Sul cestino per la spazzatura, la “A” di “alta velocità”. Non coglieva la differenza tra un treno ad alta velocità e un Eurostar, la durata del viaggio era identica e i servizi anche. Perfino i ritardi parevano gemelli. Però quell’”A” sembrava promettere meraviglie, come la finta anticamera di partenza a Stazione Termini che ricordava l’imbarco dei treni superveloci tra Parigi e il resto d’Europa. O quasi. Perché la realtà era che sui treni ad alta velocità si saliva come su qualsiasi altro treno, correndo sulla pensilina e cercando la carrozza giusta che spesso era indicata al contrario dai cristalli liquidi della stazione, il servizio in prima classe prevedeva al massimo tre bicchieri di acqua o bibita in tutta la tratta (con lo sguardo severo delle hostess quando si sentivano chiedere “ancora qualcosa” da chi aveva già ricevuto la propria razione di idratazione in partenza da Roma) e il ristorante dipendeva dagli umori e dalla buona creanza del personale. Il treno superveloce era un treno che, quando andava bene e non si accumulavano ritardi, andava da Milano a Roma in quattro ore mezza. E viceversa. Con la porta dello scompartimento (il “salottino”) che si apriva ogni volta che la frenata era brusca e i tavolini per scrivere che schizzavano fuori all’improvviso, ad aggredire i dirimpettai.
Eppure amava viaggiare in treno. Riempiva il vuoto del fare con pensieri densissimi, oppure leggeva o ascoltava. E scriveva lettere agli amici. Sempre, sempre in treno.
Fissava la “A” bianca con una linea orizzontale rossa a tagliarla in due parti asimmetriche e pensava alla nuova solitudine. Quella che le era capitata addosso come un abbraccio di scimmia sguaiata che sghignazzava e le regalava la libertà e un’eterna, sottile malinconia. Passati i mesi della lotta e del rifiuto di ogni evidenza, aveva ormai (quasi) accettato che il corso delle cose fosse cambiato tanto da renderla ancora giovane, sufficientemente ricca da permettersi qualche svago, distante dalle beghe di ambienti di lavoro che aveva rifiutato, e sola. Crudamente sola. Crudamente, non crudelmente. La solitudine era cruda in una definizione che lei stessa, Mara, dava a chi le chiedeva “Come stai?”. Non sapeva perché la solitudine dovesse essere cruda, ma era la definizione migliore per ciò che le stava accadendo. Essere sola, in un modo che nessuno sembrava disposto a riconoscerle (un conto è essere soli e poveri, magari un po’ brutti, ma se sei sola e bella e con il conto in banca senza grossi problemi allora non è vero che sei sola, c’è sicuramente l’inghippo), era crudo perché carnale, fisico, diretto come un pugno. Non c’era noia, quella le era estranea da quando rendeva conto solo a se stessa, ma l’assenza di orecchie disposte ad ascoltarla e labbra pronte a confidarle intimi segreti e abbracci gratis per il solo fatto di esistere si faceva sentire in quegli istanti di silenzio che seguivano gli impegni della giornata e riempivano le notti di sonno scarso e sottile. Il pungo le arrivava quando scendeva a Termini e andava verso la corsia dei taxi, e per qualche istante vagheggiava messaggi SMS con i quali chiedere aiuto, o qualche parola di sorriso. SMS che non mandava, ma che avrebbe voluto inviare cedendo al morso bruto di se stessa da sola. Era crudamente sola, nonostante i giudizi e i pareri di chi la voleva diversa da ciò che realmente era. Nuda di fronte alla propria storia e a un presente inatteso.
Era diventata la donna immagine di una campagna pubblicitaria che aveva riscosso un successo assoluto, la gente la fermava e le stringeva la mano o addirittura chiedeva un autografo, il suo metro e settantacinque per sessanta chili l’aveva introdotta nelle simpatie (e solo in quelle) di uomini che avevano deciso di aiutarla, e per questi aiuti non aveva nemmeno dovuto concedere prestazioni sessuali perché era bastato promettere senza mantenere. Sembrava un miracolo. La notorietà sfruttata al momento giusto e i guadagni della campagna pubblicitaria con tutte le comparsate televisive conseguenti l’avevano affrancata dal rischio di doversi vendere a produttori affamati di conferme sessuali e dalla necessità di essere sempre all’altezza delle aspettative. Era libera. E sola, crudamente sola.
