racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
Fa un po' impressione. Sto cercando frasi adatte e non le trovo. Questo blog è la storia del mio rapporto con i lettori, è stato l'inizio della parte della mia scrittura condivisa con la gente. Mi ha portato i primi contatti con gli editori e relazioni umane che vanno oltre e al di là dei libri. E' più di uno spazio, più di un giornale online: è luogo di scambio, scoperta e discussione continua. E adesso trasloca. Nella rivoluzione dei quarant'anni e della vita, metto in valigia quattro cose e parto.
Da oggi, niente più post in questo blog: con i miei racconti, con i pezzi di parole e i libri, e le fotografie, vado nel nuovo sito internet. Proseguo il cammino là, questo è l'indirizzo:
Vi aspetto nel sito internet, quindi, basta fare click e memorizzare quell'indirizzo: pubblicherò là, nella sezione blog, tutto ciò che di nuovo mi verrà da scrivere, e potrete lasciare commenti esattamente come avete fatto qui.
Lasciare andare le mani, è questo il senso. Abbandonarsi alla scrittura e decollare, lasciando indietro ciò che non ha relazione. Ciò che non è, in effetti, perché l'altro dalla scrittura non ha consistenza, la assume negli spazi liberi, nei vuoti silenziosi che altrimenti rischierebbero di implodere nel buco nero dell'inedia. Scrittura oppure niente, e il niente da riempire. Ho ascoltato brani a decine: lunghi, brevi, con l'audio storto oppure gestiti da professionisti della comunicazione. Scrittori a me simili e da me distanti hanno spiegato cosa sia per loro la scrittura. Li ho sentiti e decifrati nelle lingue diverse che sono riuscita a possedere, ho interiorizzato e paragonato a me personalità opposte e scritture aliene. Oppure aspirazioni comuni come quella casa nella campagna francese che avrei voluto insieme alla quiete, e ai libri, e al sorriso pacato e radioso di tortuosa consapevolezza. Di chi, sta a voi scoprirlo: la Rete è piena di bellissime interviste che spero non vorrete perdere.
Cosa è la scrittura, ecco la domanda che non può mancare: arriva a ogni incontro con i lettori, nelle interviste, nei discorsi da bar (non vado al bar, ma lo immagino) o con gli amici al ristorante. Qualcuno non chiede, tenta di ipotizzare poi si corregge nell'esitazione imbarazzata inevitabile del mio sguardo stentoreo: "La tua passione per la scrittura", "Il talento", "L'hobby", "Il bisogno". Non c'è bisogno che dica che passione e hobby ricevono sputi metaforici che a stento evitano di concretizzarsi in gesti carnali; l'istinto, il bisogno e ogni altro azzardo si perdonano di più, ma sono "uno" e non centrano l'obiettivo. Uno, non la molteplicità frammentaria e condensata in mistero segreto che è per me. Bisognerebbe evitare di chiedere, oppure tacere sulle ipotesi. Cosa importa cosa sia la scrittura per me? Quale significato ha interpretare le mie mani che scivolano sulla tastiera o sui taccuini, la testa impastata a una storia, ossessionata da un finale che manca, tormentata dall'incipit che deve essere perfetto? Nessuno chiede a un usignolo perché canta. Forse perché l'usignolo non saprebbe rispondere, o riderebbe mascherando l'ilarità con un gorgheggio apparentemente stolido.
Cosa sia la scrittura per me è affare che non riguarda il mondo, e non riguarda me. Perché non me lo chiedo, esiste e basta. Sono la mia scrittura, qualunque cosa significhi. Mi vengono in mente le critiche, di solito mascherate da pseudonimi o anonimato (chissà poi perché), e le so, adesso, rinforzate dalle mie parole: "Sono la mia scrittura", evidenza becera per alcuni, sorprendente per altri, assoluta per me. Eppure, se ritorno con la memoria a mesi, anni fa capisco che la scrittura è metamorfosi plastica e incagliata nelle pieghe necessarie dell'anima: non direi adesso ciò che ho creato prima, non confido solo nell'istinto e nell'immediatezza delle frasi fluenti, credo alla tecnica e all'autocritica, non accetto che chiunque possa dirsi scrittore. Ho perso la democrazia e il buonismo, forse per effetto dell'età oppure perché ho visto pubblicare opere raccapriccianti che hanno occupato indegne uno spazio tolto ad altri. Lo spazio di un'uscita che avrebbe potuto cambiare la storia, e il modo di pensare, e il piacere di chi sa cosa significhi leggere. Leggere, a proposito. La connessione tra scrittura e lettura non vede d'accordo i più. Il talento è talento, si può scrivere senza leggere: non lo dico io, non mi sognerei di farlo. Credo al DNA che ci determina e, con le associazioni casuali delle basi azotate, decide se io sappia scrivere o no, quindi posso ammettere che si possa scrivere senza amare la lettura, ma la mia limitatezza di quarantenne arrivata dalla Brianza fatica a immaginare che si possa essere scrittori e non leggere le opere altrui. Che retorica, sono partita da A e non arrivo a Z. Sono arrivata al solito pistolotto sulla lettura, penso che a breve arriverò all'esortazione ai giovani e mi alzerò in piedi sulla sedia, caracollando sulle ruote che non stanno ferme. Perdonate voi che leggete, e chi si è fermato dopo le prime righe perché ha capito che non è un racconto lieve e nemmeno un'allusione erotica non ha il problema di riflettere e digrignare i denti.
Scrivere cambia la vita. La vita cambia lo scrivere. Parole e versi, facce sbattute nella telecamera ammiccanti e senza sorriso (avete notato che gli scrittori raramente sorridono? Me l'ha detto anche un bambino, un paio di anni fa, a un incontro con i lettori: non sono uno scrittore vero perché sorrido troppo), musichette di apertura e chiusura di clip che su YouTube vanno a mille. Ognuno di noi tenta, prima o poi, di produrre il proprio video in cui regala la scienza esatta sulla scrittura. Perché scrivo? Aspetta che te lo dico, stai fermo un istante che mi immortalo nel video o in questo blog e sputo fuori parole che potrai regalare agli amici o citare nelle diapositive sulla creatività. Già che ci sono, ti racconto perché Picasso dipingeva, o perché lo faceva Monet: pensa che bomba. Scopriamo l'essenza della creazione, l'essenza di ciò che è arte. Peccato che la creazione non si dica. La creazione è.
Le mani scivolano bestiali e fluide, la tastiera rende eterno il pensiero affastellato che tiro fuori per voi. Sto scrivendo, sto raccontando, sto facendo la stessa cosa senza l'ausilio del video: nella sequenza delle frasi viene fuori la scrittura, e cosa penso. Cosa sia la scrittura per me, questo vedete se vi concentrate e se avete avuto il coraggio di arrivare fino qui. Chissà quanti siete: mi piacerebbe proseguire a lungo, con ragionamenti che portano lontano, per il gusto torbido di trascinare con me i più motivati, gli annoiati o i pazzi. Non so se lo farò, il motore della scrittura in questi pezzi di non-narrativa, non-saggistica, non-qualcosa è imprevedibile. Si accende, parte e non si sa quando finisca il carburante. Scopro sillaba dopo sillaba di avere qualcosa da dire, si materializzano concetti discutibili o aleatori su uno sfondo bianco niveo sporcato da caratteri neri tozzi che, al termine, ridurrò a dimensione 14. Scrivere, questa bestia agognata e temuta, questo obbrobrio da criticare perché pericoloso, o stimare se ci solletica l'amore di noi. Tu che mi guardi, vuoi che racconti di te o taccia? Vivi nella paura che prima o poi mi scappi un'allusione oppure sogni di diventare il protagonista di una storia tutta sesso, forza e crudeltà? Scrivere: lo fanno tanti, troppi, e troppi si illudono che sia letteratura. Mi illudo, io? Taccio, ma non per pudore: semplicemente, non lo so. Non sono io a doverlo dire, non mi pongo il problema, non adesso e non qui. Me lo pongo, credetemi, in altre sedi con un tormento dentro grosso come la morte. Perché la responsabilità dei vostri occhi addosso pesa sulle spalle, è piacevole e tremenda. Non credete a chi dice che scrive per se stesso, ma poi pubblica: l'atto in sé, la scrittura è autoerotismo puro, anzi più dell'autoerotismo, è piacere impossibile da riprodurre in altro modo, ma l'intenzione nello scrittore è sempre parcellizzata e ricomposta in miliardi di immaginari. E l'immaginario dello scrivere solo per sè è improbabile. Dopo un po', si impara a intuire il guizzo, la natura, la qualità dell'istante: ci sono scritture che sono davvero per sè, nascono e si sviluppano in un certo modo, con un sentire peculiare, e scritture che da qualche parte andranno, e riempiranno pupille e mani tese per afferrare la carta e la copertina e l'inchiostro impresso. Si sa che i pezzi che escono avranno un bersaglio, un lettore o mille.
Di recente, voglio raccontarvi, uno scrittore amico ha suggerito alcune cose che mi hanno spinta a riflessioni oltre. E oltre. E oltre. La verità esce nitida dalla foschia e sembra tanto semplice da assomigliare all'ovvio, ma mi succede di avere bisogno di una mano altrui che tolga il velo. Insomma, si parlava di critiche e della definizione di "scrittrice bulimica", definizione che in fondo non può offendermi perché ho dichiarato in "Diario di melassa" di avere sofferto di binge eating disorder (altro che bulimia!). Chi mi chiama bulimica lo fa per alludere al quanto, cioé al numero di libri e racconti e pezzi sul blog, e l'accezione è negativa. Insomma, qualunque sia l'intenzione non ha importanza: c'è chi scrive stitico, cioé pochissimo e con fatica (avrei nomi di scrittori notissimo ed eccellenti), chi scrive normale (non mi vengono in mente nomi, o forse uno sì) e chi scrive bulimico. Come me. Accettare lo stato dell'essere è saggezza ma anche passività pericolosa, quindi la bulimia scriptoria mi ha chiesto la riflessione. Sono proprio sicura sicura sicura che niente si possa fare? Che sia giusto così? Sono certa di rinunciare a un periodo sabbatico che forse potrebbe rivelarmi pezzi che ancora mancano? Ho sconfitto il binge eating disorder perché era malattia, perché non concentrare lo sguardo sull'eccesso delle mani che corrono sul foglio o sulla tastiera? Lascio sospeso il dubbio, che non mi tormenta proprio per niente ma che, come tutti i dubbi essenziali, da qualche parte mi porterà.L'amico scrittore ha squarciato un velo, nei miei neuroni cala il silenzio della gratitudine e di una corazzata da quattro colpita e affondata, come nella battaglia navale che mi piaceva nelle ore di ginnastica o religione.
