si lamentano per la crisi e non riducono le tariffe. Qualcuno litiga per il turno, uomini eleganti con la ventiquattrore non cedono il posto e donne alte su tacchi a punta inforcano portiere commentando attese di scarsi, eterni, inaccettabili minuti.
Eppure. Ho visto stazioni e monumenti e gente. Ho altre città, che non sono patria, non sono riuscite a esserlo, ma allargano le braccia quando arrivo. Ho la luce di un sole che piove solo altrove a scintillare le serate di terrazze romane, musei fiorentini che riempiono la giornata e maledizione veneziana di canali nascosti d'amore. Ho vita che scivola nelle dita e gonfia la testa di emozione. Ricca, l'emozione che spinge le mani a scrivere. Riconosco i colori, ho nel naso e nella carne i profumi che mangio senza doverli spiegare.
Milano. C'è stato un tempo in cui ho odiato ritornare. Ho dovuto accorgermi che le parole uscivano fluide e quiete, continue e appassionate; la nebbia, piano, ha avvolto le mie angosce e restituito sorrisi persi, o solo dimenticati. Le storie escono a fiumi voraci nel silenzio, lontane da grovigli di passione e tormento che sono schermi, cumuli di piombo per i passi che sognano leggerezza. Non credo che potrò spiegare dove e come ho scoperto il nucleo di amore che fa della melassa viscida del grigio odiato una coperta morbida cui non rinuncio più: sono le passeggiate da sola nel centro che così bello non è mai stato, gli appuntamenti pieni che riempiono l'agenda di libri, libri e libri, gli amici veri che, nell'anno più tremendo e strano della vita, hanno detto "Perchè non resti qui?". E' il senso dell'appartenere, dettaglio che mancava e ora appare, nitido e tranquillo, in un'assenza di enfasi eccessiva. Che, finalmente, è medicina.
Mi siedo in mezzo a un tram, a volte, e lascio che mi porti dove non so. Corpi sfiorano la mia spalla ferma, case e strade e parchi ordinati con i cespugli e i fiori riempiono la vista. Ascolto parole e le ricordo, le fermo sul taccuino e le mastico a lungo, dopo, nei racconti che non sempre pubblico nel blog. Capisco la vita, e il mio errore. A lungo sono fuggita, e fuggirò ancora, perché le catene che non potevo sopportare erano persone e non città. Stringevo mani e permettevo che fermassero il sogno di un volo solo mio. Non era Milano la melma grigia che sporcava i miei vestiti, e non erano Roma o Firenze o Venezia o Napoli a ripulirmi. Erano voci che creavo e dipingevo con la fantasia, e collocavo dove mi piaceva. Peccato. Sì, peccato. Che per troppi anni abbia avuto paura di ammettere che esistono uomini e donne sbagliati per me, e scelte che non avrei dovuto fare.
Milano. Grigia e fumosa. Sa di gasolio. Ma è la mia coperta calda, adesso. Mi ha insegnato che tradimento, bugia, finzione e crudeltà pensate e agite per opportunismo e soldi, soldi, soldi appartengono agli uomini, non ai palazzi che incombono nella nebbia. Milano, non è patria ma assomiglia a un nido dove scrivere, nella danza di fughe cui non posso rinunciare. E a mani piene offre occasioni che solo gli stupidi non sanno cogliere.
C'è musica e musica. Questa è lieve come un sospiro e piena come un morso. L'andare quieto del treno scivola su una pianura ordinata di filari di alberi immersi nella nebbia soffice, delicata. Avrei detto che ci fosse pace, la notte scorsa. E c'era pace. Non l'avrei trovata uguale se questo fosse stato il viaggio erotico e sensuale di due amanti in cerca di poesia, non avrei potuto respirare il caldo perfetto che non soffoca nè appiccica di sudore sotto il pigiama di seta leggera. Forse.
Cambia in fretta lo sguardo sull'amore. Cambia come i campi che vedo fuori dai finestrini, come le stazioni coperte di grigio dove poche mani si alzano per salutare.
