Lasciare andare le mani, è questo il senso. Abbandonarsi alla scrittura e decollare, lasciando indietro ciò che non ha relazione. Ciò che non è, in effetti, perché l'altro dalla scrittura non ha consistenza, la assume negli spazi liberi, nei vuoti silenziosi che altrimenti rischierebbero di implodere nel buco nero dell'inedia. Scrittura oppure niente, e il niente da riempire. Ho ascoltato brani a decine: lunghi, brevi, con l'audio storto oppure gestiti da professionisti della comunicazione. Scrittori a me simili e da me distanti hanno spiegato cosa sia per loro la scrittura. Li ho sentiti e decifrati nelle lingue diverse che sono riuscita a possedere, ho interiorizzato e paragonato a me personalità opposte e scritture aliene. Oppure aspirazioni comuni come quella casa nella campagna francese che avrei voluto insieme alla quiete, e ai libri, e al sorriso pacato e radioso di tortuosa consapevolezza. Di chi, sta a voi scoprirlo: la Rete è piena di bellissime interviste che spero non vorrete perdere.
Cosa è la scrittura, ecco la domanda che non può mancare: arriva a ogni incontro con i lettori, nelle interviste, nei discorsi da bar (non vado al bar, ma lo immagino) o con gli amici al ristorante. Qualcuno non chiede, tenta di ipotizzare poi si corregge nell'esitazione imbarazzata inevitabile del mio sguardo stentoreo: "La tua passione per la scrittura", "Il talento", "L'hobby", "Il bisogno". Non c'è bisogno che dica che passione e hobby ricevono sputi metaforici che a stento evitano di concretizzarsi in gesti carnali; l'istinto, il bisogno e ogni altro azzardo si perdonano di più, ma sono "uno" e non centrano l'obiettivo. Uno, non la molteplicità frammentaria e condensata in mistero segreto che è per me. Bisognerebbe evitare di chiedere, oppure tacere sulle ipotesi. Cosa importa cosa sia la scrittura per me? Quale significato ha interpretare le mie mani che scivolano sulla tastiera o sui taccuini, la testa impastata a una storia, ossessionata da un finale che manca, tormentata dall'incipit che deve essere perfetto? Nessuno chiede a un usignolo perché canta. Forse perché l'usignolo non saprebbe rispondere, o riderebbe mascherando l'ilarità con un gorgheggio apparentemente stolido.
Cosa sia la scrittura per me è affare che non riguarda il mondo, e non riguarda me. Perché non me lo chiedo, esiste e basta. Sono la mia scrittura, qualunque cosa significhi. Mi vengono in mente le critiche, di solito mascherate da pseudonimi o anonimato (chissà poi perché), e le so, adesso, rinforzate dalle mie parole: "Sono la mia scrittura", evidenza becera per alcuni, sorprendente per altri, assoluta per me. Eppure, se ritorno con la memoria a mesi, anni fa capisco che la scrittura è metamorfosi plastica e incagliata nelle pieghe necessarie dell'anima: non direi adesso ciò che ho creato prima, non confido solo nell'istinto e nell'immediatezza delle frasi fluenti, credo alla tecnica e all'autocritica, non accetto che chiunque possa dirsi scrittore. Ho perso la democrazia e il buonismo, forse per effetto dell'età oppure perché ho visto pubblicare opere raccapriccianti che hanno occupato indegne uno spazio tolto ad altri. Lo spazio di un'uscita che avrebbe potuto cambiare la storia, e il modo di pensare, e il piacere di chi sa cosa significhi leggere. Leggere, a proposito. La connessione tra scrittura e lettura non vede d'accordo i più. Il talento è talento, si può scrivere senza leggere: non lo dico io, non mi sognerei di farlo. Credo al DNA che ci determina e, con le associazioni casuali delle basi azotate, decide se io sappia scrivere o no, quindi posso ammettere che si possa scrivere senza amare la lettura, ma la mia limitatezza di quarantenne arrivata dalla Brianza fatica a immaginare che si possa essere scrittori e non leggere le opere altrui. Che retorica, sono partita da A e non arrivo a Z. Sono arrivata al solito pistolotto sulla lettura, penso che a breve arriverò all'esortazione ai giovani e mi alzerò in piedi sulla sedia, caracollando sulle ruote che non stanno ferme. Perdonate voi che leggete, e chi si è fermato dopo le prime righe perché ha capito che non è un racconto lieve e nemmeno un'allusione erotica non ha il problema di riflettere e digrignare i denti.
Scrivere cambia la vita. La vita cambia lo scrivere. Parole e versi, facce sbattute nella telecamera ammiccanti e senza sorriso (avete notato che gli scrittori raramente sorridono? Me l'ha detto anche un bambino, un paio di anni fa, a un incontro con i lettori: non sono uno scrittore vero perché sorrido troppo), musichette di apertura e chiusura di clip che su YouTube vanno a mille. Ognuno di noi tenta, prima o poi, di produrre il proprio video in cui regala la scienza esatta sulla scrittura. Perché scrivo? Aspetta che te lo dico, stai fermo un istante che mi immortalo nel video o in questo blog e sputo fuori parole che potrai regalare agli amici o citare nelle diapositive sulla creatività. Già che ci sono, ti racconto perché Picasso dipingeva, o perché lo faceva Monet: pensa che bomba. Scopriamo l'essenza della creazione, l'essenza di ciò che è arte. Peccato che la creazione non si dica. La creazione è.