Perché insieme al successo della campagna pubblicitaria con il suo viso in mostra nelle piazze più importanti di tutte le città era arrivato anche il cambiamento di casa e di stato civile. Luca aveva deciso che la vita era più interessante senza di lei e aveva trasferito tutte le sue cose da Claudia, una donna che aveva più anni di lei, cultura inferiore (o almeno così voleva pensare) e molto propensione alla cura della casa. Un angelo del focolare che l’aveva travolto di dolcezza e convinto ad abbandonare l’avventura stimolante di una moglie sempre in viaggio, sempre all’erta, totalmente avulsa da ogni abitudine casalinga. Una moglie quasi famosa, mai quanto lui ma abbastanza da dare fastidio.
- Te l’avevo detto, avresti dovuto diminuire i tuoi viaggi, badare a lui e alla casa! Gli uomini sono semplici, vogliono ritornare a casa la sera e ritrovare la cena, l’ordine, la quiete. L’emozione forte va bene per le amanti, non per le mogli! La moglie deve cucinare bene e rifare il letto, essere sempre pettinata e non dimenticare di comprare il vino perché troppo impegnata.
Il coro unanime delle amiche aveva sentenziato che la responsabilità per la partenza di Luca era sua, lei aveva dedicato qualche ora a un esame di coscienza che tanto aveva già fatto decine di volte, aveva alzato le spalle e tirato dritta. Passi lunghi, ginocchio saldo. E nervi a posto. In fondo Luca la sera si addormentava sul divano e il fine settimana proponeva sempre il medesimo programma, e non le chiedeva granché sulla sua vita limitandosi a pretendere che si occupasse anche delle sue necessità, nonostante gli impegni. Conti da pagare, assicurazioni, automobili da ritirare o consegnare al concessionario, lunghe code in uffici amministrativi e regali per il figlio che non abitava con loro. E gli piaceva che lei fosse colta e attraente, soprattutto quando voleva esibirla alle cene, senza seguirla quando era lei a sperare nella presenza di suo marito negli eventi che la riguardavano. Luca era un già-assente che a un certo punto aveva deciso di ufficializzare l’assenza, manifestando il disagio con la scelta di una donna rassicurante e meno pericolosa di lei.
Certo, la separazione l’aveva fatta soffrire, ma i motivi erano diversi dall’amore. Era l’affetto tradito, era la fiducia nella tranquillità che la noia di certi momenti sapeva darle, fiducia persa per colpa dell’abbandono, era la consapevolezza che con Luca aveva trovato una stabilità che geneticamente non le apparteneva. Il matrimonio era stato un’impalcatura incrollabile per la sua irrequietezza, che si trasformava troppo spesso in crisi di ansia o apparente panico di vivere.
- Basta!
Si annoiava con quei pensieri da portineria, con i ricordi di un matrimonio fallito che le mancava quando si rendeva conto di non avere abitudini quotidiane, ma che da anni era vuoto di passione e desiderio. E che, implodendo nel più tipico dei modi, l’aveva liberata e costretta a vivere davvero. Aveva potuto scegliersi una casa nuova in una città diversa e potenzialmente avrebbe anche avuto tempo e spazio per un altro amore. Se ce ne fosse stato uno. Ma non era certa di averne voglia. Gli amori nuovi sono impegnativi e costano fatica, e gli uomini spesso non erano in grado di reggere al colpo dell’incontro con lei che non offriva sedentarietà e chiedeva che si riuscisse a stare dietro a suoi ritmi. Tipicamente senza equilibrio
- Scusi, questo posto è libero?