Fiocchi di luce e profumo costoso. Ho le pagine aperte sotto la mano chiusa sulla penna, vedo i segni nascere e scavare la carta nell'ovatta molle del rumore delle rotaie. Non lo sento, quel rumore, ma so che esiste: il treno sbanda all'improvviso e ci svegliamo, il corpo va avanti e indietro, poi ritorna a posto, e la musica prosegue. Come se niente accadesse sul serio.
Che pigro ottundimento lucido e quieto. Nel vagone bar coppie si osservano con mezzo sorriso, donne e uomini leggono, il pianista tira fuori meraviglia dai tasti bianchi e neri, i camerieri parlano italiano e azzardano poche chiacchiere discrete. Una ragazza con una grossa macchina fotografica nera fa scattare un flash; ha un vestito di lana grigio chiaro, le calze lunghe viola. L'accento è di Milano. Porta capelli lisci raccolti in una coda strana, mi viene voglia di scioglierla per respirare l'odore pulito di shampoo e la soffice carezza di fili sottili, quasi di seta. E' giovane, molto giovane per questo treno di toni soffusi e amore pudico senza lo spazio per un gemito più forte nelle suite sballottate dalle rotaie. Fotografa ogni dettaglio, vedo con l'angolo di un occhio che punta l'obiettivo su di me, non mi infastidisco e sorrido: avrò rughe, aria distante e doppio mento seduta così, con il taccuino su una coscia, ma non importa. Prenda di me i ricordi che le piacciono, sta costruendo giorni. Che non potrà dimenticare.
Si avvicinano tutti, prima o poi. In due o tre lingue chiedono se sia vero, mi fissano timidi o curiosi e domandano se stia sul serio scrivendo un libro su questo treno. Su di loro che sfilano in smoking e vestito da sera, con storie che buttano lì e dipingono da favola bella. Annuisco, anche se non sono sicura. Ci vorrà tempo, per questo. Ma è inutile dirlo.
Prende il via, la mia mano, dopo un preludio che era musica più che racconto. Musica, ancora. Come il cibo e la vernice blu scuro lucida e fiera, anche le note di questo pianoforte sono perfette. Immagino i musicisti da crociera simili a questo, eppure esiste differenza; un orecchio popolare, profano come il mio capisce che non è lo stesso. Ci sa fare, questo pianista con il cognome italiano e la giacca impeccabile e scura. Snocciola note che cadono senza pieghe su tavoli bassi coperti da tazze e bicchieri e cartoline che partiranno con il timbro dell'Orient Express, sui nostri corpi rilassati ed eleganti e i libri, tanti, aperti nel riempirsi delle ore.
Mi chiedo dove siamo. E dove siano gli sposi di ieri: hanno camminato felici sulla pensilina di Venezia, ansiosi di flash altrui e sguardi di invidia. Lei aveva le scarpe di raso bianco, troppo grandi, e un vestito che non avrei voluto né sognato. Non ho mai sognato un vestito da sposa. Comunque, non li vedo. Forse sono scesi a Vienna, oppure festeggiano intimi in una suite. Esiste ancora qualcuno che impiega il tempo facendo l'amore?
E ora. Ora ora, cioè domenica primo novembre. Ho trascritto dal taccuino, rivisto e cambiato, piegato le parole a ciò che sono oggi. L'ho fatto mentre l'anima di una donna andava altrove. Alda Merini, che ha dato senso alla vita. Che brutale e antiestetica irruzione della morte nella poesia, nell'assoluto. E che triste addio, Alda.
Comodo anche se un po' rigido, il divano mi tiene sospesa tra le ruote di ferro che fanno rumore e corrono. La finestra ampia sfila immobile davanti agli occhi freschi, tuffati nella campagna che si alterna a boschi e riempiti da bolle di piacere e stupefatta solitudine. Sto bene, così. Cammino se ne ho voglia, vado in senso contrario rispetto al treno oppure lo aiuto, graffio piccoli metri nel medesimo verso per arrivare prima.