Poco prima di iniziare questo delirio ho salutato via email Gianluca Ferrara, il mio editore Creativa. Si parlava de "Le parole del buio", esaurito, e di una possibile ristampa. Oggi, proprio "Le parole del buio" è stato il regalo che, insieme alla mimosa, le donne di Novellara hanno ricevuto dal Comune. Che vita misteriosa, i libri, imprevedibile e stupenda. Oppure squallida e triste, potremmo dire, per alcuni. Viaggiano, si fermano e perdono il fiato, poi qualcosa, un canto leggero in fondo alla foresta, li tira fuori. E, come un vento allegro e dispettoso, pungono la faccia con energia nuova.
La scrittura, che mistero irrisolto, ameno per me, che arma pericolosa e stupida e micidiale, che sollievo e piacere e buiolucebuioluce. Che essenza indistinguibile dal mistero.
Il Comune di NOVELLARA ha sempre accolto la mia scrittura con l'entusiasmo e la disponibilità dei veri amici. L'amica Ebe Mirka Bonomi, che insieme a me ha incontrato più volte i lettori rendendo i reading indimenticabili grazie all'interpretazione unica, è presenza costante e stimatissima in questo blog.
Ringrazio con amore Ebe Mirka e il Comune di Novellara per l'amicizia e per questo grandissimo dono: l'8 marzo insieme alle mimose le donne di Novellara riceveranno dal Comune "Le parole del buio", il secondo romanzo che ho pubblicato con Creativa nel 2008.
Dovrei imparare dal gatto Camillo: quando ritorno a casa lo trovo in un sonno placido e innocente tra i cuscini del letto, sotto il copriletto che sembra perfetto, liscio e impeccabile come se non fosse stato spostato. Invece Camillo è sempre lì sotto che dorme: si infila languido e sinuoso tra il margine del copriletto e la testiera, scivola sotto e si nasconde. Per le dormite più immemori e placide che si conoscano. Camillo ha ragione: dovrebbero esistere momenti di scivolamento pigro e silenzioso sotto ripari perfetti che non lasciano impronta. Probabilmente i ripari esistono, il problema è che non tutti sanno vederli; se anche li vedono, rimandano indefinitamente l'istante in cui il ristoro si cerca e la figura si cela per qualche ora alla rapina altrui.
La notte scorsa, verso le due, ho ricevuto un sms. Il mio sonno è molto leggero, è bastato il piccolo pic pic per svegliarmi e darmi una strizzata di angoscia. Ho letto il messaggio e i pensieri sono partiti senza controllo. I miei pensieri partono spesso senza controllo, chi mi conosce lo sa. Comunque, ho messo il telefono di nuovo sul comodino, chiuso gli occhi e dedicato una riflessione lirica a chi non ha minimamente riflettuto sull'opportunità di scrivermi alle due di notte sottolineando un possibile motivo di preoccupazione. Dopo la riflessione ho cercato il sonno. Invano. Non avevo il copriletto sopra la testa, non avevo badato a procurarmelo e, cosa ancora peggiore, avevo lasciato il cellulare troppo vicino e troppo acceso. E' come quando dò retta alle persone che vanno dietro a pensieri neri: so che esistono persone così, so che inevitabilmente i loro discorsi finiscono in imbuti depressivi o ansiogeni, so anche che sono troppo sensibile per considerarmi immune dal contagio nevrotico, eppure non riesco a trattenere la curiosità di incontrarle quando me lo chiedono. Niente copriletto, anche lì, niente pisolo rilassante lontana dagli occhi della gente.
Ho acceso il computer con il respiro di Camillo sotto il copriletto, dopo una doccia fredda e un minuto di occhi chiusi e orecchie vuote. Giornata così. Così, proprio così. Non saprei che altro dire. Esistono argomenti che si possono spalmare in un blog e argomenti che dovrebbero (condizionale d'obbligo) restare nella mente, o nel cicaleccio bello di pochi. Insomma, lavorare nell'ambiente oncologico può portare giornate così, per tante ragioni: ciò che si vede, ciò che si soffre, ciò che si osserva increduli scuotendo la testa. O un misto di tutto, variamente shakerato. A volte capita di riflettere sulle priorità che cambiano all'improvviso di fronte alla malattia: come è vero, davanti agli occhi balena la fine possibile e la testa si ribalta, l'elenco di ciò che importa è stravolto in pochi attimi. Poi. La vita cammina, e non sempre la rivoluzione delle priorità resta quella dell'emergenza: si ricomincia ad arrabbiarsi per il banale, per le diatribe tra colleghi, per l'amante che non risponde a sms erotici, per piccoli grandi torti che immaginiamo di subire. Ci si arrabbia per il parere di un agente letterario, per esempio (un giorno pubblicherò un'analisi genetica degli agenti letterari: hanno proprio un DNA a parte), oppure si riesce a ridere per una critica perché di fronte si ha una donna di venticinque anni cui è stato diagnosticato un tumore e allora, lasciate che ve lo dica, dell'agente letterario non frega assolutamente niente. Come ondeggiano i nostri valori, come ci si sente forti o deboli, belli o brutti, vincenti o sfigati e in balia del vento! Forse andiamo a giorni, o, al massimo, a settimane: umore, ormoni, eventi, sensazioni, un ottimo polpettone di eccellenti motori spinti al massimo. Fino all'incoerenza. O alla mutevolezza, che incoerenza non è, solo accettazione del tempo che scorre e porta via.
Vi succede di sentirvi sbranati? Tagliati a pezzi slabbrati e dolorosi, abusati, rapiti, defraudati della dignità e del minimo spazio vitale? A me capita, e a niente valgono gli insegnamenti remoti delle suore: non sono felice a priori e grata per il cinguettio degli uccellini, ho imparato a ammettere in modo salutare che alcune cose no, proprio non mi piacciono. E non le accetto. Vedo tanto di più la bellezza dell'amore, vedo la gioia, vedo la fortuna quando c'è: vedo anche che ogni giorno, perfino quello che sarà ricordato come il peggiore, è sempre un'alchimia di bello e brutto. Poche cose apprendo nella retorica, ma una vale: la vita offre e toglie nello stesso momento, sempre. Mai tentare un bilancio, ma guardare con occhi puliti sì. E ammettere che insieme all'orrore c'è anche anche la luce, e viceversa.
Ho già detto che dovrei fare il predicatore. In un'altra vita ci penserò su. Ho visto lo spazio bianco nel blog e avuto voglia di scrivere, di parlarvi senza la metafora dei racconti rischiando di annoiare. Chi si annoia ha già smesso di leggere, quindi non mi preoccupo. Davanti ho la foto di mia nipote che mi augura buon compleanno: questo è bello. Nella testa ho una donna che oggi ha avuto un trauma terribile e non ho potuto fare altro che starle accanto: questo è brutto. Domani sarò con Nicoletta Carbone a radio24: questo è bello. Ho avuto l'ennesima discussione apparentemente utile ma di fatto complicata con un agente letterario: questo è brutto. Esistono persone che stimavo e mi hanno deluso, e anche persone false: questo è brutto. Ho intorno a me persone che mi amano, riamate: questo è molto bello. Ho in programma tante presentazioni di "Diario di melassa": questo è bello. Ho persone care in serissima difficoltà economica: questo è tanto brutto. Potrei andare avanti, e anche voi: sono sicura che abbiate seguito la mia cantilena e sostituito i miei piccoli dettagli con i vostri. La mia vita con la vostra. L'altalena del bello e brutto prosegue per tutti.
C'è una madre che oggi avrei voluto consolare o addormentare perché non sapesse e non vedesse, una donna cui voglio bene. C'è una figlia che ho visto diventare donna, con fiducia e energia mi ha accanto in un periodo difficile. Ma c'è anche la mia libertà, sapete? E la libertà adesso dice che per questa madre e questa figlia, e per il padre ovviamente, sono veramente incazzata. L'amore per loro e la sensazione che alcuni eventi siano contro natura mi fanno piangere e arrabbiare. Quando tolgo il camice e lascio la faccia di gomma della sicurezza appesa all'attaccapanni mi inferocisco per l'ingiustizia del caso e della malattia. Le suore non sarebbero d'accordo.
Ho voglia di un film vecchio, scontato e senza impegno, oppure di un copriletto impeccabile che mi nasconda la testa. C'è un nucleo di felicità inspiegabile che brucia dentro, non è coperto del tutto dal mutismo calato su di me appena entrata in casa. Ma come, un attimo fa ero arrabbiata e ora parlo di felicità? Sono arrabbiata e triste, lo sono tanto, eppure percepisco il soffio sottile di un'energia che posso chiamare vita e, senza capire il motivo, felicità. Attribuite l'insensatezza delle parole a un deperimento precoce dei miei neuroni o al tormento sconclusionato dell'artista, affari vostri e non miei. Io mi sono chiara, finalmente. Se dovessi raccontare a una ventenne il vantaggio dei quarant'anni in incipit che sto vivendo forse direi che ci metto meno tempo a eliminare la zavorra e vedo una strada per affrontare anche i problemi più grossi (magari la immagino, magari non è reale, ma la vedo, e mi ci aggrappo). Chissà.
sarò in diretta con Nicoletta Carbone a "Essere e Benessere", su RADIO24.
Parleremo di "Diario di melassa" e di cibo: quale rapporto abbiamo con il cibo? Cosa rappresenta per noi? Potete proporre argomenti e riflessioni in tema inviando un messaggio email a [email protected], oppure lasciando commenti nella pagina Facebook dell'evento.
Un'altra notizia per me bellissima è che Sara Caminati e Innovation Marketing hanno creato per me un sito totalmente rinnovato. Li ringrazio di cuore e vi invito a vedere:
Non serve dire che scrivere erotismo mi piace, lo sapete. Probabilmente è anche superfluo raccontare che Giulio Perrone è tra gli editori del mio cuore: l'ho detto qua e là e l'ho dimostrato partecipando volentieri alle iniziative di questo editore. L'ultimo piacere che ho deciso di regalarmi è stato il racconto erotico "La sua presenza, fuori" nell'antologia "Danzando nel sapore dell'uva", in uscita oggi per Perrone LAB.
