racconti, fiabe, romanzi a puntate, pensieri e pezzi di parole
(i testi pubblicati in questo blog e le fotografie sono di esclusiva proprietà dell'Autrice)
AAVV: RAC-CORTI - Il chiama angeli Il mio racconto "Il chiama angeli" nell'antologia RAC-CORTI di Giulio Perrone Editore 2008
AAVV: EROS & AMORE - La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila Il mio racconto "La penombra di un ufficio e un ascensore che sibila" nella sezione EROS di "Eros & Amore" di ArpaNet, 2008
"I racconti delle bacche rosse": Lampi di Stampa Editore, I Platani Narrativa, 2008 Il secondo libro di fiabe
AAVV: CONCEPTS PROFUMO - La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane Il mio racconto "La piccola casa di legno, e quel profumo. Fragranza e mistero di notti romane" nella raccolta "CONCEPTS Profumo", Edizioni Arpanet 2007.
"Una storia ai delfini": Edizioni Creativa, 2007 il mio primo romanzo
AAVV: CONCEPTS MODA - La donna vestita di fiori Il mio racconto "La donna vestita di fiori" nella raccolta "CONCEPTS MODA", Edizioni ARPANet 2007
Luciano Comida Ho la fortuna di amare e di essere amato: faccio lo scrittore, il giornalista, l'impiegato statale, leggo, ascolto rock e jazz e classica, guardo cinema e teatro, tifo Toro, sono valdese.
Michele Crismani Ho tredici anni, non mi piace tanto la scuola (anzi proprio per niente). Invece mi piacciono le ragazze, il calcio, il rock (sia ascoltarlo che suonarlo), i film, mangiare patatine fritte di sacchetto, bere coca-cola e tirare dei rutti che scandalizzano mio papà e mia mamma.
Calogero Miceli poeta, presepista, scrittore e sceneggiatore emergente. Prova a fare anche lo studente in scienze della comunicazione. Vivo ogni giorno intensamente perchè considero la vita un grande dono e perchè in essa ho ricevuto il dono della poesia.
Cantastorie errante ...ogni cosa è intorno al nostro essere, sta a noi saperla vedere ed appropriarsene per donarla agli altri
Nel vuoto di un treno che corre,
con un compagno di viaggio che non mi piace (non so perché, è ingiusto dirlo:
non russa, non strepita, non sta ore al telefono, eppure non mi piace), lascio
andare le mani sulla tastiera confidando nel silenzio, e l’incipit diventa
“cosa ti aspetti da me?”.
Potrebbe non esserci un seguito.
Potrei lasciare sospesa la domanda e non entrare nel merito, non attribuirla a
un mio moto spontaneo o all’esigenza di un altro, chissà chi, nei miei
confronti. Sono io a aspettarmi qualcosa da qualcuno? Sono altri a farlo con
me? Nel viaggio scialbo verso Milano non trovo la grinta per riflettere, non ho
voglia di ascoltare musica o leggere, ma anche scrivere è difficile. Come se il
silenzio necessario per scrivere non sia gravido di parole, questa volta. Una
sensazione simile a altre, che forse posso ricordare a voce alta.
Capita che osservi
l’allontanamento di amici, e capita che ne soffra: non è piacevole constatare
che alcune persone siano ondivaghe abbastanza da infiammarsi di affetto (o
amore), poi declinare in una sempre più tiepida pazienza fino a trovare altri
fuochi, altri incendi destinati a subire la stessa sorte. Non è piacevole, ma
succede con una frequenza piuttosto alta. Uomini o donne, è uguale: ha ragione
la mia analista quando dice che dovremmo stabilire il destino di una relazione
affettiva osservando il curriculum di chi abbiamo di fronte. Per evitare il
solito, banale can can di allusioni a uomini del mistero avvolti da una nuvola
di fumo, parliamo di donne. Di amiche. Quando un’amica ti si avviluppa addosso,
con molta reciproca soddisfazione, e racconta che la sua amicizia con te ha
provocato il dolore di altre donne, altre amiche che si sentono lasciate al
margine, invece di essere felice dovresti porti alcune domande. Se è incapace
di tenere in piedi più amicizie senza ferirle reciprocamente, cosa farà con me?
Dovrebbe esistere una paratia che si alza automaticamente, ti fa vivere la
relazione con profonda condivisione ma anche un allarme rosso acceso in un
angolo della testa: “attenzione, persona incostante”. Ho avuto la fortuna di
accendere i neuroni su questa consapevolezza qualche tempo fa, prefigurando ciò
che effettivamente poi accadde. Con la gioia nel cuore, posso dire di essermi
salvata: ho assistito rilassata e neanche troppo delusa all’adolescenziale
deriva di un’amica mai cresciuta sul serio. E’ solo un esempio, forse non
utile. Chissà. Perché l’ho detto? Ah, ecco, sono partita dal silenzio non
gravido di parole. Evidentemente non era così: lo era, era gravido e ha avuto
bisogno di una valle di sconforto scriptorio per partorire. Ho paragonato il
silenzio vuoto a ciò che provo in questi giorni nei confronti di dolori ormai
passati, che ogni tanto vogliono rialzare la testa ma si scoprono fuori tempo e
luogo, quasi noiosi. Ci sono volti che, richiamati alla memoria grazie a
automatismi più longevi del sentimento, in teoria dovrebbero muovermi emozioni,
in pratica non riescono a stimolare altro che uno sbadiglio. Che tristezza.
Uno scambio delle ultime ore su
Facebook mi ha mosso pensieri desolanti e desolati sulle banalità che si dicono
a proposito di amore. Mi considero la prima, sono io a stimolare la più infima
banalità: ritorno a casa nel cuore di Roma in piena notte, dopo una sera meravigliosa,
e filosofeggio sul social network senza considerare le reazioni. Dovrei trovare
gli aggeggi elettronici scarichi, quando mi vengono in mente le frasi che
scatenano forum da cioccolatino. Comunque. In uno dei lampi di genio, ho detto
che spesso l’amore patologico (eccessivo) per una sola persona oscura,
cancella, rovina la presa di coscienza di tanti altri amori, magari meno
dirompenti ma drammaticamente importanti. Ho capito però che ogni volta che si
sfiora l’argomento “amore” e si critica in qualche modo l’entità del sentimento
o si stigmatizzano le sue conseguenze, il coro di chi protesta si leva
immediato. L’amore, questo bene assoluto, questa purezza intoccabile,
indicibile, non criticabile! L’amore, che muove la penna ai poeti e agli
scrittori! Macché, togliamo di mezzo queste banalità che io stessa ho
colpevolmente contribuito a alimentare. Non adottiamo assiomi quando si parla
di amore, per pietà. Che l’amore sia meraviglioso in alcune sue fasi, è vero.