La coda del treno finisce in niente, come nei film: una porta chiusa, una serratura vecchia perfettamente oliata, potrei aprire con qualche sforzo e saltare, lasciarmi gelare la pelle dal freddo di questo Nord che attraverso con la vista acuta e tagliente. Mi ricorda un altro Nord, il Belgio dove ho vissuto: la sera, il freddo era tanto denso e basso da saldarsi in mano, formava croste sui vetri e dentro l'anima. Hai voglia a grattare via, quando fa così freddo. Uscivo dall'ospedale e mi rifugiavo in macchina, ritornavo a Brussel (è città fiamminga, scrivila bene) oppure seguivo una collega a caso in un bistrot di Leuven, mangiavo cose dal sapore di gesso e una fetta di torta con tanta panna. Poi dormivo nel letto con il piumone, aggrappata a un libro o alla Rai via cavo. E buona notte.
Ho messo in ordine il mio studio, oggi. Mentre pensavo a cose e persone e dolcezze e lenti avvicinamenti che finiranno da qualche parte. Ho sollevato carta e polvere, passato stracci bianchi che diventavano neri, buttato via il passato di lettere e fotografie e diari iniziati e lasciati a mezzo. Non sai quanti diari, quanti. Ho riconosciuto gli anni del buio, della confusione, e mi sono messa a ridere. Indulgente di me, per me. Esisteva, pensa, un quaderno di cartoncino azzurro dove stavo scrivendo una lunga lettera. Per te. Ti dico cose, luoghi, momenti, ti regalo i miei sogni. Nel 2007, ti dico che vorrei andare sull'Orient Express, come ho fatto quel giorno di questo anno, nella casa di Firenze, e tu tenevi gli occhi chiusi e annuivi per finta. Insomma, c'era una lettera-diario e ho riletto parti, ho capito che non li meritavi. Non li meritavi mentre li scrivevo, e questo è squallido. Ho avuto uomini che hanno meritato tutto, anche a distanza di tempo e freddezza e litigi. Tu no. Ho rigirato in mano il quaderno e ho pensato di buttarlo via: il lancio, perfetto, l'ha sbattuto con un rumore che ha spaventato il gatto nel cestino accanto alla scrivania. Poi. Ho creduto che non si butti via niente, non nella scrittura: perché dovrei mandare al macero pezzi di me? Diventeranno altro: storie e romanzi e cose che la gente potrà leggere, se vuole. Mi sono ripresa il quaderno, l'ho accarezzato e impilato insieme ai manoscritti ritrovati o mai perduti.
Che bello, sai. Ho messo nella libreria, il cui rinnovato ordine rende nuova, il manoscritto originale di "Una storia ai delfini". Profumava di felicità e di mare. Sorridevano, quelle pagine coperte di blu e nero in un taccuino grande. L'ho toccato molto, prima di metterlo al proprio posto insieme agli altri, alle altre storie pubblicate oppure in attesa. Mi ha fatto stare ancora meglio, serena e libera. Non so perché.
Di notte, i vagoni sferragliano e ondeggiano. Succede che le onde più forti gettino sul pavimento i libri, i giornali, le borse che Steve avrebbe fissato bene, ma ho tirato giù per cercare cose. Cose. Cose. Si dorme bene, però, anche con i colpi regolari delle ante del piccolo vano del lavandino e con il frastuono delle rotaie, e il volo dei telefoni spenti e scarichi e di tutto ciò che stava sui tavolini e nella reticella. Cade tutto all'improvviso, poi il silenzio ritorna uguale. Immagino un'esplosione, non mi alzo. Lascio che sia. Si sta bene qui. Manca il sesso, ci penso ogni tanto mentre alzo la tendina e guardo la notte. Immagino mani che ancora non ho conosciuto, e un respiro accanto all'orecchio, dentro la bocca, e il sesso. Dentro, piano. Oppure in fretta, dipende. Dipende dalla passione. Ogni tanto il treno fischia due volte, e penso alle storie di Pirandello e Simenon. Banale, potrei dire che il fischio mi rimanda indietro o mi schizza avanti, ma l'hanno già scritto in tanti. E pazienza.