La risposta dell’istinto avrebbe voluto essere “no”. Perché era vero, il posto non era libero ma era troppo complicato spiegare che l’amica che avrebbe dovuto sedersi là aveva perso il treno, quindi il posto era effettivamente libero da persone ma pagato da qualcuno. Cioè lei, Mara.
- Sì.
Sperò che il nuovo venuto, dalla erre cantilenante e gli occhiali spessi, non fosse petulante quanto l’aspetto fisico sembrava promettere. Aveva avuto ogni genere di compagni di viaggio. La ragazza spregiudicata e ignorante che titillava l’eccitazione di un capufficio più anziano, alla vigilia delle nozze (di lei) e con le fotografie della moglie (di lui) esibite a scudo. Oppure il politico rampante con il cellulare incollato all’orecchio nel tentativo di capire con chi si fosse alleato il presidente del partito, e informazioni diverse a ogni stazione. O l’editore con i gemelli ai polsi e l’aria da “esisto perché il mondo sia felice”, senza libri nella ventiquattrore e con le cifre sulla camicia che ne recitava l’intero nome. O l’avvocato quasi centenario con un tirapiedi servile che per tutto il tempo aveva sussurrato delazione e implorato benevolenza.
- Lei è la donna della pubblicità del telefono, vero?
L’uomo dall’aria petulante le rivolse la più ovvia delle domande.
- Sì.
Sì. Solo sì senza commento o aggiunte. Sono io, sono la donna che ti convince a comprare un telefono di una certa marca con la SIM di quell’operatore: le vendite sono aumentate del quattrocento per cento con me, lo sai? E’ vero che le mie battute in tv erano studiate da esperti, è vero che il telefono è l’oggetto del desiderio per tutti, però. Sono io, sì. Sono io.
- Senza trucco è più bella.
Banale. Dovrei sentirmi lusingata eppure lo dicono tutti. Forse è scritto sul manuale del perfetto gentiluomo dire che una donna famosa, o solo nota ai più, sia bella al naturale e non quando posa per i fotografi o i cameraman. Pensate che faccia piacere sentirsi dire così?
- Grazie, è molto gentile.
E adesso taci. Ho deciso che vorrei leggere. Ho solo un libro con me, quello della scrittrice che ieri sera ha presentato in via Farneti, non credevo che l’avrei letto ma lo farò. Leggerò queste parole del buio di un editore sconosciuto anche se parlano di depressione e fine di un amore, cose banalissime sulle quali solo una demente scriverebbe un libro. Una demente o Liala. Le donne sono così: si ammantano di cultura e scrivono d’amore, come le serve o le bambine che sfondano il baratro dell’adolescenza. Ma leggerò, ora. Così tu, uomo con gli occhiali la barba e la camicia a scacchi piccoli bianchi e azzurri e un paio di pantaloni colore della sabbia che vanno bene in vacanza oppure in treno, smetterai di parlami e starai zitto nel tuo sedile di finta pelle marrone che con un tasto si allunga e con un altro ritorna su. Esattamente come il tuo sesso flaccido che si rizza a comando, se la mano della tua donna è abile oppure giovane. O tutte e due le cose.
- Immagino che le chiedano sempre le stesse cose.
L’uomo ridacchiò, la erre quasi musicale.
- Abbastanza.
Rispose senza dare inflessioni giocose alla voce. Aveva imparato che se non vuoi dare confidenza non puoi essere gentile. La gentilezza l’aveva sempre costretta a ricevere troppe domande e inventare troppe risposte.
- Proverò a chiederle cose diverse dal solito.
Non serve, maledizione. Non serve. Non chiedermi cose che non ho voglia di dirti. Non sono qui per fare conversazione, ti ho concesso di sederti a un posto non tuo ma non abusare di me. Taci. Sei nessuno, capisci? Nessuno!
- D’accordo.
Accidenti anche a me quando non so tacere e dire no, non voglio. Cazzo, perché ho detto “D’accordo”?.
