racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Fa un po' impressione. Sto cercando frasi adatte e non le trovo. Questo blog è la storia del mio rapporto con i lettori, è stato l'inizio della parte della mia scrittura condivisa con la gente. Mi ha portato i primi contatti con gli editori e relazioni umane che vanno oltre e al di là dei libri. E' più di uno spazio, più di un giornale online: è luogo di scambio, scoperta e discussione continua. E adesso trasloca. Nella rivoluzione dei quarant'anni e della vita, metto in valigia quattro cose e parto.
Da oggi, niente più post in questo blog: con i miei racconti, con i pezzi di parole e i libri, e le fotografie, vado nel nuovo sito internet. Proseguo il cammino là, questo è l'indirizzo:
Vi aspetto nel sito internet, quindi, basta fare click e memorizzare quell'indirizzo: pubblicherò là, nella sezione blog, tutto ciò che di nuovo mi verrà da scrivere, e potrete lasciare commenti esattamente come avete fatto qui.
Il Comune di NOVELLARA ha sempre accolto la mia scrittura con l'entusiasmo e la disponibilità dei veri amici. L'amica Ebe Mirka Bonomi, che insieme a me ha incontrato più volte i lettori rendendo i reading indimenticabili grazie all'interpretazione unica, è presenza costante e stimatissima in questo blog.
Ringrazio con amore Ebe Mirka e il Comune di Novellara per l'amicizia e per questo grandissimo dono: l'8 marzo insieme alle mimose le donne di Novellara riceveranno dal Comune "Le parole del buio", il secondo romanzo che ho pubblicato con Creativa nel 2008.
sarò in diretta con Nicoletta Carbone a "Essere e Benessere", su RADIO24.
Parleremo di "Diario di melassa" e di cibo: quale rapporto abbiamo con il cibo? Cosa rappresenta per noi? Potete proporre argomenti e riflessioni in tema inviando un messaggio email a [email protected], oppure lasciando commenti nella pagina Facebook dell'evento.
Un'altra notizia per me bellissima è che Sara Caminati e Innovation Marketing hanno creato per me un sito totalmente rinnovato. Li ringrazio di cuore e vi invito a vedere:
Non serve dire che scrivere erotismo mi piace, lo sapete. Probabilmente è anche superfluo raccontare che Giulio Perrone è tra gli editori del mio cuore: l'ho detto qua e là e l'ho dimostrato partecipando volentieri alle iniziative di questo editore. L'ultimo piacere che ho deciso di regalarmi è stato il racconto erotico "La sua presenza, fuori" nell'antologia "Danzando nel sapore dell'uva", in uscita oggi per Perrone LAB.
Siamo ridicoli, è bene che tu lo sappia. Il peso della consapevolezza non deve ricadere solo sulle mie spalle: se si fa a metà non c'è sollievo, ma almeno non esiste il rischio teorico dell'ingiustizia. Equità, suvvia! Siamo ridicoli, sta tutto lì. Conosco il brivido subdolo del barlume di dubbio, e mi viene da ridere: sto contando a voce bassa i volti e i nomi che in questo momento, leggendo, indicano se stessi con un dito. "Parlerà con me?", anzi, chiedo scusa: "Parlerà di me?". Perché un certo gruppo di affezionati o saltuari lettori di questo blog cerca se stesso (o se stessa) nelle parole che vernicio ogni giorno, e non sempre c'è paura. Il paradosso della scrittura è che, in fondo, si desidera essere presenti. Il fascino irresistibile della menzione pubblica, con la mano di uno scrittore a cesellare identità che tanti scrutano. Perché anche nella critica o nella rabbia si è. Si è qualcosa per chi scrive, capite? Se uno scrittore si affanna a definirmi sbagliata, antipatica, piazzista di libri, becera e bulimica significa che mi pensa! Mi ha in testa! Creo invidia o faccio paura, o suscito rabbia fremente che è parente dell'amore. In un blog può anche essere esercizio da niente (per me non lo è: prendo seriamente il blog almeno quanto i libri che scrivo, ma non per tutti è così), ma se la dotta e malevola citazione si trova in un libro l'orgasmo è immediato. Almeno per me. Certo, la medesima regola si applica al mio scrivere. Oh, quanti mesi ho regalato a pensieri e gente inutili! Quante frasi e righe e paragrafi! Per niente! Dentro di me avevo la percezione esatta della forza storta di cui nutrivo persone che, poi, mi sono apparse nella loro verità. Cioé brutte.
A proposito di bruttezza. Questa sera, nelle vie fredde ma almeno non piovose di Padova, camminavo spavalda e, con il mezzo sorriso stampato sul trucco ibernato dalla passeggiata, pensavo. A cose varie, niente di drammaticamente importante: constatavo di essere serena. Appagata da una scelta leggera di assenza che è arrivata spontanea, come il silenzio che per ore ho desiderato senza ottenerlo e mi è nevicato addosso al termine della conferenza su creatività e dolore. Ho fatto pulizia senza troppo sforzo, mi rendevo conto che i movimenti erano più agili e liberi. "Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora", avrebbe detto il Sassaroli nella gigantesca e tragica opera d'arte di "Amici miei": i tre quarti d'ora sono trascorsi e il respiro è fresco e ampio. Insomma, non divaghiamo. Ero nelle vie di Padova e stavo bene come adesso. Ho incontrato un uomo che non conoscevo: fisicamente, nel buio, assomigliava a un altro che nel passato ho ricoperto di importanza eccessiva. Ho guardato la somiglianza falsata dalle tenebre e mi è venuto da ridere. L'altra faccia, quella del ricordo, mi è apparsa brutta. Ma brutta sul serio, per la prima volta. E mi è venuto da ridere. "Ma quanto eri brutto?", ho chiesto all'ombra spuntata fuori senza pathos né emozione, e ho accettato placidamente che lo stesso si dica di me, se si vuole. Niente di male nell'essere considerati brutti, in fondo. Se fossi amorfa mi seccherebbe, ma brutta può andare bene. A patto che si capisca che bruttezza e bellezza raramente sono universali, ma a rendere relativo l'eventuale concetto di mia bruttezza per fortuna esistono i cosiddetti rinforzi positivi, cioè i messaggi di chi mi ama e ritiene, senza mentire, che per lui/lei io sia bella. Sono certa che anche l'uomo che ho evocato nella notte padovana grazie a un volto visto di sfuggita sia meraviglioso per qualcuno, lo è stato anche per me in un tempo che adesso faccio fatica a mettere insieme in un sospiro.
Sospiri. Ne ho sentiti tanti oggi. L'incontro con l'università popolare su creatività e dolore ha portato emozione. Tanta emozione, anche a me. Ho superato la pigrizia della lettura pubblica e condiviso brani dalle memorie intime di Simenon, da libri di Tiziano Scarpa (ma sì, dai, fate il commentino e tirate avanti: la scrittura di Scarpa mi piace e lo dico fino alla vostra noia; il blog è mio e andrò avanti finché ne avrò voglia), "Diario di melassa", "Una storia ai delfini" (la prefazione di Veronesi) e "Le parole del buio", il diario di Virginia Woolf. E ancora, "Rendez-vous", "Niente di grave", "Ho il cancro e non ho l'abito adatto". Stuzzicando la mia fantasia (forse anche quella di altri presenti in sala, non saprei dirlo) con Hopper, Picasso nel suo periodo blu, Van Gogh e Munch. Abbiamo discusso di dolore e amore, e scrittura, e riflettuto sull'importanza drammatica dei saggi, i libri che possono creare una differenza nella cultura della gente. A proposito di cultura, sapete che cultura è vita? I dati statistici dicono che chi si ammala di tumore ha una probabilità maggiore di guarire se ha un livello culturale alto. Alt, fermi: ho detto livello culturale, NON economico! Significa che chi ha gli strumenti culturali per informarsi e scegliere criticamente le cure fa qualcosa di buono per sé.