Sorride. Le parole scivolano pigre e non si possono afferrare. E' Flavio a crederlo: lancia battute e discorsi pesanti frullati in una miscela che crede impalpabile, sorride, bacia e va via. Parole, niente altro: crede che Lucia non afferri il senso, è convinto che, persa nella morbidezza languida delle sue labbra, non analizzi lucida il motore delle sue fughe. Lei invece le beve pezzo per pezzo e non le dimentica, ne affastella il significato segreto da mesi costruendo idee e certezza, scavando nel desiderio che lui finge o, qualche volta, riesce a provare. Nei giorni che scivolano come sabbia e diventano niente.
- Hai la malattia del cibo. Ma stai dimagrendo, dimagrisci da quando mi conosci.
A vent'anni avrebbe pianto, a quaranta ride. E scuote la testa tirando avanti. Non riesce a spiegare, sarebbe inutile. Conosce l'immagine che lo specchio le regala: è bella per tanti, meno bella per altri. Non è più grassa, ma non è - non sarà mai - una donna magra. E' questo che Flavio non ama. Più del carattere mutevole che lo fa sentire sulle montagne russe, più dell'aria saccente o troppo umile o depressiva o euforica. Più delle amanti che già ha e gli riempiono le ore. Lucia le ha osservate, queste donne: magre, tutte. Belle o brutte non importa, sono magre. Nessuna ha la morbidezza che ha lei. Le accompagna alla fermata dell'autobus e scherza con loro, le guarda al bar oppure chiede che lo accompagnino nei viaggi di lavoro (per fermarsi in un albergo, se capita), riceve telefonate e sms e si districa ridendo di loro (e con loro, si augura quando lo vede e prova pena per voci di donna che riesce a captare nell'aria rara di discorsi vuoti). Donne. Magre. Diverse da lei.
- Ma questo è banale!
Nella testa le proteste degli uomini che ha avuto, quelli che sono riusciti a sfiorarla sul serio. Immagina Giuliano: ama le sue forme rotonde e i seni pesanti che riempiono le mani. Contesterebbe l'idea, anche solo l'idea, che Flavio la rifiuti perché non è magra. La sensualità è altro, direbbe, e penserebbe al suo erotismo che esplode e toglie la memoria, ai gesti lenti da geisha e alla voce roca sussurrata, sommessa, alle mani che trattengono la schiena o la allontanano, alle labbra piccole che baciano ogni centimetro e si fermano e succhiano. Penserebbe, insomma. Ad altro, e altro ancora. Ma non al corpo che è parte ma non tutto.
Ma non è Flavio. Flavio lascia cadere parole che Lucia ha decifrato da tempo. Troppa carne intorno alle ossa, l'estetica dell'eros non stimola altro che baci perfetti. Lucia sa, ha visto. I frammenti di occhi e inerzia e frasi si sono infilati nelle orecchie e negli anfratti spessi di ragionamenti che non può fermare. Scherza con lui e non permette che arrivi nel fondo di lei: l'avrebbe voluto, le sarebbe piaciuto pensare a un amico complice capace di ridere e toccare e respirare zitto nel piacere di istanti segreti. Ma è troppo giovane per rassegnarsi al desiderio costretto, e troppo vecchia per credere ancora che si possa fare qualcosa per la leggerezza mancata di un amore morto.
Ci sono uomini che ti amano perché sei. Altri per lo spazio che occupi.
Siamo ridicoli, è bene che tu lo sappia. Il peso della consapevolezza non deve ricadere solo sulle mie spalle: se si fa a metà non c'è sollievo, ma almeno non esiste il rischio teorico dell'ingiustizia. Equità, suvvia! Siamo ridicoli, sta tutto lì. Conosco il brivido subdolo del barlume di dubbio, e mi viene da ridere: sto contando a voce bassa i volti e i nomi che in questo momento, leggendo, indicano se stessi con un dito. "Parlerà con me?", anzi, chiedo scusa: "Parlerà di me?". Perché un certo gruppo di affezionati o saltuari lettori di questo blog cerca se stesso (o se stessa) nelle parole che vernicio ogni giorno, e non sempre c'è paura. Il paradosso della scrittura è che, in fondo, si desidera essere presenti. Il fascino irresistibile della menzione pubblica, con la mano di uno scrittore a cesellare identità che tanti scrutano. Perché anche nella critica o nella rabbia si è. Si è qualcosa per chi scrive, capite? Se uno scrittore si affanna a definirmi sbagliata, antipatica, piazzista di libri, becera e bulimica significa che mi pensa! Mi ha in testa! Creo invidia o faccio paura, o suscito rabbia fremente che è parente dell'amore. In un blog può anche essere esercizio da niente (per me non lo è: prendo seriamente il blog almeno quanto i libri che scrivo, ma non per tutti è così), ma se la dotta e malevola citazione si trova in un libro l'orgasmo è immediato. Almeno per me. Certo, la medesima regola si applica al mio scrivere. Oh, quanti mesi ho regalato a pensieri e gente inutili! Quante frasi e righe e paragrafi! Per niente! Dentro di me avevo la percezione esatta della forza storta di cui nutrivo persone che, poi, mi sono apparse nella loro verità. Cioé brutte.
A proposito di bruttezza. Questa sera, nelle vie fredde ma almeno non piovose di Padova, camminavo spavalda e, con il mezzo sorriso stampato sul trucco ibernato dalla passeggiata, pensavo. A cose varie, niente di drammaticamente importante: constatavo di essere serena. Appagata da una scelta leggera di assenza che è arrivata spontanea, come il silenzio che per ore ho desiderato senza ottenerlo e mi è nevicato addosso al termine della conferenza su creatività e dolore. Ho fatto pulizia senza troppo sforzo, mi rendevo conto che i movimenti erano più agili e liberi. "Ho sofferto come un cane per quasi tre quarti d'ora", avrebbe detto il Sassaroli nella gigantesca e tragica opera d'arte di "Amici miei": i tre quarti d'ora sono trascorsi e il respiro è fresco e ampio. Insomma, non divaghiamo. Ero nelle vie di Padova e stavo bene come adesso. Ho incontrato un uomo che non conoscevo: fisicamente, nel buio, assomigliava a un altro che nel passato ho ricoperto di importanza eccessiva. Ho guardato la somiglianza falsata dalle tenebre e mi è venuto da ridere. L'altra faccia, quella del ricordo, mi è apparsa brutta. Ma brutta sul serio, per la prima volta. E mi è venuto da ridere. "Ma quanto eri brutto?", ho chiesto all'ombra spuntata fuori senza pathos né emozione, e ho accettato placidamente che lo stesso si dica di me, se si vuole. Niente di male nell'essere considerati brutti, in fondo. Se fossi amorfa mi seccherebbe, ma brutta può andare bene. A patto che si capisca che bruttezza e bellezza raramente sono universali, ma a rendere relativo l'eventuale concetto di mia bruttezza per fortuna esistono i cosiddetti rinforzi positivi, cioè i messaggi di chi mi ama e ritiene, senza mentire, che per lui/lei io sia bella. Sono certa che anche l'uomo che ho evocato nella notte padovana grazie a un volto visto di sfuggita sia meraviglioso per qualcuno, lo è stato anche per me in un tempo che adesso faccio fatica a mettere insieme in un sospiro.
Sospiri. Ne ho sentiti tanti oggi. L'incontro con l'università popolare su creatività e dolore ha portato emozione. Tanta emozione, anche a me. Ho superato la pigrizia della lettura pubblica e condiviso brani dalle memorie intime di Simenon, da libri di Tiziano Scarpa (ma sì, dai, fate il commentino e tirate avanti: la scrittura di Scarpa mi piace e lo dico fino alla vostra noia; il blog è mio e andrò avanti finché ne avrò voglia), "Diario di melassa", "Una storia ai delfini" (la prefazione di Veronesi) e "Le parole del buio", il diario di Virginia Woolf. E ancora, "Rendez-vous", "Niente di grave", "Ho il cancro e non ho l'abito adatto". Stuzzicando la mia fantasia (forse anche quella di altri presenti in sala, non saprei dirlo) con Hopper, Picasso nel suo periodo blu, Van Gogh e Munch. Abbiamo discusso di dolore e amore, e scrittura, e riflettuto sull'importanza drammatica dei saggi, i libri che possono creare una differenza nella cultura della gente. A proposito di cultura, sapete che cultura è vita? I dati statistici dicono che chi si ammala di tumore ha una probabilità maggiore di guarire se ha un livello culturale alto. Alt, fermi: ho detto livello culturale, NON economico! Significa che chi ha gli strumenti culturali per informarsi e scegliere criticamente le cure fa qualcosa di buono per sé.
Fare qualcosa di buono per sè. Non so voi, care amiche lettrici, ma questo compleanno che mi galoppa addosso crea riflessioni da "i miei primi quarant'anni". Non è che mi piaccia troppo, ma serve. Un assioma: le amiche che hanno vissuto i quaranta e oltre dicono che "adesso inizia il bello", e tutto sommato, se considero la luce e non le ombre che popolano la vita di ciascuno indipendentemente dall'età, posso crederci. Il bello dovrebbe essere un amore per sé finalmente scoperto e reso saldo. Anche nel mezzo di difficoltà e, talvolta, vere e proprie tragedie. Oppure in mezzo ai soliti problemucci di sesso e relazioni altalenanti o solo immaginate. L'amore di sè, fare qualcosa di buono per sè. Rinunciare, per esempio. Udite, udite! La Luini finalmente proclama qualche rinuncia! Temo di sì, ma non la rinuncia alla scrittura e neanche a relazioni e affetti che ritengo meravigliosi, e non rinuncio, sappiate, a qualche abitudine privata che mi rende ciò che sono. Rinuncio all'autolesionismo. A quella spinta orribile nata con me, più o meno, che ha fatto di tanti miei anni un cumulo di tortuose, complicatissime salite con poche radure e quasi nessuna tappa di vero e gratuito refrigerio. Ho sempre pagato tutto, chiunque mi conosca bene lo sa. Pago ogni singolo piacere a prezzo tremendamente alto, sono diventata una bestia feroce perché ho dovuto affrontare ogni genere di ostacolo occulto o palese per raggiungere quello che ho. Ma. In parte ho anche camminato a passi più pesanti perché io stessa appoggiavo alle caviglie una zavorra inutile. Ostinata e convinta della mia potenziale onnipotenza, ero la nemica più sottile di me stessa. Bene, questo non cambia con un compleanno, è già cambiato: la data del 21 febbraio sancirà solo il passaggio ufficiale. Come il capodanno appena trascorso: gli amici più intimi sanno che da mesi preparavo, lentamente, alcune espulsioni da celebrare nell'istante di passaggio tra il 31 dicembre e il primo gennaio 2010. Macinavo pensieri e altalenanti serenità, parlavo o tacevo, ma quelle espulsioni avevano un timer che, effettivamente, è scattato inesorabile e ha funzionato. Intorno a Saturno abbiamo qualche anello in più, ho spedito in orbita perenne persone che ormai erano solo dolore e ostacolo, e credetemi se dico che sono davvero uscite dal mio cuore nel rapido cambiare della data. Quindi. Niente svolte epocali, a meno che non siano preparate da un cammino paziente e lucido. Ciò che accade ora. Ho qualcosa da fare, ancora. Avrò sempre qualcosa da fare nella mia eternità. La tappa dei quarant'anni è fare qualcosa per me, abbandonare l'autolesionismo. E smettere di accettare situazioni da fumetto di serie zeta. Amen.