Che la sua assenza regali la sensazione di una parte mancante è altrettanto
vero. Ma no, non è vero che tutto ciò che deriva dall’amore sia buono. La distinzione tra amore e
“altro” esiste, ma non ci serve. Possiamo dire che non sia amore ciò che è
patologico: ce la caviamo ipotizzando che sia vero amore solo ciò che è
positivo in ogni propria manifestazione, ma se lo facciamo dobbiamo ammettere
di non tenere conto della realtà. La verità concreta del quotidiano. Siamo
ormai abituati a confondere con l’amore troppi altri sentimenti, e qualche emozione
passeggera: quando la confusione è tanto radicata nel pensiero comune,
puntualizzare aiuta pochi. O nessuno. L’amore, ciò che la media della gente
intende per amore, può fare male: rovinare famiglie, uccidere la fiducia,
diminuire il talento di un artista. Amore, quanto idealismo raccapricciante, in
fondo. Leggete, se avete voglia di volare, “Amore R” di Tiziano Scarpa, Einaudi: è
la migliore e più originale, realistica rappresentazione dell’amore. A me è successo di leggerlo in un periodo della vita drammatico e destinato a cambiarmi: ho trovato il senso vero, quello che pochi hanno il coraggio di guardare e, ancora meno, di raccontare.
E arriviamo alla scrittura,
eccoci lì. La scrittura non ha l’amore come energia di fondo, o meglio: ha
l’amore per la scrittura come parziale energia, ma non altro. Non si scrive per
amore, non si scrive per dolore. Si scrive perché si è scrittura oppure no. Qualcuno dirà che mi smentisco, in
passato ho detto cose diverse. Vero, ma il tempo, lo studio, l’incontro di
persone che della scrittura sanno veramente mi ha svelato aspetti di me (della
scrittura) meno piacevoli da discutere, ma indubbiamente veri. Ho capito che
molte persone non dovrebbero essere pubblicate, perché si può conoscere
sintassi e grammatica e mettere giù una storia gradevole senza essere
scrittori, ho capito che la scrittura, quella vera, è a sé, non ha relazione
con lo stato d’animo e il frangente di vita, non si siede a aspettare quando
arrivano le feste di Natale e si devono avere altre priorità (regali amici casa
albero addobbati pacchetti: sappiate che casa mia è identica a come potete
trovarla in agosto, niente fronzoli che fanno perdere tempo), non dipende
dall’amore o dal dolore. Parlo di narrativa, perché la poesia è altro, tanto
altro da non entrare in questa digressione da freccia rossa fast in ritardo di
venti minuti (il concetto di fast è relativo, come ogni altro concetto). Dovremmo
chiedere a Maeba Sciutti, una delle più grandi, che è poesia vera. Lei potrebbe
dirci se, in termini poetici, sto delirando.
“Ma la scrittura aiuta nei
traumi, nel dolore, nella ripresa dopo una malattia”. Certo, verissimo. La
scrittura è tanto assoluta, piena, enorme e stupenda da salvare psiche e vite. Non
mi stancherò di favorire, esaltare, incitare scritture reattive di persone che
si trovano in frangenti difficili (o drammatici): se la creatività può aiutare,
se può lenire, anestetizzare, esprimere, sfogare un grande dolore mi ha al
proprio fianco per raggiungere ogni angolo del pianeta e muovere i
traumatizzati a una resurrezione. Tuttavia, nel grande mare di scrittori “per
reazione” continuerò a operare distinzioni, cercando la perla, l’elemento raro,
il talento assoluto, dando per scontato che non tutto sia davvero di valore.
Valore scriptorio, non altro valore. La buona notizia però è che, come ogni
altro essere, anche la scrittura può cambiare, evolvere e migliorare. Può
nascere da un abbozzo informe e farsi opera d’arte. Grazie all’esercizio
costante (sì, anche durante le feste natalizie, lasciando al margine i
pacchetti da confezionare), alla lettura di altri autori e alla critica, al
confronto. E all’apertura della mente. Giorni fa, ero da qualche parte a una
certa presentazione. Tra le varie baggianate ho sentito che “la scrittura deve
comunicare valori, positività, relazioni solo e sempre basate sull’importanza
insostituibile della famiglia, degli affetti veri”, eccetera. No, cara collega
alla prima opera: la scrittura è scrittura, non comunica necessariamente e non
è etica. E’ come un quadro: bello in sé oppure no. Poi. Se esistono scrittori
che sentono il dovere morale di comunicare valori alti (quello della famiglia
fa tanto grotta di Betlemme: vero, indiscutibile, ma serve proprio ribadirlo
ogni istante nella speranza che diventi assoluto?), meglio così. Che la
scrittura incida davvero sul livello culturale di un popolo, che muova le
coscienze, che insinui il germe del confronto pacifico e della non violenza!
Magari fosse. Sogno che si smetta di vedere il sangue, fingersi inorriditi e,
nello stesso momento, suscitare violenza fingendo di essere inconsapevoli del
proprio ruolo nella società. Sogno che l’esempio, l’unica cosa che conta al di
là delle parole, faccia scattare un’emulazione finalmente intelligente,
finalmente vuota di gesti e pensieri di brutale e ignorantissima violenza.
Violenza. Non è solo una
statuetta lanciata in faccia a un uomo, qualsiasi uomo, o a un’istituzione (ci
si pensa, a questo? Qualunque sia il voto che dai alle elezioni, mio lettore,
hai pensato al fatto che in piazza Duomo si è ferita un’istituzione, piaccia o
meno? Sai che a me fa impressione che un’istituzione, anche quando non è vicina
alle mie idee – e non sai se lo sia o meno, mi rifiuto di dire quali siano, le
mie idee politiche, non è rilevante – andrebbe rispettata nell’interesse di
tutti, e della pace sociale?). E’ anche il pettegolezzo storto, è la lite per
il primo o secondo posto a un premio piazzata sui giornali e non sapientemente
sdrammatizzata da chi potrebbe farlo, è la frase idiota detta a una donna (o un
uomo) per interrompere una relazione, è il piccolo dispetto di cui, siamo
certi, nessuno si accorgerà, che si gonfia invece a dismisura e va a finire in
un lago di orrore. Violenza, tutto lì. Che banalità.