La camera, il mio studio, non è ancora a posto. Ma ci arrivo, vedrai, ci arrivo. Ho buttato via chili di ricordi inutili e dimenticati. Ho eliminato, pulito, spolverato, rinfrescato, riscoperto. Che energia, sai, finalmente la sento tutta: mi brucia le arterie, macina il cuore, fa andare le gambe e tiene su la schiena. Cantavo, perfino, e il gatto si è nascosto sopra l'armadio grande. Narciso nel falso d'autore scuoteva la testa. La musica era tutta nella testa, nei volti che finalmente mi fanno ridere e pensare, mi accettano complessa e libera e impegnativa. Nel tocco delicato di una simpatia che non hai mai nemmeno sfiorato.
C'è un maitre pieno di sè, sull'Orient Express che corre via dalla Repubblica Ceca. Non cito il nome, perché è il tuo, e qualcosa vorrà dire. Racconta di arabi e barche di lusso, viaggi da favola e suite. SI piace, lo vedo, sono contenta per lui. Parla e ascolta poco, indica il cibo e fa portare altri dolci. Mangio, lascio perdere e rilasso le cosce sotto il tavolo. Lancio gli occhi fuori, nel buio in cui distinguo pochissimo, poi li riprendo e fisso la gente, anche se non si fa. C'è una donna con l'ossigeno nel naso, due piccole cannule trasparenti escono discrete dal vestito elegante. Ha una malattia che la ucciderà, non ho bisogno del pettegolezzo del maitre per saperlo, mi basta l'odore della morte che le sento addosso. Mi basta guardarla. Eppure è felice. Otto mesi fa, le avevano detto che sarebbe morta subito, entro quattro settimane, così ha deciso di viaggiare. Orient Express, il suo sogno. Da quel momento continua, scende e sale su ogni Orient Express, sulle rotte che trova. E vive, con il suo ossigeno appeso al collo. Vive. E c'è un'altra donna, bionda: continua a parlare, e ride. Viene dall'Australia, prima di salire sul treno è stata in crociera con un marito che non fa altro che tacere. E' bello, sembra più giovane di lei, questo marito taciturno che probabilmente scambia sms con amiche allegre in Australia. E la moglie, lei chiede al personale di bordo di non renderla nervosa con domande che non sa capire.
Ho accumulato quaderni vuoti e quaderni pieni, nel mio studio spolverato a nuovo. Ho aperto pacchi di fotografie dove mi sono vista grassa, l'estate del 2008 all'isola d'Elba. E non ho visto solo me, lo sai. Mi sono appoggiata al muro per respirare e fumare una sigaretta e ho lasciato gli occhi nei tuoi, così, per gioco. Non ho trovato la luce, ho trovato niente. Evaporata la magia, resta solo uno strato di noia sbigottita. La mano, presa la traiettoria verso il cestino, ha avuto la tentazione di lanciare anche quella, anche la tua fotografia, poi il gomito si è piegato e il cervello ha detto qualcosa. "E' il passato, perché buttarlo?". L'ho infilata in una busta a caso e messa via, non so più dove. Adesso l'ho dimenticato. Ho trovato doppi o tripli libri, copie di copie che ho anche a Firenze. Insomma, forse capisco che è troppo. Ma regalarli è difficile, sai che pochi leggono. Scrivono, ma non leggono, peccato. Magari citano la Woolf o Quasimodo o Manzoni, dopo, oppure raccontano di avere letto Proust, però non sanno più di un Bignami. E scrivono. Beati loro.