Oh, che peso questa Luini! Ma no dai, la realtà è luminosa e serena. Qualcuno ride leggendo "luminosa e serena", ma sbaglia: se la luce si accende in testa, o in un posto interno del corpo a vostra scelta, già molto è stato ottenuto.
Mi sento un predicatore americano. Alzate le mani e cantate con me. Nel tocco della pelle con la pelle la piccola scarica di adrenalina sarà sensuale, credetemi. Guardate i miei occhi, lo sguardo è per voi. Sensualità e affetto, perché penso a voi che leggete e non sempre mi siete noti. Quando vedo il numero di letture di questo blog mi emoziono, e quando qualcuno si ferma e mi tocca la spalla e sussurra "Lei è la scrittrice del blog, vero?" (come è accaduto martedì scorso) ho la nettissima sicurezza di amare. Amo gli occhi che leggono, le mani che commentano e quelle che invece restano ferme accanto alla tastiera del computer, amo chi fa finta di non leggermi e ritorna a dare un'occhiata simulando disinteresse, amo chi si chiede se la mia vita sia quella che si legge qui oppure sia completamente diversa, amo chi si manifesta e chi no. Amo chi ispira i miei racconti: suscita emozioni fortissime, lo dicevo qualche paragrafo sopra, e non solo la rabbia. C'è chi ispira racconti negativi, chi ispira erotismo, chi ispira o ha ispirato amore. O tutto questo insieme. C'è la mia amica Simona, parte di me, che si è chiesta perché non l'abbia mai nominata nei miei scritti: non capisci che sei in ognuna delle parole? Non capisci perché sono diventata ciò che sono anche in ambito medico? Credi davvero che sia stato solo per quel ricordo drammatico che abbiamo condiviso? Secondo te non ho temuto per altri, non ho pianto, sperato, tremato, pregato? Simona, sei qui adesso ma non serviva che ti menzionassi. La natura di noi è fusa nelle mie parole.
Uh, quanta roba. Raffiche di follie e aliti di niente. Cielo! E tutto è partito da cosa? Ah, certo. Dal fatto che siamo ridicoli. Parlo di te, vedi? So che hai letto fino in fondo, adesso sei fermo su queste sillabe che si rincorrono una a una. Nella tua testa hai costruito spiegazioni plausibili per la nostra ridicolaggine, e sono costretta a deluderti: non è così complicato. Siamo ridicoli come tanti altri: sono stata ridicola così con altre persone che, come te, mi sono piaciute molto. Abbiamo messo in atto l'unica forma di stupidità possibile per gente come noi. Non abbiamo avuto la lealtà e il coraggio di parlarci. Sottovalutando la reciproca intelligenza e, anche, sminuendoci un po'. Che peccato. E' come morire senza avere visto il mare.
Lenta. Mai stata così. Spingo il tempo oltre la necessità e spruzzo la passione agli angoli nascosti. Eppure sono lenta, oggi.
Il treno regionale di stazione in stazione trascinava nuvole grigie di pioggia rada: gli occhi seguivano il cammino nella campagna brutta di palazzi bassi e scrostati, attraversavano luoghi che per anni ho sentito miei. Ho sorriso quando si è fermato a una certa stazione, ho mandato amore silenzioso e mi sono nascosta dietro il finestrino più opaco che sono riuscita a trovare. Perché non è più logico dire ciò che non può essere detto, e chi mi cerca sa che potrà trovarmi sempre. Gente che parlava al telefono a voce alta ha raccontato traumi scolastici, equazioni differenziali che mai riuscirò a capire e posti di lavoro nuovi e ancora precari. Un manifesto senza troppa fantasia parlava del carnevale di Viareggio. Avevo un libro in mano, sottolineavo frasi indimenticabili con la tentazione di riempire le pagine di segni: l'ho scoperto grazie a una persona, al mio Edward che sta da qualche parte e, sono certa, sorride. Il telefono vibrava, vibrava, vibrava: messaggi si affastellavano e irritavano i nervi placidi ma acuti, la malinconia spenta di un viaggio che ho ripetuto cento volte sfilacciata dalla scoperta di un buco opaco là dove, tante altre volte, intuivo gioia.
Lenta, anche adesso. Bach solleva pensieri che non condensano racconti o erotismo o gesti di impeto straziante. Riconosco i concerti e aspetto che arrivi il tempo per alzarmi dalla poltrona, ammiccare a Adriana e portare in casa il sushi. Ho in testa una risposta data con la cattiveria della rabbia, sono certa che non sia stata compresa e non mi dispiace: inutile spiegare che avrei voluto. Desiderato con la leggerezza di un'amicizia che non c'è. Ma sembrava possibile. Non importa, niente importa sul serio. Ho libri accanto. Potrei diventare ogni cosa o niente, trasmigrare in case che non conosco o ricordo appena, respirare aria nuova o stantia in un boccone da masticare con il languore appassito della testa voltata indietro. Ma no, così non si deve. Così non è.
Infelicemente felice, l'ho letto nel libro che Edward mi ha permesso di scoprire. Per la prima volta, alle soglie di un quarantennio che non ho molta voglia di raggiungere, so cosa significhi: infelicemente felice. Ci sono risposte che non darei, domande rimosse e chiuse sotto la lingua, gare di velocità che non mi interessa vedere: conosco le poche, cristalline e assolute priorità che sono bisogno e istinto, il resto scivoli meglio che può. Oltre non vado. Il difetto che dovrei cancellare è scendere nelle mischie che non mi appartengono, pollai pennuti e sporchi così distanti da farmi sentire ancora più estranea. Ho dovuto scegliere le persone, guardare a destra e sinistra e capire chi fosse falso: ho seguito l'anima, e non mi pentirò per questo. Chi resta nel parcheggio squallido del sorriso falso avrà la stessa me, che sa di essere usata. La rivoluzione di una me strumento che infila parole e bugie con i sospiri.
Lenta, vedete come non riesco a creare guizzi? Ho progetti da materializzare con la scrittura veloce e intensa dei giorni soliti, ma questa sera, mentre una sirena parla di ambulanze che corrono oltre l'Arno, non ho altro che pace inframmezzata a ansia scintillante a stilettate. Da addomesticare. Felice, infelicemente. Perché chi scrive non può agguantare la felicità gratuita, non è dato, non deve. Il velo di sguardo crudele sulla realtà, sul sesso sudato che sa perdermi, sulle parole di amori perfetti mi rende ciò che sono. La distruzione dell'incanto in un eterno paese delle meraviglie. Ho tentato di spiegarlo, questo paese che alcuni hanno intravisto ma nessuno ha saputo comprendere: sarebbe sufficiente seguire la mia onda, accettare che la realtà che stringo, l'unica accettabile, sia l'invenzione comoda e piena che la mia mente ha costruito, non sembra difficile. Pesci ascendente pesci, qualcuno dice che è importante: sognatrice, creativa, ipersensibile. Che siano stelle o ora e giorno della nascita interessa poco: lasciatemi i confini tenui e paffuti del mondo che ho voluto, non bucateli con i punteruoli del tradimento gratuito che in fondo interessa a nessuno. E' faticoso provare rancore, non ne sono capace, è sciocco perdersi nelle beghe infantili della polemica che non crea respiro o vita. Ho chiesto a amori e incontri da niente di prendermi così, come un'Alice irreale persa in un castello dai muri fluttuanti, ho chiesto di non sapere. Ma. Per Alice conta solo la passione tragica del vuoto che riempie di creazione. E il resto delude.
Ogni tanto penso alla terra che trema, a uno scoppio improvviso, a una frattura inspiegabile. Stringo i denti come se stessero arrivando. Allungo la mano e ne cerco un'altra, non sempre è quella giusta, e se è giusta mi spavento e scappo. Perché l'amore giusto è una fiamma che fa male quando si spegne. E l'amore, poi, che non esiste, non è altro che fluido fallace e incandescente di illusione: porta via la mente e intorpidisce le dita che devono scrivere. Ecco, è questo, forse. Ritirarsi e non capire. Eppure, a un certo punto della vita è scomparsa un'ombra tormentata che credevo di amare e sono arrivate luci dense e radiose di genuina gioia. Ho avuto, ho uomini e donne che sanno regalare carezze, e canzoni dal ritornello allegro, e telefonate a sorpresa nelle sere fiorentine. E corpi, se li voglio. Ho creduto che l'ombra nera di un uomo solo e tormentato fosse il segno delle scelte che non sapevo fare, deve essere così. Il più grande dono è stato andare via. Oppure no, non mi soffermo su sabbia scipita volata indietro.
Mi alzo dalla poltrona. Pesce crudo senza altro. E, lenta, riprendo il computer tra le mani. Insieme ai libri e alla neve che, dicono, ricopre Milano.