Giorni fa ho avuto uno scambio
bellissimo di posta con un amico. Non violenza, ecco l’argomento. Grazie, a
quell’amico. Con il suo fare schivo e timido, affermazioni perentorie e severe
e un sorriso da sciogliermi riesce a scolpire ricordi perfetti. Mi ha ricordato
chi sono meglio di quanto abbiano fatto decine di altri, negli ultimi anni. Non
violenza, o almeno ci provo. Non taccio più, non misuro e nemmeno peso le frasi
con una ritrosia che finora ha solo danneggiato la stima di me, esco libera e a
volte troppo sciolta ma rifiuto la violenza, in ogni caso. Che mi si lasci
dire, come lascio dire agli altri, ma non si prendano le parole come pretesti
per cadere in un modo di vivere che non mi appartiene. Libertà di espressione,
niente censura e non violenza. Ecco ciò che sono o tento di essere. Con molti
errori, certo.
Cosa ti aspetti da me?
Uffa, non ho affrontato
l’argomento. Ho buttato lì la
domanda e l’ho lasciata a metà. Abbiate pazienza: sono su un treno, la testa è
vuota. Qualcosa accadrà.
C'è la volta in cui ti siedi e hai tutto in testa. Tutto, insomma, più o meno: hai l'idea della scrittura, un abbozzo di impressione o trama, un'intuizione piovuta chissà da dove che non si cancella, non va più via. Oppure è capitato che la storia ti sia venuta in mente e le mani stuzzichino il bisogno, si muovano da sole nell'attesa di tirare fuori le parole. Poi. C'è la volta in cui hai il vuoto in testa, e mai penseresti di scrivere. Ti succede solo all'inizio, però, di percepire il vuoto e pensare che non scriverai, perché quando diventi un po' furbo, e l'esperienza si accumula sulle spalle e nei pensieri, capisci che il silenzio è denso di parole. E ti siedi, anche in quel caso, consapevole che qualcosa verrà fuori.
Come adesso. Ho ricevuto un messaggio di posta elettronica che chiedeva una correzione per un pdf, un articolo da rivedere con la solita, notissima urgenza.Quando lo schermo è diventato bianco e l'articolo in pdf è ripartito per destinazione diversa, la calma ha tirato fuori la voglia di scrivere. Ho trascorso ore, oggi, su un capitolo del romanzo che da ieri è lì che si cucina: lungo, breve, intenso o scipito, non ne vengo a capo. E questa sera, molle della decisione di non intestardirmi per evitare di sciupare tutto (che brivido chi rivede un manoscritto in pochi giorni), ero tentata dalla lettura di tre o quattro libri portati a casa da Equilibri di via Farneti, la libreria di Milano dove mi sento a casa. Invece. Sono qui e scrivo, mi fotografo, dipingo, ritraggo, specchiata nello schermo grande del computer con riflessioni e ricordi recenti che non voglio condividere. Forse.
Non mi aspettavo una giornata così. Non immaginavo la gioia, le telefonate e l'amore. Non aspettavo la nostalgia e la rabbia, credevo avrei solo mangiato chilometri tra Milano e Pisa e ritorno, visitato persone e rimuginato un po' al tempo della musica mp3 attaccata al cavo nero che entra nel cruscotto. Invece il viaggio è stato un volo lieve, il rumore dell'autostrada che strinava le ruote si è diluito in decine di messaggi e chiamate e novità. Novità. Da poco, per chi si desse la pena di ascoltare. Da molto, per me che non ho l'intenzione di condividere. Non questo, non ora.
Poi. Questa sera, arrivata a Milano, ho fotografato il Duomo. Ho escluso l'albero di Natale dalla fotografia perché era eccessivo, troppa luce troppa gioia troppo tutto. E fotografato il Duomo. Chissà perché, di tanti ricordi remoti e recenti uno solo ritorna cattivo e tagliente: quello di una sera, al termine di un incontro d'amore, una passeggiata da sola con la nostalgia di lui. Fa male il ricordo quando tutto finisce, fa male soprattutto sapere come sia finita. Perché non credo che sia indifferente, il modo in cui una storia finisce. Eppure, nella mia sera di passi e squilli continui del telefono piatto intasato di sms, il male non c'era, non per lui. Non per l'uomo del ricordo di piazza Duomo. Difficile da spiegare, e non spiegherò. Dovrei dire che poi, ore dopo, ho letto un articolo in cui qualcuno racconta di sè: quel sè che conosco e ho amato, anche quello, un sè fuggito perché "sono un pensiero troppo forte".
Un pensiero troppo forte. Una donna impegnativa. Ormai lo dico da sola, davanti allo specchio: non sono come il colore nero, che è elegante e non impegna, mi sento un rosso vivo che offende, eccita, tortura, ripugna. Il rosso della passione e dell'eccesso, del sesso che butta fuori le lenzuola dal letto, dell'odore di corpo e profumo e sudore, della passione che sradica e non trova requie e della gelosia tremenda, del gesto urlato per strappare lacerazioni gementi e degli abbandoni brutali, che offendono il pensiero di essere stati vivi. Rosso, il rossetto che porto in borsa e tiro fuori solo nel tardo pomeriggio. Rosso, il colore che secondo l'uomo per cui sono diventata un pensiero troppo forte mi dona. Rosso, il furore accecante del 2009 che ha cambiato tutto. Tutto nella mia testa, e nel teatro rutilante della vita. Rosso, è il lampo che vedo quando mi guardi da lontano, e sorridi trattenuto perché non ti aspettavi che ci fossi. Rosso, la voglia di sentire l'odore della tua pelle quando mi avvicino per il solito bacio cortese, urbano, amichevole. Rosso, il desiderio feroce quando ti vedo timido e muto, serio e severo. E sussurro: "Frena l'entusiasmo".
Rosso. Come l'sms arrivato adesso, strappandomi una risata. Perché l'uomo per cui sono un pensiero troppo forte ha vibrisse da primo amore, sente il mio desiderio deviare e, da lontano, recupera metri nel ricordo, rosso, delle notti prima delle streghe. La strega delle mie notti, finché non sono stata troppo "forte".
Rido. Ho scritto dal vuoto in testa, dal silenzio dopo un pdf corretto e rispedito. Andrò a toccare i libri, adesso. E, con la penna in mano, scriverò appunti che un giorno diventeranno qualcosa.
Rosso, per una notte con l'unica quiete che conosco.
Manda brevi messaggi email e pezzi di musica. Nell'ultimo messaggio, musica di Scarlatti. Ascolto molte volte, spesso è notte quando approfitto del silenzio per perdermi e immaginare. E' bello sapere che esista da qualche parte, lontano oppure vicinissimo, un uomo (il cui volto ho intuito da una fotografia) che suona per me. E spedisce, poi, i pezzi perché li possa ascoltare. Il nascisismo che non mi manca è gratificato, ma non si tratta solo di questo: queste mani misteriose che suonano e mandano messaggi ricostruiscono l'idea, l'impressione, come in un soffio impertinente, di delicatezza e pensiero. Delicatezza, pensiero. E' un'impressione che più volte è mancata, in questi anni recenti di rivoluzione e cambiamento: ho conosciuto uomini capaci di grandi crudeltà e piccineria impagabile, ma ne ho incontrati alcuni densi di tenerezza, e stupore per la bellezza di uno sguardo. Uomini che, a tratti, hanno saputo spiegarmi l'amore. Dico l'ennesimo grazie, in queste righe pubblicate dopo una giornata di viaggio e mare grigio e freddo, a chi mi spedisce la musica: non sono costante nelle risposte, probabilmente deludo le tue aspettative, ma la tua arte è compagnia frequente dei miei silenzi.