Le mani scivolano bestiali e fluide, la tastiera rende eterno il pensiero affastellato che tiro fuori per voi. Sto scrivendo, sto raccontando, sto facendo la stessa cosa senza l'ausilio del video: nella sequenza delle frasi viene fuori la scrittura, e cosa penso. Cosa sia la scrittura per me, questo vedete se vi concentrate e se avete avuto il coraggio di arrivare fino qui. Chissà quanti siete: mi piacerebbe proseguire a lungo, con ragionamenti che portano lontano, per il gusto torbido di trascinare con me i più motivati, gli annoiati o i pazzi. Non so se lo farò, il motore della scrittura in questi pezzi di non-narrativa, non-saggistica, non-qualcosa è imprevedibile. Si accende, parte e non si sa quando finisca il carburante. Scopro sillaba dopo sillaba di avere qualcosa da dire, si materializzano concetti discutibili o aleatori su uno sfondo bianco niveo sporcato da caratteri neri tozzi che, al termine, ridurrò a dimensione 14. Scrivere, questa bestia agognata e temuta, questo obbrobrio da criticare perché pericoloso, o stimare se ci solletica l'amore di noi. Tu che mi guardi, vuoi che racconti di te o taccia? Vivi nella paura che prima o poi mi scappi un'allusione oppure sogni di diventare il protagonista di una storia tutta sesso, forza e crudeltà? Scrivere: lo fanno tanti, troppi, e troppi si illudono che sia letteratura. Mi illudo, io? Taccio, ma non per pudore: semplicemente, non lo so. Non sono io a doverlo dire, non mi pongo il problema, non adesso e non qui. Me lo pongo, credetemi, in altre sedi con un tormento dentro grosso come la morte. Perché la responsabilità dei vostri occhi addosso pesa sulle spalle, è piacevole e tremenda. Non credete a chi dice che scrive per se stesso, ma poi pubblica: l'atto in sé, la scrittura è autoerotismo puro, anzi più dell'autoerotismo, è piacere impossibile da riprodurre in altro modo, ma l'intenzione nello scrittore è sempre parcellizzata e ricomposta in miliardi di immaginari. E l'immaginario dello scrivere solo per sè è improbabile. Dopo un po', si impara a intuire il guizzo, la natura, la qualità dell'istante: ci sono scritture che sono davvero per sè, nascono e si sviluppano in un certo modo, con un sentire peculiare, e scritture che da qualche parte andranno, e riempiranno pupille e mani tese per afferrare la carta e la copertina e l'inchiostro impresso. Si sa che i pezzi che escono avranno un bersaglio, un lettore o mille.
Di recente, voglio raccontarvi, uno scrittore amico ha suggerito alcune cose che mi hanno spinta a riflessioni oltre. E oltre. E oltre. La verità esce nitida dalla foschia e sembra tanto semplice da assomigliare all'ovvio, ma mi succede di avere bisogno di una mano altrui che tolga il velo. Insomma, si parlava di critiche e della definizione di "scrittrice bulimica", definizione che in fondo non può offendermi perché ho dichiarato in "Diario di melassa" di avere sofferto di binge eating disorder (altro che bulimia!). Chi mi chiama bulimica lo fa per alludere al quanto, cioé al numero di libri e racconti e pezzi sul blog, e l'accezione è negativa. Insomma, qualunque sia l'intenzione non ha importanza: c'è chi scrive stitico, cioé pochissimo e con fatica (avrei nomi di scrittori notissimo ed eccellenti), chi scrive normale (non mi vengono in mente nomi, o forse uno sì) e chi scrive bulimico. Come me. Accettare lo stato dell'essere è saggezza ma anche passività pericolosa, quindi la bulimia scriptoria mi ha chiesto la riflessione. Sono proprio sicura sicura sicura che niente si possa fare? Che sia giusto così? Sono certa di rinunciare a un periodo sabbatico che forse potrebbe rivelarmi pezzi che ancora mancano? Ho sconfitto il binge eating disorder perché era malattia, perché non concentrare lo sguardo sull'eccesso delle mani che corrono sul foglio o sulla tastiera? Lascio sospeso il dubbio, che non mi tormenta proprio per niente ma che, come tutti i dubbi essenziali, da qualche parte mi porterà. L'amico scrittore ha squarciato un velo, nei miei neuroni cala il silenzio della gratitudine e di una corazzata da quattro colpita e affondata, come nella battaglia navale che mi piaceva nelle ore di ginnastica o religione.
Poco prima di iniziare questo delirio ho salutato via email Gianluca Ferrara, il mio editore Creativa. Si parlava de "Le parole del buio", esaurito, e di una possibile ristampa. Oggi, proprio "Le parole del buio" è stato il regalo che, insieme alla mimosa, le donne di Novellara hanno ricevuto dal Comune. Che vita misteriosa, i libri, imprevedibile e stupenda. Oppure squallida e triste, potremmo dire, per alcuni. Viaggiano, si fermano e perdono il fiato, poi qualcosa, un canto leggero in fondo alla foresta, li tira fuori. E, come un vento allegro e dispettoso, pungono la faccia con energia nuova.
La scrittura, che mistero irrisolto, ameno per me, che arma pericolosa e stupida e micidiale, che sollievo e piacere e buiolucebuioluce. Che essenza indistinguibile dal mistero.
La scrittura, ecco. Voilà.
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