Impresa difficile, questa recensione passionale. Che recensione non è, ma un commento lungo a voce alta, con il sapore del libro ancora sulla lingua. "La vita, non il mondo" è l'opera edita più recente di Tiziano Scarpa, impossibile da sintetizzare in una trama. Perché non ha trama, in effetti: potrei dirvi che il titolo è tutto, un condensato di significati diversi e il senso delle pagine brevi, ciascuna con mille caratteri al massimo, che affrontano fulminei oppure lenti, musicali o cacofonici, emozioni, esperienze, incontri, riflessioni e amori di un autore che per la prima volta vediamo quasi nudo. Fermi, conosco l'obiezione: l'abbiamo visto nudo tante di quelle volte... E qui sta una delle sorprese più grandi: il percorso dei capitoli che si inseguono rapidi con una scrittura che in qualche momento mi ha commossa di piacere quasi fisico racconta Tiziano Scarpa adulto, con la testa (calva) aliena rispetto a pochi, pochissimi anni fa. All'improvviso, la profondità che abbiamo sempre sospettato esistesse ma che si tingeva dei colori più assurdi con le invenzioni roboanti dell'esagerazione, del sesso, della risata sarcastica sull'amore, ci si svela facile, evidente. E ci lascia increduli. Non dobbiamo più intuire e sentirci più intelligenti della media per capire che Tiziano sa amare e praticare la fedeltà, riconoscere l'incanto e gioire di ogni banale istante della vita: lo possiamo quasi toccare, in questo libro, quando si ferma a osservare il cadavere di un uccellino e lo mette poi sotto terra in giardino "per proteggerlo con un po' di silenzio", non abbiamo bisogno di immaginare che abbracci la sua compagna e si commuova per un istante, schiacciato dal'amore, non siamo più costretti a sentirci pazzi nel vederlo intenerito di fronte all'ingenua verità dei bambini o a una pagnotta tagliata a metà che è il simbolo più bieco (più tenero) della stupidità degli innamorati. A proposito di questa pagnotta, andate a leggere la parte che la riguarda: ho ricordato la raccolta di racconti "Amore" e sono stata incerta se ridere o piangere; non voglio, non posso descrivervi qualcosa che va gustato nel silenzio, ma la stupidità di tutti noi, presi dall'amore, salta la barriera dell'ironia e diventa poesia. Sfogliamo e accarezziamo pagine che non hanno più lo strappo esagerato della provocazione, riusciamo a intuire che l'anno di nascita dell'autore (1963), e la consapevolezza di ciò che adesso un pubblico molto vasto si aspetta da lui, hanno creato l'inevitabile, meraviglioso mostro dell'uomo fedele, che parzialmente (bisogna dirlo) rinnega la sprezzante libertà che tutti grazie a lui abbiamo sognato. Tiziano ci ha illusi a lungo, adesso ci spiega che prima o poi si cambia. E riesce a convincerci, nonostante il piccolo, ineliminabile dubbio che dietro il mio orecchio destro sussurra che forse la mano un po' pesante sulla melassa vada a beneficio degli occhi della compagna. Ma evitiamo i gineprai. Mi sono fermata spesso, durante la lettura: ho resistito alla tentazione di sottolineare con la matita grossa le meraviglie, se l'avessi fatto avrei riempito di sottolineature il libro, ma ho anche riso e scosso la testa a intervalli regolari, incerta se rimpiangere la libertà che credevo assoluta in un uomo senza dubbio superiore a tanti altri oppure commuovermi per la bellezza dell'impasto arte-scrittura-amore-casa-resa. Resa, sì, la resa di chiunque, prima o poi. La resa di Scarpa, anche. Ci fa un regalo, Tiziano: ci lascia guardare nella sua vita. Ci permette di seguirlo nei viaggi e nell'incanto dell'arte e della musica, condivide con noi lo stupore per i neuroni che assomigliano a anemoni e non ce la fa a scandalizzarci con uno dei suoi classici refrain: perfino quando si lascia andare all'autocitazione del passato e descrive il sesso con la sua compagna che ha le mestruazioni la smorfia divertita sorge solo a metà. Perché c'è amore, anche lì, e non sappiamo se dire "Sei invecchiato" oppure "Finalmente". Che libro, ragazzi. Non trascrivo qui i pezzi di bravura, andare a comprare il libro perché non può mancare in casa vostra, ma la scrittura è superiore a... Non voglio dirlo, è superiore a tanti altri libri che ho amato. Da estasi, in qualche momento. Mettiamola così: se la caduta dell'eroe libero e romanticamente selvaggio un po' mi toglie il respiro, la scrittura mi incanta. E dirò in chiusura ciò che io stessa ho inventato quando recensivo per Mangialibri, e ho riservato a pochissimi (Massimiliano Parente prima di tutti). Tiziano, chapeau.
Succede di osservare da lontananze remote, avvolti da una coperta spessa così. La testa immersa nel silenzio, si captano tuoni esplosivi di parole e non ci si scheggia. Non più.
Ero seduta alla mia scrivania, questa mattina, gli occhi persi avanti verso un mobile che sorregge, esibisce raccoglitori di documenti rossi, gialli e blu. Nelle orecchie si trasferivano suoni e rumori, picchiettavano appena il cervello e tiravano avanti senza una meta precisa.
Pensavo. Sentivo addosso, come un solletico caldo, i corpi dei "pazienti" che affollano l'Istituto, li ascoltavo e annusavo, stringevo le loro carni tra le mani ferme ai lati della tastiera del computer. Erano con me, e io con loro, e mi avvolgevano di una presenza impenetrabile.
- Sono loro la mia coperta.
Ho raccontato al niente della stanza vuota.
In fondo a me, ricordi recenti o remoti e volti, scritture meravigliose che hanno fatto male. Ragionamenti veri, ansie e priorità, calcoli e pettegolezzi che qui non attraversano la soglia. Perché non lo possono fare. Bisognerebbe trascorrere una giornata nella contemplazione attenta di questi corridoi affollati di dolore, lo dico spesso (solo con la mente) a tanti che si affannano a odiare e rendere acido il giorno. A tanti che guardano il dito e non la luna, abbandonano emozioni che potrebbero essere lievi per il peso intollerabile della cattiveria. E dell'invidia. E della povertà d'anima. Non uso la voce quando auguro loro di venire qui e guardare, crederebbero che voglia augurare un male assoluto. No, non lo potrei fare: questo che assaggio ogni giorno è impossibile da augurare a chiunque. Vorrei solo che capissero, respirassero la paura e la fiducia, e la concretezza brutale del brusio vivo che questa mattina mi solleticava e avvolgeva in una coperta di piume: dovrebbero sapere, sarebbe giusto, che se scavalchi un limite ti rendi conto all'improvviso di ciò che fa la differenza sul serio.
Per questo il mio dolore è lento, a volte. Sembra sepolto sotto strati di indifferenza che nella realtà non possiedo, ha tempi e modalità di reazione incomprensibili a chi mi crede ovvia. Per questo l'allegria esce come un torrente che pochi riescono a guardare fisso. Nelle cavità risonanti del mio cranio vivo come gli altri, lascio che la nevrosi mi possieda e ho paura, a volte. Poi tocco la scrivania con le mani, associo nomi e cognomi a malattia e guarigione e morte e terrore e il mondo si allontana, diventa l'immagine sullo sfondo.Non ce la faccio a prendermela e neanche a scaricare sacchi di rabbia che mulinano sulle spalle. Saluto gente che se ne va, rispondo a morsi quando so che mi si prende in giro. Ma accetto, perché la coperta di piume delle persone vere, quelle che sanno calcolare i minuti perché sono diventati importanti (e sono vita, in contrasto, vita che strappano alla morte), toglie importanza al nulla.
Scrivere gocce di pensiero. Accade ogni giorno. Che permetta a occhi estranei di leggere invece è molto più raro. Un libro che mi ha fulminata di bellezza ieri, però, mi ha convinta a tirare fuori ciò che finora bruciava su pagine oscure. Si può condividere, in fondo. A patto che si accetti l'incomprensione.
Mi chiedo cosa sia una vittima. Cosa significhi essere vittime.
A un incontro con i lettori a Rimini, mesi fa, abbiamo discusso di quanto (e se) la pedofilia possa essere oggetto di prevenzione. "Diario di melassa" affronta anche questo, la pedofilia e le conseguenze su chi la subisce: ecco il perché della discussione, nata spontanea e forse ovvia nel contesto dell'alternarsi domande-risposte sul libro.
La prevenzione della pedofilia è necessaria, sottovalutata e, purtroppo, destinata a un certo grado di fallimento a priori. Spero di riuscire a spiegare perché.
Dedico qualche riga al carnefice. Salvo casi eclatanti, è subdolo e apparentemente irreprensibile, il più corretto e probo degli uomini (o delle donne). In più, fa spesso parte della famiglia o della ristretta cerchia di amici: ho visto, so cosa significhi sapere e tacere, il marcio della perversione pedofila il più delle volte è rifiutato dalla consapevolezza (dalla dimensione conscia di chi potrebbe intervenire) anche quando intuito o intuibile, oppure nascosto a priori per evitare lo scandalo o i traumi (per gli adulti), le separazioni, le liti. Mentre i media ululano che la pedofilia vada identificata con tempestività, le famiglie coprono, ignorano, voltano gli sguardi altrove. Oppure inventano patetiche ragioni per il comportamento patologico di alcuni irreprensibili (insospettabili) componenti. Dico l'ovvio, fino qui, ma la verità è che si arriva a giustificare la pedofilia in alcune forme perché "solo molestia leggera", senza considerare che per un bambino la molestia leggera è, di fatto, violenza.
Pensiamo alla vittima, però, e spostiamoci dall'ovvio.
La vittima della pedofilia entra pesantemente nella successiva prevenzione perché può reagire in modo poco prevedibile a ciò che ha vissuto nell'infanzia e adolescenza. Nell'immaginario, la parola "vittima" rimanda a pianto, dolore, sofferenza e compatimento. Fa pensare a qualcuno che abbia ricevuto torti, violenza, offesa, e debba conseguentemente ricevere un po' più di affetto, un po' più di attenzione, forse un po' più di pazienza. Poche volte ci si concentra su quanti danni psicologici la vittima abbia ricevuto e strutturato dentro di sè: soprattutto se bambina (o bambino), la vittima viene plasmata dall'accaduto e se lo porta dietro, lo rende parte del proprio modo di vivere, amare o non amare, reagire e desiderare. Non sempre lo sviluppo della personalità va verso la serena e triste accettazione della violenza ricevuta, con il fermo proposito che il ricordo di eventi traumatici non causi ulteriore violenza. Non sempre, soprattutto, si hanno gli strumenti e i mezzi per chiedere aiuto. Quando impari da bambino a leggere il sesso come gesto di complicità e amore con il pedofilo (cosa sia l'amore ti viene insegnato dalla vita, non certo dalle parole degli educatori), l'atto sessuale assume significati che per la persona fortunatamente libera da ricordi di violenza sarebbero impensabili. Ciò che è torbido, duplice, connivente e sadomasochistico entra a fare parte di un orizzonte misto paura-repulsione-desiderio, si scambia facilmente l'erotismo per l'unica manifestazione possibile dell'amore. E, nei casi peggiori, si assume il medesimo atteggiamento del pedofilo conosciuto nell'infanzia, per un senso di rivincita, di vendetta postuma, ma anche di malsana passione assorbita con i gesti, e con l'impasto putrido di complicità e perversione acquisito nei primi anni di vita.