Fare qualcosa di buono per sè. Non so voi, care amiche lettrici, ma questo compleanno che mi galoppa addosso crea riflessioni da "i miei primi quarant'anni". Non è che mi piaccia troppo, ma serve. Un assioma: le amiche che hanno vissuto i quaranta e oltre dicono che "adesso inizia il bello", e tutto sommato, se considero la luce e non le ombre che popolano la vita di ciascuno indipendentemente dall'età, posso crederci. Il bello dovrebbe essere un amore per sé finalmente scoperto e reso saldo. Anche nel mezzo di difficoltà e, talvolta, vere e proprie tragedie. Oppure in mezzo ai soliti problemucci di sesso e relazioni altalenanti o solo immaginate. L'amore di sè, fare qualcosa di buono per sè. Rinunciare, per esempio. Udite, udite! La Luini finalmente proclama qualche rinuncia! Temo di sì, ma non la rinuncia alla scrittura e neanche a relazioni e affetti che ritengo meravigliosi, e non rinuncio, sappiate, a qualche abitudine privata che mi rende ciò che sono. Rinuncio all'autolesionismo. A quella spinta orribile nata con me, più o meno, che ha fatto di tanti miei anni un cumulo di tortuose, complicatissime salite con poche radure e quasi nessuna tappa di vero e gratuito refrigerio. Ho sempre pagato tutto, chiunque mi conosca bene lo sa. Pago ogni singolo piacere a prezzo tremendamente alto, sono diventata una bestia feroce perché ho dovuto affrontare ogni genere di ostacolo occulto o palese per raggiungere quello che ho. Ma. In parte ho anche camminato a passi più pesanti perché io stessa appoggiavo alle caviglie una zavorra inutile. Ostinata e convinta della mia potenziale onnipotenza, ero la nemica più sottile di me stessa. Bene, questo non cambia con un compleanno, è già cambiato: la data del 21 febbraio sancirà solo il passaggio ufficiale. Come il capodanno appena trascorso: gli amici più intimi sanno che da mesi preparavo, lentamente, alcune espulsioni da celebrare nell'istante di passaggio tra il 31 dicembre e il primo gennaio 2010. Macinavo pensieri e altalenanti serenità, parlavo o tacevo, ma quelle espulsioni avevano un timer che, effettivamente, è scattato inesorabile e ha funzionato. Intorno a Saturno abbiamo qualche anello in più, ho spedito in orbita perenne persone che ormai erano solo dolore e ostacolo, e credetemi se dico che sono davvero uscite dal mio cuore nel rapido cambiare della data. Quindi. Niente svolte epocali, a meno che non siano preparate da un cammino paziente e lucido. Ciò che accade ora. Ho qualcosa da fare, ancora. Avrò sempre qualcosa da fare nella mia eternità. La tappa dei quarant'anni è fare qualcosa per me, abbandonare l'autolesionismo. E smettere di accettare situazioni da fumetto di serie zeta. Amen.
Oh, che peso questa Luini! Ma no dai, la realtà è luminosa e serena. Qualcuno ride leggendo "luminosa e serena", ma sbaglia: se la luce si accende in testa, o in un posto interno del corpo a vostra scelta, già molto è stato ottenuto.
Mi sento un predicatore americano. Alzate le mani e cantate con me. Nel tocco della pelle con la pelle la piccola scarica di adrenalina sarà sensuale, credetemi. Guardate i miei occhi, lo sguardo è per voi. Sensualità e affetto, perché penso a voi che leggete e non sempre mi siete noti. Quando vedo il numero di letture di questo blog mi emoziono, e quando qualcuno si ferma e mi tocca la spalla e sussurra "Lei è la scrittrice del blog, vero?" (come è accaduto martedì scorso) ho la nettissima sicurezza di amare. Amo gli occhi che leggono, le mani che commentano e quelle che invece restano ferme accanto alla tastiera del computer, amo chi fa finta di non leggermi e ritorna a dare un'occhiata simulando disinteresse, amo chi si chiede se la mia vita sia quella che si legge qui oppure sia completamente diversa, amo chi si manifesta e chi no. Amo chi ispira i miei racconti: suscita emozioni fortissime, lo dicevo qualche paragrafo sopra, e non solo la rabbia. C'è chi ispira racconti negativi, chi ispira erotismo, chi ispira o ha ispirato amore. O tutto questo insieme. C'è la mia amica Simona, parte di me, che si è chiesta perché non l'abbia mai nominata nei miei scritti: non capisci che sei in ognuna delle parole? Non capisci perché sono diventata ciò che sono anche in ambito medico? Credi davvero che sia stato solo per quel ricordo drammatico che abbiamo condiviso? Secondo te non ho temuto per altri, non ho pianto, sperato, tremato, pregato? Simona, sei qui adesso ma non serviva che ti menzionassi. La natura di noi è fusa nelle mie parole.
Uh, quanta roba. Raffiche di follie e aliti di niente. Cielo! E tutto è partito da cosa? Ah, certo. Dal fatto che siamo ridicoli. Parlo di te, vedi? So che hai letto fino in fondo, adesso sei fermo su queste sillabe che si rincorrono una a una. Nella tua testa hai costruito spiegazioni plausibili per la nostra ridicolaggine, e sono costretta a deluderti: non è così complicato. Siamo ridicoli come tanti altri: sono stata ridicola così con altre persone che, come te, mi sono piaciute molto. Abbiamo messo in atto l'unica forma di stupidità possibile per gente come noi. Non abbiamo avuto la lealtà e il coraggio di parlarci. Sottovalutando la reciproca intelligenza e, anche, sminuendoci un po'. Che peccato. E' come morire senza avere visto il mare.
Lenta. Mai stata così. Spingo il tempo oltre la necessità e spruzzo la passione agli angoli nascosti. Eppure sono lenta, oggi.
Il treno regionale di stazione in stazione trascinava nuvole grigie di pioggia rada: gli occhi seguivano il cammino nella campagna brutta di palazzi bassi e scrostati, attraversavano luoghi che per anni ho sentito miei. Ho sorriso quando si è fermato a una certa stazione, ho mandato amore silenzioso e mi sono nascosta dietro il finestrino più opaco che sono riuscita a trovare. Perché non è più logico dire ciò che non può essere detto, e chi mi cerca sa che potrà trovarmi sempre. Gente che parlava al telefono a voce alta ha raccontato traumi scolastici, equazioni differenziali che mai riuscirò a capire e posti di lavoro nuovi e ancora precari. Un manifesto senza troppa fantasia parlava del carnevale di Viareggio. Avevo un libro in mano, sottolineavo frasi indimenticabili con la tentazione di riempire le pagine di segni: l'ho scoperto grazie a una persona, al mio Edward che sta da qualche parte e, sono certa, sorride. Il telefono vibrava, vibrava, vibrava: messaggi si affastellavano e irritavano i nervi placidi ma acuti, la malinconia spenta di un viaggio che ho ripetuto cento volte sfilacciata dalla scoperta di un buco opaco là dove, tante altre volte, intuivo gioia.