Vide il sorriso sul volto anonimo dell’uomo che sedeva a gambe larghe di fronte a lei, con un telefono nero tra le mani e le ditate sul display. Cincischiava il telefono e lo rigirava senza guardarlo, con le dita grosse e le unghie tagliate male. Non c’erano calli su quelle mani, erano bianche e morbide e forse un po’ flaccide come tutto l’insieme di lui.
- Come mai viaggia nel salottino business? L’ha sempre fatto o ha iniziato con i soldi della pubblicità?
- Vuole sapere se sono parvenue oppure se sapevo anche prima dell’esistenza del salottino business?
L’uomo rise e si sporse in avanti.
Armi spuntate fratello, non sono qui per farmi crocifiggere da uno che pensa che fare la modella per una pubblicità significhi essere idiota.
- Più o meno Allora, viaggia in salottino da quando ha fatto i soldi con la pubblicità?
- No. Lo faccio da anni, perché nel salottino trovo silenzio. Di solito.
Calcò il tono sull’ultima frase. L’uomo parve non accorgersi.
- A cosa le serve il silenzio?
- A pensare, leggere e qualche volta scrivere.
- Scrivere?
- Sì. Lettere. Mi piace scrivere lettere agli amici.
- E le scrive in treno?
- Passo molto tempo in treno e scrivo, sì. Ma il più delle volte guardo fuori e mi accorgo di dettagli.
- Quali, per esempio?
- Ha notato i paesi nel tratto Bologna-Firenze? Ha visto le stradine e le chiese, e le costruzioni di pietra?
- Certo.
Stai mentendo bastardo, lo vedo dagli occhi. In realtà ti sembra tutto scontato ma non vuoi ammettere che ti sto dando immagini che non conosci. Per te il tratto tra Bologna e Firenze è solo uno spazio che non sia come riempire, una noia da superare in attesa di arrivare dove è deciso che tu debba arrivare.
- Bene, se anche lei nota questi dettagli sa di cosa parlo.
- Lo so ma non capisco ugualmente. A cosa le serve guardare? Se sta tanto in treno è sufficiente guardare una volta o due, il paesaggio è sempre lo stesso.
- Non lo è. Può conoscere il paesaggio e stupirsi di piccole cose che nota solo una volta, con il passaggio veloce del treno che confonde e porta via. Sono visioni d’istante, sembrano fotografie, tanto che mi è capitato di mettere in dubbio la realtà della visione. A volte sembra che ci siano flash che colpiscono prima il cervello poi gli occhi, entrano dentro e non si staccano e fanno venire voglia di scendere per controllare se sia tutto vero. Mi viene voglia di visitare quei luoghi nascosti e immusoniti per la presenza della strada ferrata.
- Strada ferrata? Che espressione antiquata! Lo diceva mia nonna.
- Bé, il passaggio del treno. Insomma, mi ha capito. L’Eurostar passa in mezzo a posti da favola, dimenticati dall’uomo e forse da dio.
L’uomo parve illuminarsi.
- Esiste dio?
Sei banale, uomo, tremendamente banale. Non cogli i dettagli e vai sui massimi sistemi. Tipico degli ignoranti stupidi, la peggiore categoria. Quella che si crede colta perché ha finito l’università ma in realtà non ha mai approfondito niente. Scommetto che citi spesso scrittori e opere ma non ti ricordi il contenuto.
Sorrise.
- Non ci ho mai parlato, non saprei dire. Era una frase fatta e per questo mi scuso. Intendevo dire che quei piccoli paesi sono bellissimi e allo stesso tempo inutili, ci si chiede cosa si faccia lì. Come si possa vivere in agglomerati di case arrampicati su montagne dove non esiste nemmeno la beatitudine del silenzio vero perché almeno ogni mezz’ora un treno superveloce sibila e sferraglia.
- Ha mai immaginato l’emozione dei bambini piccoli che vedono passare il treno? O le fantasie dei vecchi seduti fuori con la sedia di paglia, a pensare cosa sarebbe accaduto se anni prima fossero saliti su uno di quei treni?
- Non ho mai visto bambini e non ho visto vecchi, è questo il punto. Forse perché il treno va troppo veloce.