Il pedofilo (uso il maschile intendendo uomo o donna, indifferentemente) è spesso parte della ristretta cerchia familiare, o di quella degli amici fidati: se coinvolge un bambino o bambina in giochi erotici che millanta con amore o "amicizia segreta e particolare" crea il duplice danno della sofferenza fisica e della maledizione eterna di non conoscere più la differenza tra amore e tortura. Il bambino molestato cresce convinto di avere ricevuto attenzioni particolari e molto preziose in quanto essere speciale, non riesce a vedere che ogni dettaglio, anche il più insignificante, è stato solo il frutto di un'orrenda e brutale violenza fisica e psicologica. Rischia, successivamente, di vivere e desiderare il sesso come una ripetizione di ciò che nell'infanzia ha suscitato brivido, emozione confusa ma fortissima, intimità indicibile con qualcuno che "amava". Rischia di infilarsi in reazioni che ricalcano il rapporto vittima-carnefice, senza esserne consapevole, trasformandosi in vittima (ancora) oppure carnefice, incapace di fermare quella che, secondo me, non è altro che l'eterna ripetizione dell'orrore. Si resta vittime anche da adulti, a meno che non intervengano persone esperte che riescano a fermare un copione che è condanna.
Qualcuno all'incontro di Rimini ha detto che la pedofilia dovrebbe essere combattuta con la prevenzione. Ho seri dubbi sulla possibilità di prevenire un orrore che troppe volte fa parte della famiglia: come dicevo all'inizio, è difficile se non impossibile accorgersi della perversione di un fratello, una sorella, padre o madre, nonno o nonna, e ancora più difficile è affrontare il problema quando i segnali vengono percepiti e la verità rischia di rompere equilibri di affetto e immagine costruiti negli anni. Si ignora perché si desidera farlo, perché è la via più facile e accettabile per tutti. Perfino la vittima tace, anche quando prende coscienza della situazione (e ciò non accade subito, almeno non sempre). La vittima sa che non dovrà parlare, e se lo farà non verrà creduta, e se anche verrò creduta provocherà dolore. Il dolore dei genitori, dei parenti, di chiunque sarà colpito dall'evidenza di un vizio malato difficile da affrontare.
"Se parlo succederanno cose brutte, e sarà tutta colpa mia". "Forse ho sognato e frainteso, forse sono stata io a provocare l'interesse della persona che mi ama tanto e accuserò ingiustamente". Mi sembra di sentire i pensieri di queste vittime silenziose, che strutturano dentro di sè la colpa e la infilano a forza nella propria personalità, tirando fuori la rabbia molto dopo, con manifestazioni che niente hanno a che vedere con il motivo vero. Quello che avrebbe dovuto essere stroncato sul nascere da chi poteva.
Vittima. Povera, triste vittima.
Vittima. Pericolosa, triste vittima.
Mi è stato chiesto cosa mi aspetti da "Diario di melassa", che affronta il disturbo alimentare e la pedofilia. Ho risposto, e rispondo qui ora, che non è altro che un libro. Esistono decine, centinaia di altri libri su questi argomenti: alcuni hanno dentro la verità, cioè l'ambiguità profonda e disperante di chi davvero sa cosa significhi essere vittima, altri sono invenzioni. E' vero però che il silenzio totale che cade, cristallizza tra i lettori alle presentazioni di questo libro in alcuni momenti, e le testimonianze successive, a tu per tu, e le decine di email che ricevo mi regalano la flebile speranza che un libro in più possa servire a aggiungere voce. E' la stessa flebile speranza che ho sentito a Pontedera nell'ottobre 2009, quando ho presentato per la prima volta il libro al Festival organizzato da Librialsole e Tagete Edizioni. Non ho soluzioni, non ho scritto "Diario di melassa" con l'intento di proporne: avevo in mente di raccontare, l'ho fatto. Non aprirò gruppi anti-pedofilia sui social network, non mi sento in grado e avrei sempre la sensazione di essere fraintesa. Sono uno scrittore (anche qui uso il maschile, mi piace di più: è un termine globale, ha dentro uomini e donne) che ha voluto, e vorrà ancora, parlare di pedofilia e incesto. Posso raccontare cosa accada a una donna che ha sofferto pesantemente di binge eating disorder e, forse, conosce le conseguenze torbide della pedofilia. Posso, probabilmente, dire a chi si sente solo che l'aiuto esiste, e funziona. Posso testimoniare che si incontrano persone meravigliose in grado di capire, e persone aride che chiedono la cortesia di evitare alcuni argomenti. Oltre non voglio andare.
Vittima. Cosa è una vittima? E' una bomba inesplosa che ha dentro un buco orrendo, ecco cosa penso. Non merita pietà speciale quando provoca a sua volta dolore, va punita se sbaglia, ma avrebbe potuto ricevere aiuto: se non l'ha avuto forse la colpa è anche mia, vostra, nostra. Per ritornare a qualche paragrafo sopra, dicevo che in teoria la vittima dovrebbe ricevere più affetto e pazienza, ma non lo penso sul serio: di recente qualcuno che mi vuole bene ha detto che in una determinata occasione sono stata trattata malissimo proprio da chi sapeva cosa ho vissuto nel passato, e questo è ingiusto. No, non è ingiusto. Succede e basta. In fondo, è segno di normalità. Non esiste ragione per cui la gente debba usare con me tenerezza quando non ha voglia di farlo. La vita è questa.
Ho un limite di tempo, questa sera rivedrò qualcuno. Il viaggio è lungo, devo uscire presto. Conto i minuti, quindi, con un angolo degli occhi che si sposta in alto a destra all'orologio piccolo del computer. Accade anche in aereo: sfilano i secondi davanti alle pupille strette di ansia, e non appoggio la schiena. Tredici, quattordici ore impettita senza un respiro più profondo di quanto sia concesso. Dal peso, che tengo su con le dita aggranchiate alla poltrona. Dal pensiero, che forse può contribuire al volo. Dai libri che piego e lascio aperti, senza capire le parole. In aereo, sì, non stropicciate gli occhi mescolando mascara a lacrime di stupore: volo anche io, quando vale la pena. Se rifiuto è perché la proposta non compensa l'ansia, ma certo, eccome se volo!
Diciotto minuti.
Ho perso il minuto in mezzo. Mi sono lasciata andare al racconto dell'aereo e non ho visto che il tempo scorre. Non mi accorgo mai della velocità brutale e oscena del tempo, mi trovo a quaranta anni su una strada piena di sentieri collaterali e, se cerco tracce alle spalle, vedo boschi che non mi sono resa conto di attraversare. Meglio così, credo, anche se l'ultima foresta è stata densa e tragica e piena di luce, in fondo. Niente fa così luce come la scoperta di un errore. Ho forgiato me, e non trovo dirupi sufficientemente orribili da saltare. Ci sono, posso sentire il loro odore fetido di morti maciullati nella tracotanza di passare oltre. Ci sono e vado loro incontro con la speranza di schivarli, o saltare abbastanza in alto. Ma se cadrò, pazienza. Un urlo, un volo e l'oblio. Succede così.
Sedici minuti.
Sono vestita, ho il trucco elegante messo da una mano molle e precisa di artista. Non serve altro che baciare i gatti, stridere i capelli con le dita a pettine, indossare un cappotto e uscire, e rinfrescare il rossetto. Mi piace il rossetto, in borsa ne ho almeno quattro. Neutro, marrone, rosso fuoco, rosso scuro. E la matita per le labbra, per disegnare il contorno che non c'è. Orrore! Parlare di trucco nel blog di uno scrittore. Una scrittrice, dovrei dire, perché mi accusano di maschilismo. Sorrido, quando succede. Nè maschilista nè femminista, solo donna, meravigliosa donna che sa di esserlo. Mi piace la parola scrittore, come i rossetti scricchiolanti nella borsa. Il trucco, la pasta di bellezza che spalmo sul volto per sentirmi io. Sono i guanti della poetessa, questi miei rossetti che ballonzolano nella borsa nera e comoda con le agende e i libri e le penne che accumulo per non restare senza inchiostro. E il taccuino, ah, quello, che tanti imitano. Meglio per loro, un pezzo di vita da ricordare.
Quattordici minuti.
Alienante, nevvero? Sapeste quanta alienazione ho visto, figli miei. Tanta da riempire libri pesanti come massi. Ho visto vedovi stracciare il cuore dei figli per manici di scopa biondi con le gambe lunghe, ho visto donne stuzzicare la pace di famiglia per il desiderio contorto di un incesto mascherato da gioco. Ho visto me, inconsapevole ma orribile nella colpevolezza di un tradimento volontario: non assolvetemi perché ho amato, l'amore non è un motivo valido per lo strappo putrido del dolore. Ho visto bugie che a elencarle tutte non dovrei più fermarmi, e niente cena niente sera niente trucco e niente persona che rivedo dopo tempo. Tempo, appunto. Vedi sopra, rileggi e pensa. Al tempo che corre nonostante te.
Undici minuti.
Undici era il numero di un bambino, a scuola estraevano il numeretto rotondo della tombola per decidere chi sarebbe stato interrogato. E lui era l'undici. E' morto, quel bambino. E, chissà come, il mio cervello non si sposta dal numero undici, lo sceglie e rigira sulla lingua e non sa abbandonarlo. Undici, undici, undici. Ho giocato a tombola a Natale, con gli amici: abbiamo riso e ballato e vinto mutande larghe e formelle pesanti che nessuno avrà mai il coraggio di esporre in casa. Non ricordo se sia uscito l'undici.
Nove minuti.
Andiamo, andiamo. E' tempo di migrare. Tempo, il tempo ancora. Ho i freni sciolti, lo capisco dal silenzio. Sfioro mani senza afferrarle, aspetto il volto e gli occhi di un uomo. Un uomo solo. E mi diverto, figli miei, perché nei meandri del nugolo oscuro e sussurrante di lettori che amo con la pazienza carnale di chi scrive esistono sguardi che vanno oltre, e tentano di capire. Vogliono sapere chi sia l'uomo, e dove e come e perché. E cercano se stessi o altri, e dicono di sapere. Ma no, figli miei, l'età che rassoda le albicocche sulle piante è la stessa che scalda il cervello più maturo. Fate voi, decidete e abbracciate di gusto, bevete la credenza che vi pare. Uno sa, agli altri carezze di lacrime molli con un sorriso.
Sette minuti.
Sette e sette volte sette. Odiavo la matematica, non ho sopportato la fisica. Geometria spaziale, quella sì: era evidente, assecondava la mia pigrizia di indolente anarchica. Uno o due piani, e le rette, e i coni: basta vederli, il cervello offre la risposta. Senza studiare, perché dovrei? Guardo Darwin in piedi sulla scrivania, è severo e oscuro. O forse non ha finito di dire, e gli dispiace essere morto. Dispiacerebbe anche a me, che sono eterna.