Lenta, anche adesso. Bach solleva pensieri che non condensano racconti o erotismo o gesti di impeto straziante. Riconosco i concerti e aspetto che arrivi il tempo per alzarmi dalla poltrona, ammiccare a Adriana e portare in casa il sushi. Ho in testa una risposta data con la cattiveria della rabbia, sono certa che non sia stata compresa e non mi dispiace: inutile spiegare che avrei voluto. Desiderato con la leggerezza di un'amicizia che non c'è. Ma sembrava possibile. Non importa, niente importa sul serio. Ho libri accanto. Potrei diventare ogni cosa o niente, trasmigrare in case che non conosco o ricordo appena, respirare aria nuova o stantia in un boccone da masticare con il languore appassito della testa voltata indietro. Ma no, così non si deve. Così non è.
Infelicemente felice, l'ho letto nel libro che Edward mi ha permesso di scoprire. Per la prima volta, alle soglie di un quarantennio che non ho molta voglia di raggiungere, so cosa significhi: infelicemente felice. Ci sono risposte che non darei, domande rimosse e chiuse sotto la lingua, gare di velocità che non mi interessa vedere: conosco le poche, cristalline e assolute priorità che sono bisogno e istinto, il resto scivoli meglio che può. Oltre non vado. Il difetto che dovrei cancellare è scendere nelle mischie che non mi appartengono, pollai pennuti e sporchi così distanti da farmi sentire ancora più estranea. Ho dovuto scegliere le persone, guardare a destra e sinistra e capire chi fosse falso: ho seguito l'anima, e non mi pentirò per questo. Chi resta nel parcheggio squallido del sorriso falso avrà la stessa me, che sa di essere usata. La rivoluzione di una me strumento che infila parole e bugie con i sospiri.
Lenta, vedete come non riesco a creare guizzi? Ho progetti da materializzare con la scrittura veloce e intensa dei giorni soliti, ma questa sera, mentre una sirena parla di ambulanze che corrono oltre l'Arno, non ho altro che pace inframmezzata a ansia scintillante a stilettate. Da addomesticare. Felice, infelicemente. Perché chi scrive non può agguantare la felicità gratuita, non è dato, non deve. Il velo di sguardo crudele sulla realtà, sul sesso sudato che sa perdermi, sulle parole di amori perfetti mi rende ciò che sono. La distruzione dell'incanto in un eterno paese delle meraviglie. Ho tentato di spiegarlo, questo paese che alcuni hanno intravisto ma nessuno ha saputo comprendere: sarebbe sufficiente seguire la mia onda, accettare che la realtà che stringo, l'unica accettabile, sia l'invenzione comoda e piena che la mia mente ha costruito, non sembra difficile. Pesci ascendente pesci, qualcuno dice che è importante: sognatrice, creativa, ipersensibile. Che siano stelle o ora e giorno della nascita interessa poco: lasciatemi i confini tenui e paffuti del mondo che ho voluto, non bucateli con i punteruoli del tradimento gratuito che in fondo interessa a nessuno. E' faticoso provare rancore, non ne sono capace, è sciocco perdersi nelle beghe infantili della polemica che non crea respiro o vita. Ho chiesto a amori e incontri da niente di prendermi così, come un'Alice irreale persa in un castello dai muri fluttuanti, ho chiesto di non sapere. Ma. Per Alice conta solo la passione tragica del vuoto che riempie di creazione. E il resto delude.
Ogni tanto penso alla terra che trema, a uno scoppio improvviso, a una frattura inspiegabile. Stringo i denti come se stessero arrivando. Allungo la mano e ne cerco un'altra, non sempre è quella giusta, e se è giusta mi spavento e scappo. Perché l'amore giusto è una fiamma che fa male quando si spegne. E l'amore, poi, che non esiste, non è altro che fluido fallace e incandescente di illusione: porta via la mente e intorpidisce le dita che devono scrivere. Ecco, è questo, forse. Ritirarsi e non capire. Eppure, a un certo punto della vita è scomparsa un'ombra tormentata che credevo di amare e sono arrivate luci dense e radiose di genuina gioia. Ho avuto, ho uomini e donne che sanno regalare carezze, e canzoni dal ritornello allegro, e telefonate a sorpresa nelle sere fiorentine. E corpi, se li voglio. Ho creduto che l'ombra nera di un uomo solo e tormentato fosse il segno delle scelte che non sapevo fare, deve essere così. Il più grande dono è stato andare via. Oppure no, non mi soffermo su sabbia scipita volata indietro.
Mi alzo dalla poltrona. Pesce crudo senza altro. E, lenta, riprendo il computer tra le mani. Insieme ai libri e alla neve che, dicono, ricopre Milano.
Succede di osservare da lontananze remote, avvolti da una coperta spessa così. La testa immersa nel silenzio, si captano tuoni esplosivi di parole e non ci si scheggia. Non più.
Ero seduta alla mia scrivania, questa mattina, gli occhi persi avanti verso un mobile che sorregge, esibisce raccoglitori di documenti rossi, gialli e blu. Nelle orecchie si trasferivano suoni e rumori, picchiettavano appena il cervello e tiravano avanti senza una meta precisa.
Pensavo. Sentivo addosso, come un solletico caldo, i corpi dei "pazienti" che affollano l'Istituto, li ascoltavo e annusavo, stringevo le loro carni tra le mani ferme ai lati della tastiera del computer. Erano con me, e io con loro, e mi avvolgevano di una presenza impenetrabile.
- Sono loro la mia coperta.
Ho raccontato al niente della stanza vuota.
In fondo a me, ricordi recenti o remoti e volti, scritture meravigliose che hanno fatto male. Ragionamenti veri, ansie e priorità, calcoli e pettegolezzi che qui non attraversano la soglia. Perché non lo possono fare. Bisognerebbe trascorrere una giornata nella contemplazione attenta di questi corridoi affollati di dolore, lo dico spesso (solo con la mente) a tanti che si affannano a odiare e rendere acido il giorno. A tanti che guardano il dito e non la luna, abbandonano emozioni che potrebbero essere lievi per il peso intollerabile della cattiveria. E dell'invidia. E della povertà d'anima. Non uso la voce quando auguro loro di venire qui e guardare, crederebbero che voglia augurare un male assoluto. No, non lo potrei fare: questo che assaggio ogni giorno è impossibile da augurare a chiunque. Vorrei solo che capissero, respirassero la paura e la fiducia, e la concretezza brutale del brusio vivo che questa mattina mi solleticava e avvolgeva in una coperta di piume: dovrebbero sapere, sarebbe giusto, che se scavalchi un limite ti rendi conto all'improvviso di ciò che fa la differenza sul serio.
Per questo il mio dolore è lento, a volte. Sembra sepolto sotto strati di indifferenza che nella realtà non possiedo, ha tempi e modalità di reazione incomprensibili a chi mi crede ovvia. Per questo l'allegria esce come un torrente che pochi riescono a guardare fisso. Nelle cavità risonanti del mio cranio vivo come gli altri, lascio che la nevrosi mi possieda e ho paura, a volte. Poi tocco la scrivania con le mani, associo nomi e cognomi a malattia e guarigione e morte e terrore e il mondo si allontana, diventa l'immagine sullo sfondo.Non ce la faccio a prendermela e neanche a scaricare sacchi di rabbia che mulinano sulle spalle. Saluto gente che se ne va, rispondo a morsi quando so che mi si prende in giro. Ma accetto, perché la coperta di piume delle persone vere, quelle che sanno calcolare i minuti perché sono diventati importanti (e sono vita, in contrasto, vita che strappano alla morte), toglie importanza al nulla.