A Parigi il treno ha caricato aragoste. Ho camminato con la mia valigia pesante e fuori misura e salutato i camerieri, deviato lo sguardo dalle casse bagnate brulicanti di chele incerottate; le aragoste non mi piacciono: quando le vedo nuotare nella vasca del ristorante vorrei prendere a mani nude e buttarle in mare, e lo farò, sono certa che prima o poi farò anche questo.
Che polvere. Sollevata e tolta. Libri toccati, aperti e annusati, hanno fatto l'amore con me.
Ho ancora mani morbide sulla schiena, sulla lana del poncho e la seta della camicia sulla pelle nuda. E uno smalto viola, sai.
Dormo. E scrivo, domattina, prima di partire. Di nuovo.
Vorrei fotografie in bianco e nero, adesso. Non so perché. Non c'è tristezza, non trovo dentro o fuori motivi per togliere il colore a ciò che vedo, eppure ho aperto lo spazio bianco del "componi post" desiderando una fotografia qualsiasi, di un paesaggio qualsiasi, in bianco e nero.
Il bianco e nero, il grigio mi regalano serenità. Solo nelle fotografe e nei film, perché la vita, quella che prendo forte in mano e mordo con passione eccessiva, deve avere sempre dentro il rosso, e l'azzurro, e il blu, e il viola. E tutti i colori che vengono in mente, anche se non esistono. Insomma, le fotografie in bianco e nero e i vecchi film francesi mi fanno stare bene. L'altra notte, a Praga, ho visto un film francese e capito niente: mi addormentavo, mi risvegliavo, provavo a seguire ma, lunghi minuti dopo, scoprivo di essermi persa. E' stato bello ugualmente. Forse perché sapevo di essere felice, mangiavo la notte insonne senza più dolore o rimpianto (compagni della prima parte del 2009), senza il senso di sconfitta che, per tante ragioni (non solo una), mi si era aggranchiato addosso. Stavo bene, davvero bene. Avevo camminato su Ponte Carlo, scambiato messaggi con qualcuno che ultimamente mi fa stare allegra in un gioco sciocco e simpatico insieme, chiacchierato e taciuto, fissato pupille nere nella tenebra illuminata dai lampioni, osservato l'acqua e il castello e la macchina fotografica rotta. Poi, in camera, avevo scritto, riscritto, un paio di capitoli del romanzo cui sto lavorando, e, dopo la doccia solita che mi fa sentire pulita e fresca sotto le lenzuola, mi ero messa a letto con "La metamorfosi" di Kafka. Il sonno era arrivato e svanito, mi succede spesso, ma non provo più rabbia: mi alzo prestissimo per scrivere, oppure, se l'ora è molto molto profonda nella notte, accendo la televisione e non capisco cosa vedo.
Ho guardato le immagini del film francese, ho seguito le parole, ho dormito mentre accadevano cose importanti o da niente, ho provato a interpretare il senso con i titoli di coda. E' stato bello. La pace di Praga mi avvolgeva, il tempo un po' bello e un po' brutto non feriva. Era come una fotografia in bianco e nero, tiepida e con i contorni che nessuno tenta di vedere, con quelle pose un po' rigide e la nebbia che rassicura e non annoia. Avete guardato i fiumi, nelle fotografie in bianco e nero? E i boschi? Non so come e perché (questa sera non so la ragione delle cose, siate pazienti), mi viene in mente un'altra fotografia, questa volta a colori, che qualcuno mi ha fatto poco tempo fa. E' in questo blog, qualche post più in là (anzi, la riporto anche qui, perché no?): fisso l'obiettivo senza sapere di essere l'oggetto dell'inquadratura e non sorrido, sembro perplessa. Quella fotografia ha colto il senso di me, molto, e chi ha scattato nemmeno lo sa. Ero a Venezia, in un settembre bello.
Fotografie. Nel mio viaggio meraviglioso la macchina fotografica si è guastata, ho potuto cogliere solo pochi dettagli prima di rinunciare. Forse il motivo esiste. Era il mio viaggio, pochi dovevano essere i residui fissati nelle immagini. Chissà.