Cinque minuti.
Fatica di alzarmi, cercare il cappotto e infilarci le braccia. Fatica di rileggere queste parole a caso in cui leggerete, figli miei, esausti i controsensi. Ho manoscritti rilegati e pronti, frasi e parole e il rifiuto di obbedire agli ordini. Una mano conforme dovrebbe plasmare i miei sensi sciolti: perde grinta quando crede che cambierò per lei.
D-u-e m-i-n-u-t-i.
Solo due. Dita a valanga sui tasti piatti che fanno clic clic. Dico alla gente che detesto il telefono e mi si chiama, ancora. Le eccezioni sanno di esserlo: a loro la gioia dello squillo è data, e vorrei che parlassero e parlassero e parlassero. Sanno. Altri no. Ma chiamano ugualmente, più di chi potrebbe. Più di chi dovrebbe. E se proprio vogliono che i miei nervi strizzino l'aria che respiro tolgono il numero chiamante, orrenda e meschina abiura di ogni minima chiarezza. Forse è il sorriso, figli miei. Sorrido sempre, e il sorriso apre le ferite.
Nevica a fiocchi piccoli e densi. Scrivo da un po', ogni tanto mi alzo e guardo fuori: la strada già coperta di neve, le poche auto lente dietro lo spazzaneve che gira in paese, con le luci gialle accese, per permettere di muoversi a chi vuole andare a sciare.
Non è facile tirare fuori scritti nuovi quando sono in un romanzo. La notte scorsa ho perfino sognato i miei personaggi, e mi pare limitativo definirli personaggi: ho sognato Alessandra e Luca, e ho intravisto Livia. E Francesco. Fanno parte del mio quotidiano, la testa ritorna nella storia anche quando faccio altro.Va bene così.
Uso questo tempo di stacco tra un capitolo e l'altro per raccontarvi che ho ricevuto altra posta. Grazie, sempre, mi piace leggervi. E mi emoziona. Ho ricevuto i racconti scritti da un chirurgo: sono racconti brevi, impressioni e emozioni. Un altro uomo che sa descrivere l'amore, la stessa cosa dico sempre di Fabio Capello (lo scrittore, non l'allenatore) che in "Piccadilly Line" (Edizioni Creativa) ha dipinto l'amore con poesia e senza la paura tipica degli uomini. Vi suggerisco la lettura del libro di Fabio Capello, vale la pena perdersi con lui nella miriade di volti e passi che attraversano la metropolitana. Nel 2009 ho incontrato uomini capaci di amore, quello vero: come abbiano sfiorato la mia vita, se ci siano entrati per restarci oppure no, non ha importanza adesso. So che ci sono, e a loro devo un ringraziamento particolare perché, per qualche anno, sono rimasta ferma su un cliché di uomo (e di non-amore) orrendamente sbagliato, con esempi che, mi dispiace dirlo, mi hanno fatta vergognare delle mie scelte. Adesso è come se il quadro si fosse finalmente messo insieme, grazie agli scrittori che sanno descrivere la bellezza pulita dell'amore ma anche a chi sta facendo un pezzo di strada insieme a me. Come, non interessa: la sta facendo e basta.
Pezzo di strada, amore e non-amore, paura. Paura, a proposito. Mi è capitato di uscire a cena nella mia Brianza, una sera prima di Natale, con alcuni amici. Tra gli amici, un uomo per me un po' misterioso: potenzialmente potremmo essere veramente amici, con una complicità mentale che raramente ho sperimentato, concretamente invece percepisco il suo freno a mano tirato e da tempo mi chiedo perché. Beh, conosco alcune ragioni, in realtà, perché gli occhi e l'istinto ormai sanno portarmi molto più lontano delle parole, ma, ugualmente, sollevo dubbiosa le sopracciglia quando lo vedo fuggire e nascondersi senza motivo. Avanti di due passi, indietro di uno, sempre. Insomma, non volevo raccontare questo, però. Anche perché lui non c'entra, mi faceva piacere che fosse insieme a noi e l'ho citato. Volevo dire che, fuori a cena con un po' di persone e anche lui, ho buttato un'occhiata in una stanza laterale del ristorante e mi sono inchiodata al pavimento. Mi si è lavato lo sguardo di incredulità. In questa stanza laterale c'era, a un tavolo piccolo, una donna che conosco: l'amante di uno degli uomini presenti alla cena. Per chi mi legge da poco tempo oppure solo oggi, per caso, voglio precisare che il termine "amante" per me è il migliore in assoluto quando si parla di una persona che ne ama un'altra: amante cioé colei o colui che ama. L'amante racchiude ogni forma di amore: sensuale, erotico, spirituale, di intelletto. Insomma, non cercate frettolosamente giudizi nei termini che uso, a meno che non conosciate già la mia scrittura. Dai, vi racconto. Mi sono fermata a guardarla per essere certa di riconoscerla, e non ho avuto dubbi: era lei. Avrei voluto raggiungerla e portarla al nostro tavolo, perché era piuttosto ovvio che fosse là per stare accanto a lui, ma separata di fatto visto il ruolo di donna non ufficiale. Che tristezza. Ho percorso gli ultimi metri fino al nostro tavolo con i piedi pesanti e nessuna voglia di lasciarla là, in disparte. Quella stanza laterale ha concretizzato anni di riflessione e vita, pensieri sul ruolo che la donna permette che le si attribuisca. Per amore ci si fa mettere in una stanza laterale, in fondo a un auditorium se si partecpia alla stessa iniziativa culturale ma con lui in prima fila, che finge di non conoscere e non vedere. E' amore? Non saprei dirlo, una volta avrei detto di sì. Adesso che sfioro i quaranta e ho capito che no, proprio non ci si deve illudere che dalle rape si cavi il sangue e che esistono uomini veramente aridi e incapaci di rispetto, penso che chiamare amore una stanza laterale sia confondere le cose. Credo sia un modo per addolcire una verità troppo dura per essere ammessa: l'uomo si giudica dalla scelta della donna, ma vale il viceversa. Anche la donna va giudicata per l'uomo che sceglie (questa affermazione getta un luce inquietante sul mio passato, me ne rendo conto). E, soprattutto, in alcune fasi dell'esistenza si accettano abusi che, poi, appaiono esattamente ciò che sono: squallidi patteggiamenti vuoti di sentimento. A un'altra cena, settimane fa, il discorso è finito su un uomo politico che sta con una certa donna che, oggettivamente, potrebbe creare qualche problema di immagine: partecipavo alla conversazione con una certa veemenza, ma anche con la consapevolezza che i meccanismi di sensualità e amore (sia l'amore vero che quello falso, virgolettato) non possono essere discussi. Ognuno fa come gli pare. E ne prende, però le conseguenze. Per la donna che prima di Natale ho visto al ristorante, in disparte, la conseguenza è una stanza laterale. Perché lei l'ha voluta e lui l'ha permessa, oppure, se preferite, perché lui l'ha voluta e lei l'ha permessa. E' capitato anche a me di permettere o volere o accettare umiliazioni di questo genere, non credo lo rifarei. Oppure chissà, sono lenta e pigra nello stabilire regole assolute perché sono destinate a sciogliersi come la neve che viene giù oggi senza tregua.
Niente stanza laterale, invece, per la potenziale scrittrice CG. Mi ha mandato una lettera meravigliosa, ha parlato di amore, del suo amore, e mi ha fatta sognare. Ho riletto tante volte quella lettera da conoscerne passi a memoria. L'amore non va giudicato, lo dico a me stessa prima che agli altri, va annusato, assaggiato, bevuto quando è vero. SOLO QUANDO E' VERO, sono ripetitiva come un pappagallo ormai. L'amore vero e prezioso, qualunque colore e intensità e genere e sapore abbia, va vissuto. Perché sarebbe orrendo cacciarlo via o nasconderlo, rimuoverlo o farlo morire. Bellissima, CG, meravigliosa la tua storia, e belle anche, lo sai, le parole che usi quando scrivi. Non seguire maestri, usali solo per i dettagli tecnici e i trucchi del mestiere, ma lascia andare l'istinto perché dentro hai già tutto per essere scrittore. E non a tutti dico così. A pochi, anzi, perché di solito invece sfinisco la gente con suggerimenti di lettura e studio e approfondimento.
Concludo in fretta, e mi scuso, ma la neve che copre di silenzio il paese mi intontisce e chiama al romanzo. Vado, ma ritornerò. E grazie a chi legge, grazie a chi commenta e chi invece non lo fa, grazie a chi mi scrive.
Ha lasciato le stanze bianche e camminato con la testa vuota fino al cancello, poi ha messo i piedi sull'asfalto della strada. Poche automobili nel grigio del campo visivo, con il volto tirato su e esposto all'aria pungente e gelida del pomeriggio inoltrato. Non si è fermata fino alla pensilina dell'autobus, ha tirato fuori dal portafogli l'abbonamento arancione che vale ancora tre giorni e infilato in tasca il telefono. I guanti viola tengono caldo, ha pensato, crede di avere fatto bene a spendere i soldi una settimana fa mentre correva nelle vie illuminate del centro. Il trucco è fermo, niente cola dagli occhi: lo vede dal riflesso nel vetro della pensilina, e una donna alle sue spalle fuma la terza sigaretta; è magra, troppo, la pelle più bianca di un pallore anormale, non sano. E' uscita dalle stanze bianche, anche lei, e con la mano ha cercato il pacchetto delle sigarette nella borsa, senza guardare. Fuma molto mentre aspetta. La guarda solo attraverso il riflesso: si capisce subito che è una paziente, cioé ha il cancro. Il cancro, che parola tremenda. Ma comunque la giri è così, e la donna con la sigaretta tra le dita ossute lo sa benissimo. Se la fissasse un istante di troppo la sentirebbe gracchiare una frase rabbiosa: lo dice l'esperienza, lo dice l'istinto che le fa vibrare la carne sotto la pelle sensibile e infreddolita.
- Non mi dica di non fumare, tanto ho il cancro.
Direbbe così e stringerebbe le spalle in avanti per proteggersi, abbassando la faccia e contraendo le dita, perché anche lei ha capito. Sa di essere seduta alla pensilina insieme a un medico delle stanze bianche.
Le stanze bianche. Rassicurano anche lei, qualche volta. Sono costruite apposta, forse. Chissà se la donna magra con la sigaretta in mano si ferma a guardare la mostra e i libri, chissà se pensa a qualcuno che ama mentre sale sull'autobus e riparte. Ha un cappotto grigio stretto, quasi nuovo.