Strano come la posta che ricevo si assomigli nel contenuto in base a ciò che pubblico nel blog. O forse non è strano: la lettura provoca reazioni, che sono echi di ciò che nel blog compare e suscita riflessione. O critica. O emozioni. Insomma, alcune donne mi hanno parlato di amore nelle lettere notturne (tutte scritte di notte!) che hanno riempito il mio indirizzo email. Queste lettere, molto belle, hanno raccontato vite a frammenti e posto domande; si sono accavallate alle domande che ho ricevuto venerdì sera a Senigallia, alla presentazione di "Diario di melassa". A Senigallia, CG, una donna che considero amica e sento spesso in Facebook, ha chiesto se creda ancora nell'amore. Se dia fiducia all'amore. Il senso della domanda era questo: nei libri racconto amori mancati, interrotti, tragici, spesso traditi; come posso fidarmi ancora quando amo qualcuno, se la mia visione dell'amore è questa? Più o meno, è ciò che colgo anche nelle lettere recenti delle lettrici: ci si fida ancora dell'amore quando gli eventi hanno portato molto dolore? Confesso che la mia risposta è meno lineare rispetto al passato. L'istinto, fino a qualche tempo fa, mi avrebbe imposto di dire un "sì" convinto, spregiudicato, incosciente, un sì destinato a gettarmi nell'azzardo e nel pericolo con il sorriso sulle labbra. Ma. I tempi sono diversi, e qualcosa dentro è cambiato. Provo a raccontare che cosa.
Perdonate la digressione di vita vissuta, mi serve per calare nel reale parole che potranno sembrare filosofia da niente. In un momento della mia vita, ho amato molto qualcuno. L'ho amato tanto da accettare la consapevolezza che, prima o poi, l'amore sarebbe finito; e ho fatto ancora di più, non l'ho solo amato: mi sono fidata. Ho creduto che, anche nella peggiore delle situazioni, quell'uomo avrebbe rispettato un patto di lealtà da lui stesso proposto nei momenti migliori, e mi avrebbe parlato con tatto e delicatezza di un'eventuale rottura tra noi. In realtà, avevo dimenticato questi dettagli, avevo perfino rimosso la faccia di lui, mi sono ritornati in mente l'altra sera mentre lavoravo alla seconda stesura di un romanzo che al momento riempie le mie ore. Quell'uomo, a un certo punto della nostra storia, incontrò un'altra donna e con lei iniziò una relazione; lo capii dai soliti, squallidi segnali (resterà mirabile un telefono cellulare lanciato di fretta, nel bagno, a un mio incauto presentarmi sulla soglia: chi di voi ha vissuto una cosa del genere può capirmi) e provai a chiedere, ma mi sentii rispondere con una serie di banalità che solo una mente ottenebrata dall'amore avrebbe potuto accettare. La mia mente, ahime. L'ultima volta che lo vidi, preparò ogni cosa alla perfezione: trascorse la notte con me, si fermò a casa mia anche la mattina, poi mi portò a pranzo e aggiunse una passeggiata al mare. Per poi sparire senza spiegazioni e liquidarmi, dopo circa un mese, con l'epica frase (rigorosamente telefonica): "Sei stata una piccola parentesi".
Sei stata una piccola parentesi.
Bene, fine del siparietto autobiografico. Sarebbe inutile, autolesionistico e fuori dal tempo presente soffermarci sul dolore devastante che quelle parole hanno provocato, senza una vera ragione per il suo pronunciarle. Fermiamoci alla frase, vero nucleo di tutto. A Senigallia, venerdì sera, ho tentato di analizzare le motivazioni per cui un uomo, finito l'amore (o l'affetto, o la simpatia, mettetela come vi pare), debba lasciare andare dalle labbra una frase del genere. Gratuita, non necessaria, fonte di dolore tremendo per chi la riceve, definitiva nell'azzerare la stima. Sincerità? No, è una risposta sciocca. Che sia stato sincero o meno, credo che nessuno abbia voglia di farsi ricordare come quell'uomo inevitabilmente è ricordato da me: un povero cretino. Disprezzo? E perché? Perché disprezzare chi ti ha amato, chi tu stesso hai amato? Scarsa educazione? Sì, questo sì, perché una cosa che ho dovuto per forza constatare è che, nonostante un'immagine sociale particolarmente "ricca", quell'uomo non abbia mai dato prova di particolare eleganza. Insomma, che l'amore finisca capita continuamente, ma che si ferisca qualcuno con poche parole buttate fuori così non dovrebbe essere previsto dal manuale del perfetto ex-amante.
Ritorniamo alla fiducia nell'amore, alla voglia di investire in una nuova storia dopo relazioni abbozzate, cadute, sfracellate per varie e più o meno evidenti ragioni. Rispondo a CG e alle lettrici: sì, credo valga la pena comunque di investire e buttarsi, credo che l'amore contenga il mistero della rinascita e della felicità, fuso insieme al dramma e all'imprevedibilità più assoluta. In fondo, dopo il povero cretino ho incontrato un uomo meraviglioso, una specie di miracolo, che ha saputo restituirmi dolcezza e passione senza la necessità di provocare inutile dolore. Però. Se dalla ferita della perdita di qualcuno che amiamo possiamo senza dubbio guarire, la ferita della delusione non rimargina mai completamente. Incredibile a dirsi, non ho ritenuto di dovere perdonare il nuovo amore del povero cretino (aveva il diritto di innamorarsi, come avrà il diritto di disamorarsi dieci, cento, mille volte), ma non potrò fare a meno di ricordarlo come qualcuno che non ha avuto coraggio, e che volontariamente ha provocato un dolore non necessario. Qui, proprio in questo insignificante dettaglio, la fiducia vacilla. E non sono pronta, brillante e schietta come una volta nel rispondere ale domande di CG e di altre lettrici.