Scrivere gocce di pensiero. Accade ogni giorno. Che permetta a occhi estranei di leggere invece è molto più raro. Un libro che mi ha fulminata di bellezza ieri, però, mi ha convinta a tirare fuori ciò che finora bruciava su pagine oscure. Si può condividere, in fondo. A patto che si accetti l'incomprensione.
Mi chiedo cosa sia una vittima. Cosa significhi essere vittime.
A un incontro con i lettori a Rimini, mesi fa, abbiamo discusso di quanto (e se) la pedofilia possa essere oggetto di prevenzione. "Diario di melassa" affronta anche questo, la pedofilia e le conseguenze su chi la subisce: ecco il perché della discussione, nata spontanea e forse ovvia nel contesto dell'alternarsi domande-risposte sul libro.
La prevenzione della pedofilia è necessaria, sottovalutata e, purtroppo, destinata a un certo grado di fallimento a priori. Spero di riuscire a spiegare perché.
Dedico qualche riga al carnefice. Salvo casi eclatanti, è subdolo e apparentemente irreprensibile, il più corretto e probo degli uomini (o delle donne). In più, fa spesso parte della famiglia o della ristretta cerchia di amici: ho visto, so cosa significhi sapere e tacere, il marcio della perversione pedofila il più delle volte è rifiutato dalla consapevolezza (dalla dimensione conscia di chi potrebbe intervenire) anche quando intuito o intuibile, oppure nascosto a priori per evitare lo scandalo o i traumi (per gli adulti), le separazioni, le liti. Mentre i media ululano che la pedofilia vada identificata con tempestività, le famiglie coprono, ignorano, voltano gli sguardi altrove. Oppure inventano patetiche ragioni per il comportamento patologico di alcuni irreprensibili (insospettabili) componenti. Dico l'ovvio, fino qui, ma la verità è che si arriva a giustificare la pedofilia in alcune forme perché "solo molestia leggera", senza considerare che per un bambino la molestia leggera è, di fatto, violenza.
Pensiamo alla vittima, però, e spostiamoci dall'ovvio.
La vittima della pedofilia entra pesantemente nella successiva prevenzione perché può reagire in modo poco prevedibile a ciò che ha vissuto nell'infanzia e adolescenza. Nell'immaginario, la parola "vittima" rimanda a pianto, dolore, sofferenza e compatimento. Fa pensare a qualcuno che abbia ricevuto torti, violenza, offesa, e debba conseguentemente ricevere un po' più di affetto, un po' più di attenzione, forse un po' più di pazienza. Poche volte ci si concentra su quanti danni psicologici la vittima abbia ricevuto e strutturato dentro di sè: soprattutto se bambina (o bambino), la vittima viene plasmata dall'accaduto e se lo porta dietro, lo rende parte del proprio modo di vivere, amare o non amare, reagire e desiderare. Non sempre lo sviluppo della personalità va verso la serena e triste accettazione della violenza ricevuta, con il fermo proposito che il ricordo di eventi traumatici non causi ulteriore violenza. Non sempre, soprattutto, si hanno gli strumenti e i mezzi per chiedere aiuto. Quando impari da bambino a leggere il sesso come gesto di complicità e amore con il pedofilo (cosa sia l'amore ti viene insegnato dalla vita, non certo dalle parole degli educatori), l'atto sessuale assume significati che per la persona fortunatamente libera da ricordi di violenza sarebbero impensabili. Ciò che è torbido, duplice, connivente e sadomasochistico entra a fare parte di un orizzonte misto paura-repulsione-desiderio, si scambia facilmente l'erotismo per l'unica manifestazione possibile dell'amore. E, nei casi peggiori, si assume il medesimo atteggiamento del pedofilo conosciuto nell'infanzia, per un senso di rivincita, di vendetta postuma, ma anche di malsana passione assorbita con i gesti, e con l'impasto putrido di complicità e perversione acquisito nei primi anni di vita.
Il pedofilo (uso il maschile intendendo uomo o donna, indifferentemente) è spesso parte della ristretta cerchia familiare, o di quella degli amici fidati: se coinvolge un bambino o bambina in giochi erotici che millanta con amore o "amicizia segreta e particolare" crea il duplice danno della sofferenza fisica e della maledizione eterna di non conoscere più la differenza tra amore e tortura. Il bambino molestato cresce convinto di avere ricevuto attenzioni particolari e molto preziose in quanto essere speciale, non riesce a vedere che ogni dettaglio, anche il più insignificante, è stato solo il frutto di un'orrenda e brutale violenza fisica e psicologica. Rischia, successivamente, di vivere e desiderare il sesso come una ripetizione di ciò che nell'infanzia ha suscitato brivido, emozione confusa ma fortissima, intimità indicibile con qualcuno che "amava". Rischia di infilarsi in reazioni che ricalcano il rapporto vittima-carnefice, senza esserne consapevole, trasformandosi in vittima (ancora) oppure carnefice, incapace di fermare quella che, secondo me, non è altro che l'eterna ripetizione dell'orrore. Si resta vittime anche da adulti, a meno che non intervengano persone esperte che riescano a fermare un copione che è condanna.
Qualcuno all'incontro di Rimini ha detto che la pedofilia dovrebbe essere combattuta con la prevenzione. Ho seri dubbi sulla possibilità di prevenire un orrore che troppe volte fa parte della famiglia: come dicevo all'inizio, è difficile se non impossibile accorgersi della perversione di un fratello, una sorella, padre o madre, nonno o nonna, e ancora più difficile è affrontare il problema quando i segnali vengono percepiti e la verità rischia di rompere equilibri di affetto e immagine costruiti negli anni. Si ignora perché si desidera farlo, perché è la via più facile e accettabile per tutti. Perfino la vittima tace, anche quando prende coscienza della situazione (e ciò non accade subito, almeno non sempre). La vittima sa che non dovrà parlare, e se lo farà non verrà creduta, e se anche verrò creduta provocherà dolore. Il dolore dei genitori, dei parenti, di chiunque sarà colpito dall'evidenza di un vizio malato difficile da affrontare.
"Se parlo succederanno cose brutte, e sarà tutta colpa mia". "Forse ho sognato e frainteso, forse sono stata io a provocare l'interesse della persona che mi ama tanto e accuserò ingiustamente". Mi sembra di sentire i pensieri di queste vittime silenziose, che strutturano dentro di sè la colpa e la infilano a forza nella propria personalità, tirando fuori la rabbia molto dopo, con manifestazioni che niente hanno a che vedere con il motivo vero. Quello che avrebbe dovuto essere stroncato sul nascere da chi poteva.
Vittima. Povera, triste vittima.
Vittima. Pericolosa, triste vittima.