- Va anche lei allo Sporting?
Annuisce e le sorride. Lo Sporting è vicino alle stanze bianche, c'è un albergo dove i pazienti vanno quando devono restare in città per le terapie. La immagina in una stanza a fissare il muro, con la televisione accesa a parlare a nessuno; non mangerà, comprerà qualcosa ai negozi davanti alla fermata ma assaggerà soltanto. Fino a domani.
"Forse mi sbaglio, forse non è malata".
Sa che gli occhi non commettono questi errori. La diagnosi degli occhi, la stessa di suo padre.
- Guarda i pazienti, guardali, prima di prescrivere esami.
E li guardava, ha sempre guardato. Guarda anche adesso, perfino quando non vuole vedere. Perché se vede deve accettare, scendere dalla nuvola di illusione o oblio che la protegge dentro la scrittura. Se guarda, sa. E non sempre ha voglia di sapere.
Siede nell'autobus che si ferma al carcere di Opera, un'autoambulanza dentro il cancello e qualche macchina blu. Due furgone grandi, scuri. Non è difficile capire. Stanno male anche loro. Pensa. Anni prima, nelle stanze bianche. Il volto di un uomo, il racconto del suo pezzo di vita. Un'arma appesa al torace.
- Sono stato in galera per molti anni. Pensa di non volermi curare?
Sa di avere sorriso, come sorride adesso alla strada grigia e umida che sfila fredda fuori dall'autobus. Domanda fuori luogo e posta male, non necessaria. "Pensa di non volermi curare?".
L'autobus rallenta e si avvicina al marciapiede. Si alza, saluta con la mano e il guanto viola la signora magra, la vede scendere e cercare un'altra sigaretta. Non la lascia, la avvolge con lo sguardo perché le spalle non tremino al freddo dei metri fino al negozio di verdura. Comprerà qualcosa e salirà nella sua camera in albergo, poserà il sacchetto su un mobile e toglierà il cappotto. Poi fisserà il muro, le mani aggrappate alle sigarette una dopo l'altra. Fino a domani.
Natale è un delirio collettivo. E non nego che mi piaccia. Mi infilo nelle carole e nelle luci colorate con l'incanto di chi ha voglia di illudersi, cammino al freddo con le dita abbracciate dai guanti viola e cerco alberi, piazze addobbate, stelle filanti che si accendono e spengono e, se sono moderne, cantano anche qualche jingle d'annata.Mi viene in mente un anno qualsiasi, una via di Milano con i taxi bloccati e un saluto affettuoso a mio padre dopo una passeggiata di rara armonia: è la nemesi di questi giorni che si ripetono uguali nella novità della vita che cambia, non si riesce a fare a meno di ritornare al passato, ci si trova prigionieri di eventi e persone, relazioni edulcorate o apparenti che hanno seguito percorsi diversi. Potrei andare a un anno fa, solo un anno, e scoprire che tutto è cambiato, ma farlo va oltre l'energia che ho deciso di spendere: il rito che pochi osano spezzare tenta di mantenere un incanto arcano e fittizio, motore vero e malefico della malinconia. La malinconia del Natale, la sua retorica becera.
Invidio i miei amici che partono ora per New York: ricordo la città rivestita di Natale come nessuna, i cori davanti alle chiese e tutto ciò che fa film americano, e sicurezza, e poesia consumistica e semplice. Il delirio, appunto, cui non potrei rinunciare. Vorrei andare con loro e camminare semiassiderata per le vie di New York, bruciarmi i polpastrelli con gli angoli dei libri da sfogliare e mettere nello zaino, fingere uno shopping che in realtà non ho mai fatto. Perché è l''idea, solo l'idea a gratificare. Vorrei l'odore di New York nel naso: chi ci è stato almeno una volta sa cosa intendo, New York si intrufola nei sensi e ti spiega che vivere in pieno un luogo si può, si può davvero, e gli odori tracciano un percorso da seguire anche a occhi chiusi. Perché quando impari non puoi più sbagliare. Una volta, a New York, ero incinta, e l'olfatto era amplificato dagli ormoni di quella precoce, fallimentare gravidanza: fu un colpo di fortuna, nonostante tutto, perché riuscii a farmi entrare nel cervello dritti, senza sinapsi lente o circuiti necessari, gli odori acri, dolci, poveri, sontuosi della città con un fervore unico, il fervore particolare di uno stato atipico destinato a dissolversi.
Il mio giorno di Natale è stato bellissimo e strano. Inatteso, anche. Sono stata con persone diverse dal solito, da un sempre che pareva eterno. Ho rotto una tradizione di vita, una specie di trauma con voci e volti diversi dal nucleo che ero abituata a vedere. Una famiglia diversa, amore diverso. Sono stata felice, per la prima volta la follia non ha riguardato la retorica dei tempi andati e delle persone che non ci sono più. Il Natale, maledetto per questo, sembra fatto apposta per tirare fuori dai cassetti chiusi e polverosi i rimpianti e le memorie che non servono. A costo di essere brutale, che i morti e gli andati siano vivi nella nostra mente, ma non più pericolosi per i giorni come questi. Vorrei che in un futuro improbabile, se proprio dovrò morire (non ne sono ancora convinta: credo di essere eterna), non mi ricordasse con la lacrima natalizia e le frasi sospirose. "Eh, quando c'era". Non fatelo, se mi volete bene. Ci sono adesso, ricordo i miei morti e i vivi e gli andati e i rimasti, ma il delirio delle Feste più molli e gioiose che esistano non deve strozzarmi di pianto misto a soddisfazione per i regali e il cibo e i biglietti con scritto un po' di pensiero. Perché mi piacciono i regali, mi piace l'atmosfera, mi piace il sorriso di chi mi sta accanto in questo Natale.
Osservavo il fluire rapido delle parole su Facebook, ieri sera. Auguri, auguri, auguri. Qualcuno ha osato dire "Che noia". Ma auguri, comunque. Non mi sono tirata indietro. Ho mandato un video a tutti, a chiunque, a nessuno, ho fatto parte del delirio volentieri. Insomma. Come si fa a non amare il Natale? Se devo stabilire una graduatoria, a me piace più di tutto guardare le luci colorate. Mi sono fermata decine di volte di fronte al Duomo (avete visto quanto è bello adesso, così pulito?) e lo sguardo si è riempito di gioia. Ho spazzato via ricordi e ataviche rabbie, inutili ormai, e goduto della musica, dei passi un po' scivolati sui rimasugli di neve, dei negozi non troppo pieni e della cioccolata calda con la panna sopra. Del panettone morbido da mettere sul calorifero. Delle persone cui dare, quelle che non potrebbero avere un Natale, forse nemmeno dovrebbero pronunciare la parola perché la vita ha tolto tutto: dare a loro è il migliore regalo, ma di questo non parlo. Che si dica pure che mi aggrappo al consumismo, ormai accetto volentieri ogni lettura di me, anzi mi ci diverto, perché detesto chi mette in piazza altro: ho visto ricconi dalla generosità sbandierata e fintamente taciuta, benefattori grassi con la barba scura piegata su vestiti di marca costosa comportarsi come bestie con chi li amava, anime pie inginocchiate a messa che poi commentavano il vicino dandosi di gomito, volontari dagli occhi persi nella beatitudine della carità infilare nella borsa i pacchetti regalo per i poveri come ricordo di giornate speciali. Basta, no, non è questo che volevo per il post di Santo Stefano. Era il delirio del Natale, solo quello.
Siamo vittime felici. Il Natale arriva e ci costringe a sbuffare per i regali da trovare, i soldi da spendere, le ore da trascorrere in cucina, gli addobbi per ogni angolo visibile della casa. Ci fa dire agli amici che, come ogni anno, dovremo ospitare la famiglia al completo "e con i nipoti fanno trentacinque", e in fondo godiamo di questi trentacinque perché niente come il Natale ci permette di entrare nel ruolo: le mogli ricordano ai mariti che nessuna amante saprà fare meglio di loro, i mariti accarezzano per l'ultima volta giovani carni flessuose per ritrovarle dopo l'Epifania, annoiandosi con i figli da portare qua e là e le suocere ottantenni un po' sorde da caricare in macchina la mattina stando attenti che non prendano freddo. E' Natale, è così. Ma piace, a tanti. Anche a me. La retorica del dare e del pensiero a chi soffre vale tutto l'anno, non può essere compensazione del senso di colpa sciocco di chi può, questa volta, vivere le Feste con un sorriso. Che scemi i cantori della povertà che si attivano solo a Natale! Sarà forse l'altro mio lavoro, la passione medica che mi possiede da sempre, ma non riesco a pensare a chi soffre solo a Natale; anzi, mi fa rabbia l'occasione colta al volo per le campagne che dovrebbero appartenere a tutti i giorni dell'anno. "E' Natale, ricordati di chi non può viverlo come te": non sorrido per queste frasi tragiche e bieche, fingo di non capire il significato nascosto di un interesse sporadico. Natale, anche questa è retorica, e finiamola lì. Ho avuto anni con Natale senza doni e senza soldi, con la tristezza del non potere fare festa, ho conosciuto giorni migliori o meravigliosi o tristi o solitari. Conosco la vita, fingo di non ascoltare i sussurri di chi mi vede camminare nelle vie di città ricche dove il disagio sembra rimosso; ho avuto la parte di povertà e tristezza che mi spettava, forse l'avrò ancora, in un futuro che non amo indagare. So cosa sia un Natale senza. Senza amore, senza emozione, senza un pacchetto da aprire, senza tutto. Senza sorriso. Eppure. Scrivo, nella penombra di una casa vuota che sussurra alla neve che si scioglie, e mi piace guardare la luce degli alberi accesi nelle finestre di fronte alla mia. Vorrei che non si spegnessero, li vorrei in ogni stagione per le mie sere con le mani piagate dalla scrittura. Vorrei gli alberi morti coperti di palline che girano al vento e candeline elettriche che si accendono e spengono. Fa parte del gioco e mi piace. Succede.
Credevo che non avrei scritto, pensavo di leggere benevola e muta i pezzi altrui sulle rimembranze e la malinconia del Natale, un delirio collettivo voluto da religione, consumi e quiete pubblica: avevo deciso di tirarmi fuori e godere la vita, senza cadere nella trappola banale delle carole che tanto mi fanno sospirare. Invece. Mi sono seduta, ho digerito un pezzo di panettone e bevuto uno o due bicchieri di acqua. E ho scritto, perché diversamente non so vivere. Faccio retorica anche io, in fondo. Evviva.
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