Una di loro, una di queste lettrici, pone una domanda in particolare. "L'uomo che mi interessa è sposato, e ha avuto altre amanti in passato. Come posso essere sicura che non tradirà anche me? Dice di non essersi mai trovato tanto bene con una donna, ma devo credergli?". Cara FM, mi chiedo ogni giorno il motivo per cui queste domande vengano poste a me (i miei libri non sono l'esempio limpido dell'esperienza positiva in amore), tuttavia so di avere ragione quando dico che l'uomo che ti interessa tradirà te e qualsiasi altra donna avrà in futuro, e no, non dovresti credergli. E' uno schema: lo ripeti tu e lo ripete lui, come in un copione. Esistono uomini che tengono aperte molte porte e non sanno chiuderle, ne esistono altri che vivono con il bisogno di moglie e amante, e ce ne sono alcuni che, dopo anni di totale infedeltà, provano la strada della relazione serissima: questi ultimi si infilano il paraocchi, tirano dritto finché capita qualcosa che li fa cadere. E dopo la caduta non trovano più la strada. Comunque. Non fidarti del'uomo che ti interessa, ma decidi per te. Sii libera, prendi la vita nelle mani e vai avanti. Chi ha detto che non si debba amare un uomo che, prima o poi, tradisce? Stai attenta però a non farti troppo male, metti te stessa prima di lui. Sempre.
Oh, che impressione. La posta del cuore sta diventando davvero "l'angolo Liala": chissà come sono contenti i miei colleghi che parlano invece di massimi sistemi! Ma cosa volete farci, ho questa fissazione di rispondere a tutti,lo faccio in privato e, qualche volta, anche nel blog. Soprattutto, me ne frego altamente di ciò che pensano i nasini ritorti in su.
Un gentile lettore insiste nel mandarmi email pornografiche con descrizioni dettagliatissime dei nostri improbabili, futuri rapporti sessuali. Grazie anche a Lei, è tenace e fedele in questo autoerotismo comunicativo, ammetto che nell'ultima lettera le fantasie erano meno banali e un tantino migliori delle precedenti, però non riesco proprio a vedere un futuro per me e Lei insieme. E non lo vede neanche Lei, sono certa. Sarà per un'altra vita.
Moltissime lettere riguardano "Diario di melassa". Sono lettere di donne, ma c'è anche qualche uomo, che hanno sofferto o soffrono di "binge eating disorder". Come me. Questi lettori dicono di sentirsi capiti, di leggere nelle poche e scarne pagine del libro la descrizione di ciò che accade davvero, al di là e oltre la retorica di scrittori che tentano di dipingere i disturbi alimentari come malattie poetiche e tormentose con un filo di romantica poesia. Nessuna poesia, il binge eating disorder fa schifo. Mangi tutto, mescolando sapori che non senti e buttando giù senza masticare, rischi di soffocare nella cioccolata mista al prosciutto crudo e maionese, e fai in fretta, sempre più in fretta, ti nascondi anche quando sei sola in casa, poi ti senti il peggio del peggio, lo scarto abietto e inutile dell'umanità, ma non puoi fermarti. Il mondo ti guarda, se ingrassi a dismisura come è capitato a me ti osservano con un punto interrogativo sulla fronte e chiedono "Ma tu che sei così intelligente, perché sei grassa? Basta solo smettere di mangiare".
Basta solo smettere di mangiare.
Altra frase che fa il paio con quella del povero cretino, qualche paragrafo più su. No, che non basta smettere di mangiare; o forse sì, basta quello, ma da soli non si riesce! Perché tutto passa attraverso il cibo, la dolcezza, la voglia di amore, il sesso, la rabbia, la nostalgia, la noia. Il cibo è amore che non c'è, è il tentativo di riempire una voragine nerissima che, fatalmente, non si riempie mai, resta vuota e sempre più grande, nonostante le tonnellate di roba informe, a volte perfino scaduta, che si butta dentro. Il cibo, per chi unisce al disturbo il ricordo di molestie sessuali, è il modo per respigere attenzioni malsane oppure sanissime ma difficili da accettare, è il modo per coccolare se stessi perché le coccole umane non bastano, oppure non si riescono ad accettare. Il cibo è nemesi e priorità assoluta. E questa è una MALATTIA.
Il binge eating disorder è una malattia. Notizia buona per chi ne soffre perché, come è capitato a me, si può chiedere aiuto. Non so se si possa definire guarigione ciò che accade dopo, quando l'aiuto professionale porta a stare meglio: guardate le mie foto in tempi diversi della vita, capirete che il cibo è rimasto una reazione spontanea agli eventi belli e brutti che capitano, però è possibile conoscere se stessi e imparare a salvarsi, a limitare i danni. A fermarsi, là dove per anni non siamo stati capaci di farlo. Ciò che mi auguro è che "Diario di melassa" dica che si può migliorare, e stare molto, molto meglio. Non era nelle mie intenzioni dare un senso al manoscritto: quando scrivo non ho finalità etiche o terapeutiche, metto giù quello che l'istinto e la ragione vogliono, però ho capito, grazie a chi ha letto il libro e ha voluto condividere con me le proprie impressioni, che raccontare qualcosa di sè a volte può fare sentire capiti, incoraggiati. Può fare sentire più leggeri, in tanti sensi.
Concludo con altre lettere, pesanti e dense di dolore. Qua e là, non solo in "Diario di melassa", ho parlato di incesto. E la cosa ha creato rabbia, dolore, empatia, insulti, voglia di confessioni epistolari. Penso che l'incesto sia abnorme, mi succede di accorgermi che tanta gente arrivi al mio blog digitando sui motori di ricerca "racconti erotici in famiglia, con cognate, figli, sorelle, madri". Questo mi rende triste, ma fa anche tanto pensare. Il confine tra incesto e attrazione sessuale casuale, involontaria, caduta addosso senza premeditazione è sottilissimo. Giudicare a priori è sbagliato. Però il problema esiste, e crea sofferenza. L'incesto viene nascosto, ma spesso percepito ugualmente: si sa e non si dice, si fa tutto per coprirlo. Ma, di notte, si controllano i siti che pubblicano racconti e video pornografici per cercare la trasgressione massima: ho visto molti siti del genere, succede spesso che vada a vedere perché in un prossimo romanzo racconterò parte dell'esperienza con queste letture, e ho capito che tuonare con aria pontificale non basta, non è la soluzione. A chi mi ha scritto non ho risposte intelligenti da dare, se non che, forse, la repressione sessuale palpabile di una società che usa internet, ha a disposizione tecnologia da sogno e apparentemente è riuscita a raggiungere il massimo della libertà, sia ancora troppo pesante. Si cerca di trasgredire almeno a parole, o nella lettura, distorcendo il significato di una parte meravigliosa della vita: il sesso. Niente di più naturale, istintivo e appagante del sesso. Eppure, come per il cibo, anche per il sesso esiste il disturbo, l'abbuffata patologica che scompensa e colpisce duro.