Fotografie in bianco e nero. Piacciono anche a voi?
Insomma, si va. Irreale come un sogno in cui tendi la mano e provi a toccare, poi la ritiri con la paura che la meraviglia svanisca, assurdo come un viaggio fuori dal tempo e dall'anno corrente, bello, lucido e lussuoso come un'offesa lungamente studiata, l'Orient Express è esattamente come lo immaginavo. La riproduzione della riproduzione, cioé l'esatta copia dell'originale che per me è sempre esistito: il treno immerso nella neve di "Assassinio sull'Orient Express", film calmanervi che amo e conosco a memoria, che questa sera echeggiava nei corridoi, nelle cabine, nel vagone ristorante. Ho incontrato la giovane nobildonna con la vestaglia di seta bianca e un drago disegnato sulla schiena, ho percepito il sussurro vecchio della principessa Dragomiroff che chiede una sogliola per cena, ho visto il cadavere pugnalato nel letto della suite con gli stessi colori, i medesimi spazi. Ho ricordato la riunione nel vagone bar, con la rivelazione dell'assassino. E tutto, tutto era uguale. Ero nella copia dell'unico originale che finora mi fosse dato di conoscere, e lo sono tuttora. Adesso, mentre scrivo. L'Orient Express è fermo da qualche parte dopo Udine, approfitto della notte per un pezzo di diario che proseguirò domani. O il giorno dopo domani.
Dell'Orient Express puoi godere ogni dettaglio: il check in al binario uno della stazione di Venezia, con i banchi accettazione messi apposta e le signorine vestite di blu costrette a essere gentili con stuoli (piccoli, piccoli stuoli) di donne con il cappello a tesa larga, la sposa che, convinta di essere bellissima e invidiata, caracolla con le scarpe di raso panna fino alle carrozze blu scuro e si fa fotografare, il personale impettito che ti accoglie quando ti imbarchi al vagone giusto, in cerca della cabina giusta. E i fiori, le praline, la musica del pianista, la cena eccellente, lo stewart giovane e bello che ti spiega ogni cosa in un inglese impeccabile. Godi, guardi e godi. Ho bevuto le immagini con la sorpresa della neofita: un uomo elegante, solo e bello, con due stampelle discretamente appoggiate a un fianco e un vestito di altissima sartoria, ha aspettato insieme a me che il cordone bordeaux fosse spostato per la chiamata all'imbarco, al vagone il biondo e gentile Steve mi ha fatto credere di essere là in piedi per me, solo per me, ha raccontato del suo italiano approssimativo e dello shopping a Venezia recriminando con un grande sorriso per il peso della mia valigia ("Oh, wonderful", ha detto quando ho spiegato che porto con me libri, e quaderni, e gli aggeggi per il computer), un cameriere a cena mi ha deliziata di racconti e e assaggi di formaggio ("Questo, vede, è un mondo a parte, lo assaggi, ne prenda un pò"). La musica nel bar, quando la cena ha placato la mia fame, mi ha incantata e assorbita in una danza di sguardi curiosi di gente in abito da sera che tentava di annusarsi, di conoscersi con un'occhiata e con qualche piccola frase in inglese.
La cabina, calda e antica (su una targa ho visto la data 1929), è la perfezione in una miniatura in cui tutto trova collocazione, perfino le montagne di libri che mi sono trascinata dietro e le scarpe, sempre troppe, emerse dalla valigia. Un piccolo angolo si apre su una presepe di bagno con il lavandino, una vestaglia blu scuro è appesa al soffitto e aspetta solo che mi ci rifugi.
Sola, nel buio, ascolto il rumore del treno che riparte. Vi saluto con un sorriso. Destinazione Praga, tra molte ore, poi Parigi, domenica. Questo era un sogno, un giorno lontano avevo chiesto a qualcuno di aiutarmi a realizzarlo, ma sapete una cosa? Realizzato da sola, con la testardaggine della mia incoscienza, vale molto di più.
Ultimi commenti