Mi è stato chiesto cosa mi aspetti da "Diario di melassa", che affronta il disturbo alimentare e la pedofilia. Ho risposto, e rispondo qui ora, che non è altro che un libro. Esistono decine, centinaia di altri libri su questi argomenti: alcuni hanno dentro la verità, cioè l'ambiguità profonda e disperante di chi davvero sa cosa significhi essere vittima, altri sono invenzioni. E' vero però che il silenzio totale che cade, cristallizza tra i lettori alle presentazioni di questo libro in alcuni momenti, e le testimonianze successive, a tu per tu, e le decine di email che ricevo mi regalano la flebile speranza che un libro in più possa servire a aggiungere voce. E' la stessa flebile speranza che ho sentito a Pontedera nell'ottobre 2009, quando ho presentato per la prima volta il libro al Festival organizzato da Librialsole e Tagete Edizioni. Non ho soluzioni, non ho scritto "Diario di melassa" con l'intento di proporne: avevo in mente di raccontare, l'ho fatto. Non aprirò gruppi anti-pedofilia sui social network, non mi sento in grado e avrei sempre la sensazione di essere fraintesa. Sono uno scrittore (anche qui uso il maschile, mi piace di più: è un termine globale, ha dentro uomini e donne) che ha voluto, e vorrà ancora, parlare di pedofilia e incesto. Posso raccontare cosa accada a una donna che ha sofferto pesantemente di binge eating disorder e, forse, conosce le conseguenze torbide della pedofilia. Posso, probabilmente, dire a chi si sente solo che l'aiuto esiste, e funziona. Posso testimoniare che si incontrano persone meravigliose in grado di capire, e persone aride che chiedono la cortesia di evitare alcuni argomenti. Oltre non voglio andare.
Vittima. Cosa è una vittima? E' una bomba inesplosa che ha dentro un buco orrendo, ecco cosa penso. Non merita pietà speciale quando provoca a sua volta dolore, va punita se sbaglia, ma avrebbe potuto ricevere aiuto: se non l'ha avuto forse la colpa è anche mia, vostra, nostra. Per ritornare a qualche paragrafo sopra, dicevo che in teoria la vittima dovrebbe ricevere più affetto e pazienza, ma non lo penso sul serio: di recente qualcuno che mi vuole bene ha detto che in una determinata occasione sono stata trattata malissimo proprio da chi sapeva cosa ho vissuto nel passato, e questo è ingiusto. No, non è ingiusto. Succede e basta. In fondo, è segno di normalità. Non esiste ragione per cui la gente debba usare con me tenerezza quando non ha voglia di farlo. La vita è questa.
L'intervista di MariaGiovanna Luini a Tiziano Scarpa, vincitore del Premio Strega 2009 con il romanzo “Stabat Mater”, pubblicata sulla rivista Gender.
Lo scrittore si confronta con gli aspetti psicologici necessari per descrivere la personalità di un’adolescente, la tecnica con cui scrive le proprie opere, la possibile differenza tra scrittura maschile e femminile, il potere terapeutico della creatività dopo un trauma o una malattia, i consigli letterari e - perché no - con il seno femminile.
Nel 2009 ha vinto il prestigioso Premio Strega con il romanzo “Stabat Mater” (Einaudi), ma nel curriculum ha tanti libri unici e indimenticabili (cito per tutto “Kamikaze d’Occidente”, Rizzoli): è scrittore, poeta, autore teatrale. Soprattutto, e questo forse dai libri può non apparire immediatamente evidente, è un uomo di profondissima comprensione dell’anima.
Nevica a fiocchi piccoli e densi. Scrivo da un po', ogni tanto mi alzo e guardo fuori: la strada già coperta di neve, le poche auto lente dietro lo spazzaneve che gira in paese, con le luci gialle accese, per permettere di muoversi a chi vuole andare a sciare.
Non è facile tirare fuori scritti nuovi quando sono in un romanzo. La notte scorsa ho perfino sognato i miei personaggi, e mi pare limitativo definirli personaggi: ho sognato Alessandra e Luca, e ho intravisto Livia. E Francesco. Fanno parte del mio quotidiano, la testa ritorna nella storia anche quando faccio altro.Va bene così.
Uso questo tempo di stacco tra un capitolo e l'altro per raccontarvi che ho ricevuto altra posta. Grazie, sempre, mi piace leggervi. E mi emoziona. Ho ricevuto i racconti scritti da un chirurgo: sono racconti brevi, impressioni e emozioni. Un altro uomo che sa descrivere l'amore, la stessa cosa dico sempre di Fabio Capello (lo scrittore, non l'allenatore) che in "Piccadilly Line" (Edizioni Creativa) ha dipinto l'amore con poesia e senza la paura tipica degli uomini. Vi suggerisco la lettura del libro di Fabio Capello, vale la pena perdersi con lui nella miriade di volti e passi che attraversano la metropolitana. Nel 2009 ho incontrato uomini capaci di amore, quello vero: come abbiano sfiorato la mia vita, se ci siano entrati per restarci oppure no, non ha importanza adesso. So che ci sono, e a loro devo un ringraziamento particolare perché, per qualche anno, sono rimasta ferma su un cliché di uomo (e di non-amore) orrendamente sbagliato, con esempi che, mi dispiace dirlo, mi hanno fatta vergognare delle mie scelte. Adesso è come se il quadro si fosse finalmente messo insieme, grazie agli scrittori che sanno descrivere la bellezza pulita dell'amore ma anche a chi sta facendo un pezzo di strada insieme a me. Come, non interessa: la sta facendo e basta.
Pezzo di strada, amore e non-amore, paura. Paura, a proposito. Mi è capitato di uscire a cena nella mia Brianza, una sera prima di Natale, con alcuni amici. Tra gli amici, un uomo per me un po' misterioso: potenzialmente potremmo essere veramente amici, con una complicità mentale che raramente ho sperimentato, concretamente invece percepisco il suo freno a mano tirato e da tempo mi chiedo perché. Beh, conosco alcune ragioni, in realtà, perché gli occhi e l'istinto ormai sanno portarmi molto più lontano delle parole, ma, ugualmente, sollevo dubbiosa le sopracciglia quando lo vedo fuggire e nascondersi senza motivo. Avanti di due passi, indietro di uno, sempre. Insomma, non volevo raccontare questo, però. Anche perché lui non c'entra, mi faceva piacere che fosse insieme a noi e l'ho citato. Volevo dire che, fuori a cena con un po' di persone e anche lui, ho buttato un'occhiata in una stanza laterale del ristorante e mi sono inchiodata al pavimento. Mi si è lavato lo sguardo di incredulità. In questa stanza laterale c'era, a un tavolo piccolo, una donna che conosco: l'amante di uno degli uomini presenti alla cena. Per chi mi legge da poco tempo oppure solo oggi, per caso, voglio precisare che il termine "amante" per me è il migliore in assoluto quando si parla di una persona che ne ama un'altra: amante cioé colei o colui che ama. L'amante racchiude ogni forma di amore: sensuale, erotico, spirituale, di intelletto. Insomma, non cercate frettolosamente giudizi nei termini che uso, a meno che non conosciate già la mia scrittura. Dai, vi racconto. Mi sono fermata a guardarla per essere certa di riconoscerla, e non ho avuto dubbi: era lei. Avrei voluto raggiungerla e portarla al nostro tavolo, perché era piuttosto ovvio che fosse là per stare accanto a lui, ma separata di fatto visto il ruolo di donna non ufficiale. Che tristezza. Ho percorso gli ultimi metri fino al nostro tavolo con i piedi pesanti e nessuna voglia di lasciarla là, in disparte. Quella stanza laterale ha concretizzato anni di riflessione e vita, pensieri sul ruolo che la donna permette che le si attribuisca. Per amore ci si fa mettere in una stanza laterale, in fondo a un auditorium se si partecpia alla stessa iniziativa culturale ma con lui in prima fila, che finge di non conoscere e non vedere. E' amore? Non saprei dirlo, una volta avrei detto di sì. Adesso che sfioro i quaranta e ho capito che no, proprio non ci si deve illudere che dalle rape si cavi il sangue e che esistono uomini veramente aridi e incapaci di rispetto, penso che chiamare amore una stanza laterale sia confondere le cose. Credo sia un modo per addolcire una verità troppo dura per essere ammessa: l'uomo si giudica dalla scelta della donna, ma vale il viceversa. Anche la donna va giudicata per l'uomo che sceglie (questa affermazione getta un luce inquietante sul mio passato, me ne rendo conto). E, soprattutto, in alcune fasi dell'esistenza si accettano abusi che, poi, appaiono esattamente ciò che sono: squallidi patteggiamenti vuoti di sentimento. A un'altra cena, settimane fa, il discorso è finito su un uomo politico che sta con una certa donna che, oggettivamente, potrebbe creare qualche problema di immagine: partecipavo alla conversazione con una certa veemenza, ma anche con la consapevolezza che i meccanismi di sensualità e amore (sia l'amore vero che quello falso, virgolettato) non possono essere discussi. Ognuno fa come gli pare. E ne prende, però le conseguenze. Per la donna che prima di Natale ho visto al ristorante, in disparte, la conseguenza è una stanza laterale. Perché lei l'ha voluta e lui l'ha permessa, oppure, se preferite, perché lui l'ha voluta e lei l'ha permessa. E' capitato anche a me di permettere o volere o accettare umiliazioni di questo genere, non credo lo rifarei. Oppure chissà, sono lenta e pigra nello stabilire regole assolute perché sono destinate a sciogliersi come la neve che viene giù oggi senza tregua.