A proposito. Qualcuno ha chiesto come mai scriva racconti erotici. Non esiste un motivo che riesca a spiegare. Considero il sesso una realtà stupenda, necessaria, superflua negli atti per chi non desidera o non può viverlo, ma integrata radicalmente nell'essere. Mi piace scriverne, in alcuni momenti. C'è il momento per scrivere il sesso, e il momento in cui il sesso proprio non fa parte della scrittura. Succede che ironizzi descrivendo situazioni eccitanti, al limite del pornografico, oppure che sia serissima e intenzionata a parlare di relazioni che stimolano la mia fantasia. Succede che non trovi motivo per non parlarne, che non veda il male (no, proprio non lo vedo) o la "caduta di stile" (alludo alla lettera di CC): perché il sesso dovrebbe fare cadere lo stile? Lo stile cade se la scrittura è brutta, ma non è certo colpa dell'argomento! Chissà perché, la domanda più frequente è se i miei racconti siano tutti vita vissuta: volete sapere se trascrivo le mie avventure per la gioia dei lettori e per il narcisismo inevitabile di ogni scrittore? Certo, ogni pezzo di scrittura è vita vissuta da qualcuno, e lo scrittore nemmeno lo sa: non racconto la mia vita sessuale (forse) e neanche quella di persone che conosco, racconto situazioni possibili, probabili, realistiche o meno, ma concrete. Da qualche parte, in qualche luogo. Non è importante, per me. E' chiaro che conosca il sesso, ma anche nei racconti erotici, come nel resto delle cose che scrivo, ritengo che la mia vita sia per niente interessante: trovatemi dove vi pare, forse ho fatto ciò che scrivo o forse no, non è questo che davvero conta.
Concludo, ora, davvero. Ritornerò con altre lettere più avanti.
A tutti, tutti voi, un sorriso e un grazie incredulo e felice: ricevere le vostre parole, qualunque sia l'argomento, è una parte del mio essere che regala emozioni importanti. Mi rendete un po' migliore.
I social network sono luoghi senza spazio fisico né tempo, dove molto è virtuale. Molto, ma non tutto. Possiamo arricciare il nasino millantando orrore e superiorità, ma internet è uno strumento di comunicazione straordinario, e i social network, se usati con la medesima intelligenza che dovrebbe guidare ogni azione quotidiana, non sono altro che piazze assolate o fresche, piene di neve o pioggia, dove ci si trova, ci si lascia, si ama, si odia, si piange, si canta, si fa l'amore, si discute e si condivide.
I mezzi a disposizione su Facebook, uno dei più noti social network, sono belli e interessanti. Chi scrive ha il desiderio, espresso in modo più o meno palese, che le proprie opere siano lette: internet offre la potenzialità per raggiungere tanta gente e fare conoscere la propria scrittura. Ma non c'è solo questo: c'è la discussione, che, a volte, diventa intrigante, piena, sottile o spessa, lascia tracce di sangue, sudore e fiele, oppure dolcissime riflessioni. Per questo ho aperto, cedendo a qualche pressione dei lettori, un gruppo che si chiama "MariaGiovanna Luini" e che, orrore, avrà un pulsantino con la scritta "diventa fan": ogni volta che noto quel pulsantino virtuale vorrei buttare il computer dalla finestra e chiudere il gruppo, la cosiddetta "pagina ufficiale", perché la parola fan non mi piace. Pazienza, fingerò di non vedere. Ho una certa abilità nel fingere di ignorare ciò che accade, spesso conviene.
Il gruppo su Facebook vuole essere un ritrovo per chi ama la scrittura e i libri. Non parleremo solo dei miei libri, anzi spero che subito ci si immerga in digressioni che riguardano altri scrittori: vorrei che chi avrà voglia di unirsi a noi esca dalle discussioni con la voglia di leggere, leggere, leggere, che abbia la possibilità di sapere dove sono i suoi scrittori preferiti e quando, conosca i festival e gli eventi delle case editrici e i progetti più rilevanti che riguardano la scrittura.
Ai viandanti del web iscritti a Facebook offro l'appuntamento da me, per un aperitivo letterario e uno scambio di parole e vita. Ecco il LINK.
"Ed ecco anche qui la Tua misteriosa innocenza e inattaccabilità, Tu inveivi senza farTi alcuno scrupolo, mentre negli altri condannavi le invettive e le proibivi". Kafka, "Lettera al padre".
E' stata una ragazza con i capelli rossi sull'autobus. Il 222, va a Zerbo: passa da via Ripamonti, si ferma davanti a IEO e prosegue fino a Opera. La ragazza ha chiamato qualcuno al cellulare poco prima che arrivassimo alla fermata di Noverasco, dove scendo. "Che delusione. Il funerale, intendo. Se penso che hanno fatto il funerale di Stato a gente che per l'Italia ha fatto niente. Alda Merini, la più grande poetessa del Novecento, ha avuto un funerale così". Non so cosa intendesse, non sono stata al funerale di Alda Merini per più di una ragione: avevo ambulatorio, e ho orrore dei funerali che non celebrano la vita. Comunque. La telefonata della ragazza con i capelli rossi e un paio di jeans, borsa a tracolla, ha dato l'ultima spinta a pensieri che tentavo di lasciare evaporare senza mettere parole su carta. O su computer, se preferite. Quando ho salutato L, la collega con cui divido la studio, ho fatto "bip" con il tesserino magnetico e mi sono incamminata verso la fermata davanti a IEO rimuginavo sull'inconsistenza della gratitudine. Mi chiedevo se la gratitudine in sé esista davvero. Perché da molto tempo ho seri dubbi.
Mi sono seduta alla scrivania, con la luce fioca del mio studio (devo capire perché sia tanto fioca, a proposito) a piovermi addosso, e ho cercato su Wikipedia la parola gratitudine. Ho letto proverbi e citazioni. Ho pensato a volti che hanno tirato fuori questa parola spesso, oppure una volta sola. E non riesco a convincermi. Il massimo che sono in grado di ottenere dalle mie elucubrazioni stanche di un mercoledì intenso è la consapevolezza di istanti, di sentimenti che durano lo spazio di una gola strozzata e mani tese, ma niente che sia durevole. La gratitudine, se esiste, è afflato di anima che si credeva persa e si trova in piedi, ma non ha destino. Finisce, punto e a capo.