- O forse perché una come lei si ferma a guardare i boschi e le case ma fugge le persone.
Perfetto. Siamo alla psicologia da due soldi. Sono la modella capitata per caso nel salottino del treno e lui si diverte a farmi notare che le mie osservazioni sono sciocche, da donna viziata e vuota.
-Come sono, le donne come me?
Lo disse rapidamente, buttando fuori il fiato.
- Non si offenda, non era una critica.
- Non mi offendo, voglio solo sapere come sono le donne come me visto che apparentemente lei conosce la categoria nella quale includermi.
- Qualcuno le chiama donne in gamba, altri le definiscono donne in carriera. Io penso siano, siate, donne con un DNA molto fortunato che si scontra troppo spesso con la realtà.
- Non le sembra troppo per una conversazione iniziata in treno?
- Vede? Si è offesa. Forse avrebbe preferito una serie di domande più noiosa e abituale. Tipo “Come è arrivata alla pubblicità del telefono? Le ha cambiato la vita?”.
Avrei preferito nessuna domanda. Avrei voluto un viaggio silenzioso immerso nei pensieri, io nei miei e tu nei tuoi. Se ne hai. Detesto chi pretende di conoscere gli altri perché insicuro, perché genitori noiosi e rigidi hanno inculcato categorie automatiche nelle quali imprigionare il mondo, per addomesticarlo e tagliargli gli artigli. Non sarò mai come tu credi, come chiunque voglia credere, perché sfuggo a gruppi e insiemi e solo una pallida intersezione tra più dettagli può forse avvicinarsi a un’ombra di me.
- Non mi sono offesa. E’ solo che sentirmi definire in qualche modo, un modo che non ho capito ancora bene, con certezza quasi assoluta, mi ha infastidita. Non ci conosciamo.
L’uomo tese la mano.
- Mi chiamo Enrico Bentani, piacere.
- Mara Cavicchini.
- Lo so. So chi è lei, lo sa tutto il treno. Ma è bello che dia per scontato che sia necessario ripeterlo, la rende più umana.
Me l’hanno detto altri. Forse hai ragione. Ma non posso fare a meno di restituirti la cortesia, mi hai detto il tuo nome e ti dico il mio. E prima o poi troverò qualcuno disposto ad ammettere che la mia faccia non l’ha proprio mai vista.
- Abita a Roma?
La domanda la fece respirare meglio. Perché era generica, scontata. La stretta di mano l’aveva fatta sentire troppo vicina a lui, le sembrava che sul suo corpo si fossero trasferite le stesse ditate che vedeva sul telefono che lui continuava a maneggiare per niente.
- Sì. A Trastevere.
- Beata lei. Mi piacerebbe abitare a Trastevere.
Ebbe voglia di raccontargli del bilocale immerso nella natura, della scoperta di quel piccolo comprensorio nascosto con tante palme e le scale su e giù che le rigenerava l’anima ogni volta che ritornava. Non lo fece: i suoi occhiali spessi e la camicia a quadretti bianchi e azzurri le trasmettevano qualcosa di malsano, viscido, pericoloso.
- Sì, mi piace molto. La gente è molto… Normale!
L’uomo rise.
- Avrei detto tutto ma non questo. Normale per i suoi canoni di normalità o in assoluto?
- Per i miei canoni, direi. La normalità è sempre relativa.
- Forse. Potrebbe giudicare normale qualcuno differenziandolo da lei, per dirne male oppure per invidiarlo nei momenti di insicurezza. Oppure può definire normale chi le è simile.
- Ho sentito poche persone davvero simili a me.
- Esteticamente non ho dubbi. Dentro è tutta un’altra storia.
- Alludevo al dentro, invece.
- Guarda sempre le persone dentro?
- Sì.
- Non giudica mai l’aspetto fisico?
Restò in silenzio. Avrebbe voluto rispondere che no, non giudicava l’aspetto fisico. Però con lui l’aveva fatto subito, aveva provato fastidio per l’aspetto ordinario e flaccido del suo corpo e per il modo di vestire, si era infastidita per la stretta di mano e aveva giudicato malissimo gli occhiali spessi e le ditate sul telefono. Non erano tutte caratteristiche fisiche ma facevano parte dell’esteriorità.