Niente stanza laterale, invece, per la potenziale scrittrice CG. Mi ha mandato una lettera meravigliosa, ha parlato di amore, del suo amore, e mi ha fatta sognare. Ho riletto tante volte quella lettera da conoscerne passi a memoria. L'amore non va giudicato, lo dico a me stessa prima che agli altri, va annusato, assaggiato, bevuto quando è vero. SOLO QUANDO E' VERO, sono ripetitiva come un pappagallo ormai. L'amore vero e prezioso, qualunque colore e intensità e genere e sapore abbia, va vissuto. Perché sarebbe orrendo cacciarlo via o nasconderlo, rimuoverlo o farlo morire. Bellissima, CG, meravigliosa la tua storia, e belle anche, lo sai, le parole che usi quando scrivi. Non seguire maestri, usali solo per i dettagli tecnici e i trucchi del mestiere, ma lascia andare l'istinto perché dentro hai già tutto per essere scrittore. E non a tutti dico così. A pochi, anzi, perché di solito invece sfinisco la gente con suggerimenti di lettura e studio e approfondimento.
Concludo in fretta, e mi scuso, ma la neve che copre di silenzio il paese mi intontisce e chiama al romanzo. Vado, ma ritornerò. E grazie a chi legge, grazie a chi commenta e chi invece non lo fa, grazie a chi mi scrive.
Ha lasciato le stanze bianche e camminato con la testa vuota fino al cancello, poi ha messo i piedi sull'asfalto della strada. Poche automobili nel grigio del campo visivo, con il volto tirato su e esposto all'aria pungente e gelida del pomeriggio inoltrato. Non si è fermata fino alla pensilina dell'autobus, ha tirato fuori dal portafogli l'abbonamento arancione che vale ancora tre giorni e infilato in tasca il telefono. I guanti viola tengono caldo, ha pensato, crede di avere fatto bene a spendere i soldi una settimana fa mentre correva nelle vie illuminate del centro. Il trucco è fermo, niente cola dagli occhi: lo vede dal riflesso nel vetro della pensilina, e una donna alle sue spalle fuma la terza sigaretta; è magra, troppo, la pelle più bianca di un pallore anormale, non sano. E' uscita dalle stanze bianche, anche lei, e con la mano ha cercato il pacchetto delle sigarette nella borsa, senza guardare. Fuma molto mentre aspetta. La guarda solo attraverso il riflesso: si capisce subito che è una paziente, cioé ha il cancro. Il cancro, che parola tremenda. Ma comunque la giri è così, e la donna con la sigaretta tra le dita ossute lo sa benissimo. Se la fissasse un istante di troppo la sentirebbe gracchiare una frase rabbiosa: lo dice l'esperienza, lo dice l'istinto che le fa vibrare la carne sotto la pelle sensibile e infreddolita.
- Non mi dica di non fumare, tanto ho il cancro.
Direbbe così e stringerebbe le spalle in avanti per proteggersi, abbassando la faccia e contraendo le dita, perché anche lei ha capito. Sa di essere seduta alla pensilina insieme a un medico delle stanze bianche.
Le stanze bianche. Rassicurano anche lei, qualche volta. Sono costruite apposta, forse. Chissà se la donna magra con la sigaretta in mano si ferma a guardare la mostra e i libri, chissà se pensa a qualcuno che ama mentre sale sull'autobus e riparte. Ha un cappotto grigio stretto, quasi nuovo.
- Va anche lei allo Sporting?
Annuisce e le sorride. Lo Sporting è vicino alle stanze bianche, c'è un albergo dove i pazienti vanno quando devono restare in città per le terapie. La immagina in una stanza a fissare il muro, con la televisione accesa a parlare a nessuno; non mangerà, comprerà qualcosa ai negozi davanti alla fermata ma assaggerà soltanto. Fino a domani.
"Forse mi sbaglio, forse non è malata".
Sa che gli occhi non commettono questi errori. La diagnosi degli occhi, la stessa di suo padre.
- Guarda i pazienti, guardali, prima di prescrivere esami.
E li guardava, ha sempre guardato. Guarda anche adesso, perfino quando non vuole vedere. Perché se vede deve accettare, scendere dalla nuvola di illusione o oblio che la protegge dentro la scrittura. Se guarda, sa. E non sempre ha voglia di sapere.
Siede nell'autobus che si ferma al carcere di Opera, un'autoambulanza dentro il cancello e qualche macchina blu. Due furgone grandi, scuri. Non è difficile capire. Stanno male anche loro. Pensa. Anni prima, nelle stanze bianche. Il volto di un uomo, il racconto del suo pezzo di vita. Un'arma appesa al torace.
- Sono stato in galera per molti anni. Pensa di non volermi curare?
Sa di avere sorriso, come sorride adesso alla strada grigia e umida che sfila fredda fuori dall'autobus. Domanda fuori luogo e posta male, non necessaria. "Pensa di non volermi curare?".
L'autobus rallenta e si avvicina al marciapiede. Si alza, saluta con la mano e il guanto viola la signora magra, la vede scendere e cercare un'altra sigaretta. Non la lascia, la avvolge con lo sguardo perché le spalle non tremino al freddo dei metri fino al negozio di verdura. Comprerà qualcosa e salirà nella sua camera in albergo, poserà il sacchetto su un mobile e toglierà il cappotto. Poi fisserà il muro, le mani aggrappate alle sigarette una dopo l'altra. Fino a domani.
Natale è un delirio collettivo. E non nego che mi piaccia. Mi infilo nelle carole e nelle luci colorate con l'incanto di chi ha voglia di illudersi, cammino al freddo con le dita abbracciate dai guanti viola e cerco alberi, piazze addobbate, stelle filanti che si accendono e spengono e, se sono moderne, cantano anche qualche jingle d'annata.Mi viene in mente un anno qualsiasi, una via di Milano con i taxi bloccati e un saluto affettuoso a mio padre dopo una passeggiata di rara armonia: è la nemesi di questi giorni che si ripetono uguali nella novità della vita che cambia, non si riesce a fare a meno di ritornare al passato, ci si trova prigionieri di eventi e persone, relazioni edulcorate o apparenti che hanno seguito percorsi diversi. Potrei andare a un anno fa, solo un anno, e scoprire che tutto è cambiato, ma farlo va oltre l'energia che ho deciso di spendere: il rito che pochi osano spezzare tenta di mantenere un incanto arcano e fittizio, motore vero e malefico della malinconia. La malinconia del Natale, la sua retorica becera.