Non voglio che si immagini una MG Luini tetra oppure delusa da un fatto specifico, da una persona. Non è così, non ora e non oggi. Ho in mano eventi passati, recenti o remoti, e tanti e tanti nomi. E ho anche la precisa conoscenza dell'obiezione: "Non si fa qualcosa per ricevere gratitudine". Obiezione cretina, mi si perdoni. Per favore, smettiamo i panni dei buoni da cioccolatino. E' ovvio che non si sia generosi per ottenere qualcosa, meno che mai in amore o nella professione, ma si ha la libertà di notare quando il tempo regala evidenze ingrate. Il nulla è diverso dall'ingratitudine: l'ingratitudine è densa, è qualcosa che il dolore può toccare. E' uno schiaffo, e potrebbe invece essere un dignitoso silenzio. In mezzo a tanta, tanta bellezza, in mezzo all'amore e all'amicizia e alle soddisfazioni di cui gioisco, ho uno schedario mentale del 2009 colmo, traboccante di tagli necessari. E di ingratitudini evidenti.
Va bene, se non esiste la gratitudine non dovrebbe esistere il suo contrario. Neanche l'ingratitudine esiste. Mi inchino alla logica. Sto parlando inutilmente, di inutile retorica. In fondo, uno scrittore si lascia spesso andare a momenti come questo. Eppure, nella mia povera testa banale i pensieri raffazzonati si affastellano e non mollano. Ricordo una lettera che ho ricevuto tanto, tanto tempo fa. Di un uomo che ho amato molto, il primo. "...la gratitudine non esiste, ce l'hanno i bambini e gli animali, ma non aspettartela mai dagli adulti...". Peccato, ho distrutto le sue lettere quando abitavo in Belgio, spinta dall'abilità verbale di qualcuno: è stato un errore, non avrei dovuto strapparle e buttarle via, se avessi resistito, proteggendole, avrei ora ricordi da riprendere ogni tanto. E amore storto, complesso (ma vero) da annusare. Il primo uomo che ho amato aveva ragione, sulla gratitudine: era stato ferito dalla vita, aveva avuto il dolore più grande e offensivo che si possa immaginare, parlava con la voce della rabbia, ma diceva la verità. Esiste l'affetto, di questo sono sicura, anche se è caudco e può frantumarsi, ed esiste anche l'amicizia, esistono innamoramenti e attrazioni fisiche bellissimi, ma la gratitudine no, non ce la faccio proprio ad ammetterla.
Eppure l'ho provata. Ho sentito dentro di me di dovere qualcosa, a lungo, e non mi sono mai pentita. Volevo bene, forse? Vestivo di gratitudine un affetto? Ancora oggi, non riesco a fare a meno di dedicare premura e protezione a persone che nel passato mi hanno dato, addirittura impedisco alla rabbia di venire fuori quando sarà rivolta a loro. E ogni mio castello di certezza cade. Non posso avere dentro un sentimento che dichiaro inesistente.
La gratitudine. Se mi siete amici lasciatela perdere. Dite altro, oppure tacete. Perché voglio guardare avanti e non pensarci più.
"Il saggio non fa del male ad alcuno. Costoro sono Maestri del loro corpo e si addentrano nello sconfinato. Vanno al di là del dolore e dell'afflizione". Il Dhammapada di Gautama il Buddha, ca. 500 ac.
C'è musica e musica. Questa è lieve come un sospiro e piena come un morso. L'andare quieto del treno scivola su una pianura ordinata di filari di alberi immersi nella nebbia soffice, delicata. Avrei detto che ci fosse pace, la notte scorsa. E c'era pace. Non l'avrei trovata uguale se questo fosse stato il viaggio erotico e sensuale di due amanti in cerca di poesia, non avrei potuto respirare il caldo perfetto che non soffoca nè appiccica di sudore sotto il pigiama di seta leggera. Forse.
Cambia in fretta lo sguardo sull'amore. Cambia come i campi che vedo fuori dai finestrini, come le stazioni coperte di grigio dove poche mani si alzano per salutare.
Fiocchi di luce e profumo costoso. Ho le pagine aperte sotto la mano chiusa sulla penna, vedo i segni nascere e scavare la carta nell'ovatta molle del rumore delle rotaie. Non lo sento, quel rumore, ma so che esiste: il treno sbanda all'improvviso e ci svegliamo, il corpo va avanti e indietro, poi ritorna a posto, e la musica prosegue. Come se niente accadesse sul serio.
Che pigro ottundimento lucido e quieto. Nel vagone bar coppie si osservano con mezzo sorriso, donne e uomini leggono, il pianista tira fuori meraviglia dai tasti bianchi e neri, i camerieri parlano italiano e azzardano poche chiacchiere discrete. Una ragazza con una grossa macchina fotografica nera fa scattare un flash; ha un vestito di lana grigio chiaro, le calze lunghe viola. L'accento è di Milano. Porta capelli lisci raccolti in una coda strana, mi viene voglia di scioglierla per respirare l'odore pulito di shampoo e la soffice carezza di fili sottili, quasi di seta. E' giovane, molto giovane per questo treno di toni soffusi e amore pudico senza lo spazio per un gemito più forte nelle suite sballottate dalle rotaie. Fotografa ogni dettaglio, vedo con l'angolo di un occhio che punta l'obiettivo su di me, non mi infastidisco e sorrido: avrò rughe, aria distante e doppio mento seduta così, con il taccuino su una coscia, ma non importa. Prenda di me i ricordi che le piacciono, sta costruendo giorni. Che non potrà dimenticare.
Si avvicinano tutti, prima o poi. In due o tre lingue chiedono se sia vero, mi fissano timidi o curiosi e domandano se stia sul serio scrivendo un libro su questo treno. Su di loro che sfilano in smoking e vestito da sera, con storie che buttano lì e dipingono da favola bella. Annuisco, anche se non sono sicura. Ci vorrà tempo, per questo. Ma è inutile dirlo.
Prende il via, la mia mano, dopo un preludio che era musica più che racconto. Musica, ancora. Come il cibo e la vernice blu scuro lucida e fiera, anche le note di questo pianoforte sono perfette. Immagino i musicisti da crociera simili a questo, eppure esiste differenza; un orecchio popolare, profano come il mio capisce che non è lo stesso. Ci sa fare, questo pianista con il cognome italiano e la giacca impeccabile e scura. Snocciola note che cadono senza pieghe su tavoli bassi coperti da tazze e bicchieri e cartoline che partiranno con il timbro dell'Orient Express, sui nostri corpi rilassati ed eleganti e i libri, tanti, aperti nel riempirsi delle ore.
Mi chiedo dove siamo. E dove siano gli sposi di ieri: hanno camminato felici sulla pensilina di Venezia, ansiosi di flash altrui e sguardi di invidia. Lei aveva le scarpe di raso bianco, troppo grandi, e un vestito che non avrei voluto né sognato. Non ho mai sognato un vestito da sposa. Comunque, non li vedo. Forse sono scesi a Vienna, oppure festeggiano intimi in una suite. Esiste ancora qualcuno che impiega il tempo facendo l'amore?