-Non credo. Forse lo faccio nei primi istanti, vedo lo sguardo e le mani e il portamento.
- Secondo me fa come facciamo tutti, cioè si lascia attrarre dalla bellezza fisica e dal fascino, oppure prova repulsione se qualcosa nel corpo dell’altro non le va a genio.
Chi sei? Cosa vuoi, Enrico Bentani? Come ti permetti di decidere per me?
Era vero. Lo sapeva. Ma che senso avrebbe avuto ammetterlo?
- Può darsi.
- Lo fa. Lo faccio anche io, che ho preferito chiedere a lei se questo posto fosse libero piuttosto che sedermi nell’altro salottino dove h visto un uomo anziano e una donna pochissimo più giovane di lui, probabilmente molto perbene ma per niente stimolanti. Forse ho perso l’occasione della mia vita, se quei due sono filosofi affascinanti oppure magnati in cerca di un erede o, ancora, editori in cerca di un nuovo talento letterario da scoprire. In realtà ho preferito lei perché l’ho vista e riconosciuta, e anche se non l’avessi riconosciuta certo non mi sarebbero sfuggite le gambe accavallate con quei jeans aderenti e il seno che si vede benissimo visto che non ha chiuso la camicetta.
- Ma cosa.
- Non si arrabbi, stavo semplicemente ammettendo che anche io valuto in un istante chi scegliere e perché, e di solito la scelta si basa sull’esteriorità.
- Vuole scoparmi?
La domanda le era sfuggita. Per rabbia, per trovare qualcosa cui aggrapparsi per umiliarlo. Per dimostrargli che quella sbrodolatura di parole non serviva a niente. Lo vide ridere.
- Accidenti, si sta scaldando! No, non era questo lo scopo, perdoni il gioco di parole. Non ho lo scopo di scoparla, ma se a lei è venuto in mente non mi tiro indietro.
Sorrise.
- Lasci perdere. Ritorniamo al discorso un po’ più serio. Forse ha ragione, giudichiamo l’aspetto fisico, ma quanto può reggere?
-Intende dire quanto tempo possiamo stare accanto a una persona che ci piace esteriormente?
- Sì, supponga di incontrare una donna – non me – che le piaccia fisicamente, e di essere ricambiato. Se poi in quella donna non vede niente di interessante, se lei non la sa stimolare anche con la testa e non solo con il corpo, che fine fate entrambi?
- Non mi pongo il problema, sinceramente. Se incontro una donna che mi piace e lei ricambia, intanto vivo momenti molto intensi. Quando la passione cala passo ad altro. E lei anche.
- E’ una risposta sciocca.
- Ma vera.
- Molto maschile.
- Lo crede sul serio?
- Sì.
- Significa che secondo lei le donne non hanno lo stesso meccanismo di seduzione?
- Le donne non sono così brutalmente materiali.
- Le è mai capitata la scopata di una notte?
Sì.
- No.
- Bugiarda.
- Perché?
- Perché i suoi occhi si sono allontanati mentre rispondeva, e perché a tutte le donne o quasi è successo di andare a letto con un uomo incontrato per caso, senza poi rivederlo.
- Quando l’uomo è deludente può succedere di non rivederlo.
- Bella battuta, che non fa altro che corroborare la mia ipotesi. Anche lei, come la maggioranza delle donne, ragiona come gli uomini ma non ama ammetterlo. Vede un uomo che le piace e lo desidera. Se il corpo di quell’uomo, il portamento, gli occhi, le mani la attraggono metà del lavoro per lui è fatto.
- Che squallore.
-E’ la verità.
- Forse parliamo di due cose diverse, o siamo arrivati ad argomenti diversi partendo da un inizio comune. Lei sta parlando di sesso, io alludevo a…
Non seppe continuare.