Invidio i miei amici che partono ora per New York: ricordo la città rivestita di Natale come nessuna, i cori davanti alle chiese e tutto ciò che fa film americano, e sicurezza, e poesia consumistica e semplice. Il delirio, appunto, cui non potrei rinunciare. Vorrei andare con loro e camminare semiassiderata per le vie di New York, bruciarmi i polpastrelli con gli angoli dei libri da sfogliare e mettere nello zaino, fingere uno shopping che in realtà non ho mai fatto. Perché è l''idea, solo l'idea a gratificare. Vorrei l'odore di New York nel naso: chi ci è stato almeno una volta sa cosa intendo, New York si intrufola nei sensi e ti spiega che vivere in pieno un luogo si può, si può davvero, e gli odori tracciano un percorso da seguire anche a occhi chiusi. Perché quando impari non puoi più sbagliare. Una volta, a New York, ero incinta, e l'olfatto era amplificato dagli ormoni di quella precoce, fallimentare gravidanza: fu un colpo di fortuna, nonostante tutto, perché riuscii a farmi entrare nel cervello dritti, senza sinapsi lente o circuiti necessari, gli odori acri, dolci, poveri, sontuosi della città con un fervore unico, il fervore particolare di uno stato atipico destinato a dissolversi.
Il mio giorno di Natale è stato bellissimo e strano. Inatteso, anche. Sono stata con persone diverse dal solito, da un sempre che pareva eterno. Ho rotto una tradizione di vita, una specie di trauma con voci e volti diversi dal nucleo che ero abituata a vedere. Una famiglia diversa, amore diverso. Sono stata felice, per la prima volta la follia non ha riguardato la retorica dei tempi andati e delle persone che non ci sono più. Il Natale, maledetto per questo, sembra fatto apposta per tirare fuori dai cassetti chiusi e polverosi i rimpianti e le memorie che non servono. A costo di essere brutale, che i morti e gli andati siano vivi nella nostra mente, ma non più pericolosi per i giorni come questi. Vorrei che in un futuro improbabile, se proprio dovrò morire (non ne sono ancora convinta: credo di essere eterna), non mi ricordasse con la lacrima natalizia e le frasi sospirose. "Eh, quando c'era". Non fatelo, se mi volete bene. Ci sono adesso, ricordo i miei morti e i vivi e gli andati e i rimasti, ma il delirio delle Feste più molli e gioiose che esistano non deve strozzarmi di pianto misto a soddisfazione per i regali e il cibo e i biglietti con scritto un po' di pensiero. Perché mi piacciono i regali, mi piace l'atmosfera, mi piace il sorriso di chi mi sta accanto in questo Natale.
Osservavo il fluire rapido delle parole su Facebook, ieri sera. Auguri, auguri, auguri. Qualcuno ha osato dire "Che noia". Ma auguri, comunque. Non mi sono tirata indietro. Ho mandato un video a tutti, a chiunque, a nessuno, ho fatto parte del delirio volentieri. Insomma. Come si fa a non amare il Natale? Se devo stabilire una graduatoria, a me piace più di tutto guardare le luci colorate. Mi sono fermata decine di volte di fronte al Duomo (avete visto quanto è bello adesso, così pulito?) e lo sguardo si è riempito di gioia. Ho spazzato via ricordi e ataviche rabbie, inutili ormai, e goduto della musica, dei passi un po' scivolati sui rimasugli di neve, dei negozi non troppo pieni e della cioccolata calda con la panna sopra. Del panettone morbido da mettere sul calorifero. Delle persone cui dare, quelle che non potrebbero avere un Natale, forse nemmeno dovrebbero pronunciare la parola perché la vita ha tolto tutto: dare a loro è il migliore regalo, ma di questo non parlo. Che si dica pure che mi aggrappo al consumismo, ormai accetto volentieri ogni lettura di me, anzi mi ci diverto, perché detesto chi mette in piazza altro: ho visto ricconi dalla generosità sbandierata e fintamente taciuta, benefattori grassi con la barba scura piegata su vestiti di marca costosa comportarsi come bestie con chi li amava, anime pie inginocchiate a messa che poi commentavano il vicino dandosi di gomito, volontari dagli occhi persi nella beatitudine della carità infilare nella borsa i pacchetti regalo per i poveri come ricordo di giornate speciali. Basta, no, non è questo che volevo per il post di Santo Stefano. Era il delirio del Natale, solo quello.
Siamo vittime felici. Il Natale arriva e ci costringe a sbuffare per i regali da trovare, i soldi da spendere, le ore da trascorrere in cucina, gli addobbi per ogni angolo visibile della casa. Ci fa dire agli amici che, come ogni anno, dovremo ospitare la famiglia al completo "e con i nipoti fanno trentacinque", e in fondo godiamo di questi trentacinque perché niente come il Natale ci permette di entrare nel ruolo: le mogli ricordano ai mariti che nessuna amante saprà fare meglio di loro, i mariti accarezzano per l'ultima volta giovani carni flessuose per ritrovarle dopo l'Epifania, annoiandosi con i figli da portare qua e là e le suocere ottantenni un po' sorde da caricare in macchina la mattina stando attenti che non prendano freddo. E' Natale, è così. Ma piace, a tanti. Anche a me. La retorica del dare e del pensiero a chi soffre vale tutto l'anno, non può essere compensazione del senso di colpa sciocco di chi può, questa volta, vivere le Feste con un sorriso. Che scemi i cantori della povertà che si attivano solo a Natale! Sarà forse l'altro mio lavoro, la passione medica che mi possiede da sempre, ma non riesco a pensare a chi soffre solo a Natale; anzi, mi fa rabbia l'occasione colta al volo per le campagne che dovrebbero appartenere a tutti i giorni dell'anno. "E' Natale, ricordati di chi non può viverlo come te": non sorrido per queste frasi tragiche e bieche, fingo di non capire il significato nascosto di un interesse sporadico. Natale, anche questa è retorica, e finiamola lì. Ho avuto anni con Natale senza doni e senza soldi, con la tristezza del non potere fare festa, ho conosciuto giorni migliori o meravigliosi o tristi o solitari. Conosco la vita, fingo di non ascoltare i sussurri di chi mi vede camminare nelle vie di città ricche dove il disagio sembra rimosso; ho avuto la parte di povertà e tristezza che mi spettava, forse l'avrò ancora, in un futuro che non amo indagare. So cosa sia un Natale senza. Senza amore, senza emozione, senza un pacchetto da aprire, senza tutto. Senza sorriso. Eppure. Scrivo, nella penombra di una casa vuota che sussurra alla neve che si scioglie, e mi piace guardare la luce degli alberi accesi nelle finestre di fronte alla mia. Vorrei che non si spegnessero, li vorrei in ogni stagione per le mie sere con le mani piagate dalla scrittura. Vorrei gli alberi morti coperti di palline che girano al vento e candeline elettriche che si accendono e spengono. Fa parte del gioco e mi piace. Succede.