Cosa stavo dicendo? Accidenti, da dove sono partita e perché sono arrivata qui? Non so chi sia e sta parlando di sesso con me.
Lo vide ridere.
- Lei alludeva al mantello dorato che voi donne mettete alla sana voglia di accoppiamento, scritta nel DNA dall’inizio della vita.
- Sempre più squallido.
- Sempre più vero.
- Ma non si è mai innamorato?
- Cosa c’entra? Certo che mi sono innamorato! Ho avuto tre mogli.
- E si è innamorato del corpo o di altro?
- Del corpo e di tutto il resto. Ma questo non ha relazione con ciò che dicevamo. L’inizio, la seduzione vera, quella che è presupposto di tutto e può essere contemporaneamente inizio e fine di un rapporto, è basata su una chimica perfetta che rende uomo e donna reciprocamente desiderabili. L’esteriorità, attenzione non sto parlando di bellezza ma di esteriorità che è molto diversa e assai complessa, ha un ruolo fondamentale.
- Ora non mi elenchi le solite storie sul fascino che non è bellezza ma è un insieme di gesti e parole e silenzi, e ammiccamenti. Sembriamo due bambini che giocano a fare gli adulti e dicono cose tanto scontate da apparire patetiche.
- Aggredisce sempre quando si sente stretta a un angolo?
- Non mi sento stretta a un angolo.
- Bene, allora risponda con sincerità alla domanda di prima. Ha mai avuto un’avventura con un uomo per una notte sola? O un pomeriggio, o un’ora, o cinque minuti.
- Una sveltina?
- Mi piace quando non si nasconde. Sì, parliamo di sveltina se le piace.
- Sì.
- Ah, finalmente. Quando?
Adesso esageri. Va bene farmi ammettere che qualche volta ho avuto uomini per una scopata di passaggio, ma raccontarti quando e come e dove e perché…
- Lasci stare.
- Non sono affari miei?
- Esatto.
- Peccato. Sembra una donna dalla sveltina intrigante.
- Senta.
- Va bene, lasciamo perdere. Anche qui vedo che non riesce a sciogliersi.
- Come può pensare che mi sciolga su un treno, con un uomo che – mi scusi – appena è salito ha iniziato a tempestarmi di domande indiscrete e mi ha detto nome e cognome che potrebbero essere inventati?
- La diverte, vero?
- Cosa?
- Non sapere chi sono.
Non mi diverte affatto. Sei brutto, flaccido e secondo me ti lavi poco. Stronzo. Pensi che sia la modella facile da scopare appena arrivati a Roma, ma sbagli. Ho i miei casini e voglio solo smettere di ascoltarti e leggere il mio libro.
- Perché vede, signora Cavicchini, se davvero volesse farmi tacere l’avrebbe già chiesto e ottenuto da un sacco di tempo. Invece risponde alle domande e finge di offendersi, ma intanto si chiede chi io sia e perché insista nel tormentarla.
- Non le ho chiesto di tacere perché non è il mio carattere.
-Certo che lo è. Ha un libro accanto, non l’ha aperto. Forse è molto brutto e sarebbe solo un ripiego, ma potrebbe anche toglierla dall’imbarazzo.
- Qui sbaglia. Non sono imbarazzata.
Le puntò addosso uno sguardo silenzioso. Per la prima volta notò che gli occhi erano verdi dietro le lenti spesse, le pupille piccole e nerissime circondate da un vago fluttuare di acqua di mare. La mano sinistra aveva abbandonato il cellulare sul sedile accanto, vuoto. La camicia azzurra, lo vedeva solo adesso, era aperta sul petto abbronzato. Il respiro alzava e abbassava il torace lentamente.
- Non mi imbarazza parlare di sesso.
Sentì di arrossire. Gli occhi di lui non la lasciavano stare, improvvisamente sentì che l’aria era calda e soffocante.
Il treno frenò all’improvviso, il libro cadde e lui si chinò. Prima di restituirlo lo guardò.
- Interessante. L’ha già letto?
- No, sono stata alla presentazione ieri e l’ho comprato.
-Legge molto?
- Abbastanza.
-Lo immaginavo.
Appoggiò la schiena al sedile e sentì i muscoli rilassarsi. Le stava offrendo uno spiraglio, una via d’uscita.
- Lo immaginava dal mio viso nella pubblicità del telefono?
- No. E’ il suo italiano. Lo usa bene.
-Ha in mente il cliché della modella ignorante e incolta?
- No.
- Meno male. Anche perché non sono propriamente una modella. Ho trentacinque anni, ho posato solo per quella pubblicità.
- Strano. Non esiste una gavetta anche nella sua professione?
Si irrigidì di nuovo.
- So cosa sta pensando. Che sono arrivata a quella pubblicità perché sono stata a letto con qualcuno che conta. In realtà non è così. Quella non è la mia professione, è vero, però qualcuno mi ha notata e mi ha proposto di tentare. Ho accettato.
- Divertente.
- Cosa? A me sembra banale.
- Divertente che voglia che io pensi di lei che non è come sembra. Ma io non penso affatto che lei sia una donna vuota e un po’ incolta, le cui relazioni si basano solo sull’esteriorità.
- Oh no, di nuovo?
Le si avvicinò sporgendosi in avanti, senza toccarla.
- Mi chiamo Enrico Bentani, non immaginavo di trovarla su questo treno e sono felice dell’incontro. Non ragiono per stereotipi cretini e mi sono divertito molto in questo viaggio. Lei è una donna bella. Fuori e dentro, ne sono sicuro.
Ancora gli occhi, vicinissimi a lei. E un alito caldo senza odore, come una carezza.
- Non saprò mai quale sia stata la sua ultima avventura con un uomo che non ha più rivisto, o l’avventura più intrigante. E’ un peccato. La mia avventura più recente è stata poco prima di partire, con una donna bruttina che mi è piaciuta per il sedere grosso e lo sguardo intelligentissimo. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere e mi ha conquistato con mille, diecimila argomenti mescolati insieme. Poi è venuta con me nell’ascensore del parcheggio dove entrambi abbiamo lasciato la macchina, si è chinata, mi ha aperto i pantaloni e ci ha infilato il viso.
Li vide. In un ascensore buio e fermo, la mano di lui sul pulsante di stop. E gli occhi chiusi al momento dell’orgasmo, nella gola aperta di lei.
- Come si chiamava?
Gli occhi, ora aperti in un sorriso maligno.
- Non lo so.
Tentò di fermarsi. La mente voleva chiedere se fosse stato solo quello, se lei avesse voluto le sue mani addosso o se ne fosse andata con il sapore che la penetrava e l’eccitazione ancora a metà. Chiuse le palpebre per qualche secondo, imponendo al cuore di rallentare.
- Sapresti fare meglio, Mara, sono sicuro.
Sibilava. L’odore del suo sudore le riempiva la testa. Faceva caldo. Fissò le cifre sulla camicia, che stonavano e non c’entravano con i quadretti bianchi e azzurri. LV. Ebbe la forza di capire che non si chiamava Enrico Bentani, ma l’informazione non le servì. Vide la propria mano andare avanti, senza il controllo della razionalità. Sentì il contatto con i pantaloni colore della sabbia, li sentì tesi e duri. Con le dita strinse, come a prendere il suo sesso in mano.
- Mmmm
Il suo gemito le strizzò il fiato, con l’indice raggiunse la cerniera e la fece scivolare giù. Infilò le dita, il cotone degli slip era bagnato. Mosse le dita e la vista si offuscò quando lo sentì.
Poi un colpo secco sulla spalla, e il corpo che sbatteva sullo schienale.
La mano uscì dai pantaloni e ricadde sul suo ginocchio.
Enrico si alzò e chiuse la cerniera, sorridendo.
- Stiamo arrivando a Roma, ha visto? Abbiamo passato Trastevere. E’ ora di scendere.
E prima che lei potesse aprire bocca per dire qualcosa, qualsiasi cosa, aprì la porta dello scompartimento e se ne andò.
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