Credevo che non avrei scritto, pensavo di leggere benevola e muta i pezzi altrui sulle rimembranze e la malinconia del Natale, un delirio collettivo voluto da religione, consumi e quiete pubblica: avevo deciso di tirarmi fuori e godere la vita, senza cadere nella trappola banale delle carole che tanto mi fanno sospirare. Invece. Mi sono seduta, ho digerito un pezzo di panettone e bevuto uno o due bicchieri di acqua. E ho scritto, perché diversamente non so vivere. Faccio retorica anche io, in fondo. Evviva.
CARA MARIAGIOVANNA, ieri sera il vicino mi ha consegnato il tuo terzo romanzo (?) "Diario di Melassa.Anche se tardissimo l'ho letto in un respira-butta fuori l'aria.Brava! Oltre a un'evidente evoluzione stilistica,affronti temi importantissimi su cui riflettere.Hai trovato il giusto distacco per guardarli in faccia con criticità e umana pietas.E non ti è mancato il coraggio per ammettere realtà colpevoli per superficiale responsabilità voluta o restata a metà del cammino per oscuri meccanismi di difesa (?) o di demoni mai veramente visti e tenuti a bada.Un grande impatto emotivo è ciò a cui io sono stata avvolta prima di addormentarmi (finalmente) appagata dall'ammirazione per te e per una Donna che ha trovato la fierezza della DIGNITA' che non sbraita ma dice.Auguri.Con "questo" aiuterai molte/i a uscire dal guscio e a NON avere paura di dire attraverso l'elaborazione difficile e dura del dolore trovando il "nuovo" pieno di sè l'orgoglio per non essersi arresi.Ti abbraccio. Mirka Bonomi
“…la parola scritta … era dentro di me, un bisogno che avevo afferrato prima di ogni altro …” (p. 23)
DIARIO DI MELASSA è un singhiozzo sedato.
Privo di odio, privo di rabbia.
Come tutti i singhiozzi, i singulti, i conati si placa nell’espressione di se stesso.
Nella propria verbalizzazione.
Silvia Delaj
"QUESTO romanzo, e lo scrivo in maiuscolo, l'ho sentito veramente MIO. Spiego meglio: è graffiante perchè tratta di problemi che sono radicati nella nostra società.......pedofilia ,tradimento,ansia di essere (per gli altri )quello che non siamo, bulimia e anoressia.....apparenza,indifferenza delle persone e l'inevitabile chiusura degli "occhi"perchè è molto più comodo non vedere il malessere di chi ci è accanto. FAME, tutti noi abbiamo fame di qualche cosa, ma di cosa esattamente? C'è chi ha FAME d'amore,FAME di solitudine ,FAME di sesso,FAME di sapere,FAME di ricordi,FAME di abbracci,FAME d'amicizia, FAME di gioia,FAME di autodistruzione e anche FAME di vita....... sì ,io ,ad esempio ho una FAME furiosa di VITA,la sbranerei in un sol boccone se solo sapessi e avessi la certezza che così facendo la ingloberei dentro di me per non farmi mai e poi mai abbandonare......rendendola mia prigioniera... Riesce sempre a smuovere l'anima,e ora non riesco a placarla ma anche questo è vivere......
Ogni tanto cerco giorni e scritture passate, mi chiedo quanta strada sia tra me e i pezzi che ho lasciato nella memoria del blog. Lo faccio quando la pulsione a scrivere è sottile, aspetta un incipit, un'occasione al di fuori dei "lavori" in stesura. Difficile da spiegare (inutile, anche): è una vibrazione piccola densa di inquietudine, sussurra qualcosa che si chiarisce solo dopo, quando il canale è aperto e le dita buttano giù parole. Questa sera è accaduto e, con la nausea di una difficoltà di giudizio acuta, dolorosa, ero pronta a rinunciare: ho scartabellato il blog e cancellato troppo, sull'onda del malessere che mi toglie leggerezza. Nell'ultimo gesto delle dita, in un clic che ormai credevo simile agli altri cioé sterile, deludente, privo del gusto di una scrittura riconosciuta accettabile, sono arrivata qui.
"Potrei scrivere", il titolo dice niente. Ma, si sa, i miei titoli sono brutti: fosse per me metterei colori o numeri. Meglio colori. Infatti aggiungo al vecchio titolo "parole blu". Le avevo promesse, le parole blu, ora le ho trovate. Mi sono fermata a leggere queste righe e ho ricordato la donna che, a una festa di quasi due anni fa, ha ballato felice e mi ha detto alcune cose. Cose che porto nel cuore anche se non si sono avverate, anche se la sua profezia è stata illusione per lei, e per me.
Non dirò cosa mi abbia detto la donna alla festa, ho avuto la strana e (per me) inusuale saggezza di nascondere la parte maggiore del discorso anche a suo marito, quando me l'ha chiesto. Tanto, la condivisione di istinti che avevo con quella donna sarà sempre incomprensibile per chiunque. Tranne noi, lei e me. E a me basta, anzi per me è tutto: sapere che ci siamo comprese, amate, odiate, di nuovo amate e strette in un abbraccio è un possesso vero e intimo che nessuno potrà strappare o mettere in discussione.
Pubblico di nuovo nel presente ciò che era diluito nel passato. Perché quella donna che ballava due anni fa adesso è morta. La porto nel cuore insieme ai segreti che ci siamo confidate a vicenda. A lei dedico queste parole blu.
Potrei scrivere. Potrei. Ci sono giorni che diventano secoli e cambiano tutto, aggrumano storie impossibili da raccontare. Almeno per un po'. Questa sera ritornavo in una città che non mi piace e lasciavo il cuore indietro, e ricordavo una festa e musica e danze. E una donna felice, che ballava insieme a noi. Noi vivi. Insomma, potrei parlare della storia ma non riesco a cristallizzare emozioni straordinarie in frasi lineari da buttare giù e correggere. Perché possano essere lette. Si dice che mi esponga, butti la mia vita in pasto. La verità è che si vede ciò che si vuole vedere. Si può fraintendere l'invenzione e prendere per vera una bugia, si può scartare la verità perché inverosimile o banale. Non credo di esporre me o altri, espongo l'instinto di mani che scrivono. Sono pronta a rispondere alle obiezioni, pronta a chiudere in un silenzio che scivola via il massimo dell'incomprensione trasformato in pettegolezzo sudicio perché ad altro non ci si può aggrappare. Mi sono arrabbiata, di recente. Il motivo non ha importanza qui, in questo spazio di tutti. Ce l'ha per me ma non cambia il fluire delle parole e non interessa chi legge. Si arrabbiano in tanti, poi passa. Oppure no. Come le lacrime, quelle che mi vengono ogni volta che ripenso alla donna che l'anno scorso ballava felice e oggi non balla. Credo. C'è una retorica che odio, la beatificazione di chi è andato per non ritornare, che fa perdere la visione. Quella vera. Vorrei che mi si ricordasse con le ombre, anche, non solo con il sorriso e la benevolenza e la generosità che sempre si dicono. Vorrei che la nostalgia per la donna che ballava felice fosse l'equilibrio di ricordi esatti, per lei e solo lei. Con la gioia e il dolore e la rabbia e i litigi, e le ore belle ma così belle che non si può più dire. Vorrei che la vedeste ora, con i miei occhi. Nella luce. Insomma. Vorrei che ballasse ancora, felice. Arrivo in una città che non amo e riparto in fretta. Potrei scrivere, forse.
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