E ora. Ora ora, cioè domenica primo novembre. Ho trascritto dal taccuino, rivisto e cambiato, piegato le parole a ciò che sono oggi. L'ho fatto mentre l'anima di una donna andava altrove. Alda Merini, che ha dato senso alla vita. Che brutale e antiestetica irruzione della morte nella poesia, nell'assoluto. E che triste addio, Alda.
Esistono giorni di parole sciolte. Considerazioni che uno può leggere, se gli va, oppure tralasciare a pie' pari senza che il corso delle ore cambi di un soffio.
Oggi è uno di quei giorni. Perché sapete, che si leggano oppure no, le parole sciolte escono e hanno bisogno di fissarsi su uno schermo, o sulla carta, o su qualsiasi supporto che poi le faccia leggere.
Insomma. Sono arrivata a Todi ieri sera, dopo un viaggio solitario che ha fracassato la mia schiena (guidare sulla E45 è sempre un'esperienza, schiena a parte: mi sono specializzata in chirurgia generale a Perugia nel 2006, quindi per almeno sei anni ho percorso giù e su la E45; che poesia ritrovarla uguale, senza luci e con i lavori e le deviazioni, e le uscite nelle stradine che cedono sotto il peso degli autoarticolati a cinque all'ora sui tornanti). Quando guido da sola, ascolto musica e penso troppo. Peculiarità della scrivente è, da sempre, l'eccesso di pensieri che diventa avvitamento tortuoso intorno al niente.
Ho pensato a un panorama bello e brutto di volti e fatti recenti, a quanto abbia perso e quanto guadagnato. E quanto abbia accettato senza che fosse realmente necessario.
Per esempio. Ho incontrato una persona molto bella, alcuni mesi fa: è stato un piccolo miracolo, un gioco di simpatia e affinità che mi ha lasciato un segno luminoso nella testa. Non so se questi incontri debbano restare confinati entro limiti del sogno oppure se possano, con pazienza e casualità, tradursi in amicizia, tuttavia ho provato, e il tentativo mi è sembrato reciproco, a tenere vivo uno scambio epistolare (veramente, uno scambio di SMS e messaggi email: ormai consideriamo anche questo uno scambio epistolare) e di telefonate gradito, mi pare, a entrambi. Solo che. Sono stata in una città del Nord, non importa quale, e ho incontrato la persona-miracolo che passeggiava per strada in compagnia di una donna. Niente di male, visto che con lui (sì, la persona è di sesso maschile) non è mai esistita una relazione, e neanche un'avventura sessuale: di altro si trattava! In ogni modo, l'uomo mi ha vista e ha palesemente evitato di salutarmi. Ho pensato, lì per lì, che fosse distratto, che il mio passaggio a meno di dieci centimetri da lui non fosse stato notato; quando l'incontro si è ripetuto, l'assenza di saluto, di un minuto e mezzo di reciproche presentazioni (quando è assente la colpa nascosta, ritengo scontato che si dia priorità all'educazione), è diventata un ululato. Per rendere tutto più breve, l'uomo che avevo incontrato in più occasioni per un pranzo veloce, una chiacchierata profonda, una passeggiata da niente ha finto di non conoscermi. Prima volta che mi capita, giuro. E successivamente i suoi messaggi sono andati avanti come se niente fosse accaduto. Il non-saluto non è successo, voilà.
Se fossero qui con me alcuni amici che mi conoscono bene, sorriderebbero e commenterebbero:
- Ci vuole altro, con te!
Che vuole dire tutto e niente. Ci vuole altro perché perdono l'imperdonabile, salvo poi infuriarmi nei momenti meno prevedibili della vita, e ci vuole altro perché in questo misterioso 2009 psichico (la mia amica Gemma ha detto che è un anno psichico) mi è capitato di peggio. E di meglio, anche. Sorvolo, qui, sul significato di "di peggio" perché avrò modo di parlarne più in là, altrove. Dico solo che la mia riflessione da viaggio solitario con marea montante di dolore alla schiena ha prodotto anche la consapevolezza che quel "signor di peggio" deve vergognarsi in ogni caso, anche quando provo a dipingerlo di indulgenza e perdono. Ci sarà tempo. Ma una cosa è chiarissima: ci si perde ormai con una facilità deprimente, e non sempre è necessario. Beato chi sa fare a meno degli altri perché è passato oltre; se penso alle persone che sono arrivate nella mia vita in questi ultimi mesi mi sento grata e felice, e incredula: perché dovrei rinunciare a qualcuno? Non capisco. Requiem, su questo argomento.
La stanza dell'albergo di Todi è piccolissima, ma sto bene nelle pareti oblique che danno su un balconcino dove ho accatastato giornali. L'edicolante mi ha fissata con pupille frementi quando ho chiesto tutti i quotidiani che ho trovato in vendita (tranne uno, non dirò quale), poi ha dato uno sguardo alle mie spalle e ha commentato:
- Ah, lei è con il gruppo di Todinsieme.
Ha indovinato, l'uomo giovane e bello con l'accento milanese che vende giornali a Todi. Ha giudicato dal fascio di quotidiani e pensato che facessi parte di un gruppo di... Non so cosa. Un gruppo, comunque, estraneo alla città e giunto qui per discutere e approfondire. Approfondiamo, dunque. Un amico, Emanuele Caroppo, ha lanciato su FB una piccola discussione che secondo me ha avuto meno seguito di ciò che meritasse: su FB non si discute, si accenna e i messaggi vanno tanto in fretta che si fa appena in tempo ad accorgersi dell'esistenza altrui. Peccato, ogni volta che si creano i presupposti per stabilire relazioni si accelera e banalizza tutto, e si passa oltre. Insomma, Emanuele ha parlato di chiacchiere e discussione. Ormai si chiacchiera, non si discute più. Sacrosanto. Vi viene in mente un'occasione in cui abbiate discusso, discusso sul serio e non chiacchierato? A me viene in mente VeDrò, spero che in futuro mi verrà in mente questo TODINSIEME, e penso anche agli incontri che Mariangela Guandalini organizza a Parma. E, per essere sincera fino in fondo, includo nelle discussioni rare e preziose gli scambi con l'uomo che non mi ha salutato di recente: quando si accorge che esisto, sa essere superiore a tanti altri. Oltre non riesco ad andare. Un'associazione di idee spontanea, mentre rileggo le ultime frasi, va ai commenti in questo blog: quando pubblico pensieri sciolti, riassunti di eventi, ho pochissimi commenti. Meglio scrivere l'erotismo (attenzione, chi mi conosce sa che l'erotismo per me NON è una sottocategoria sensuale della vita e della scrittura, ma è fondamentale) oppure gli amori mozzati che sono tipici del mio stile. Così va l'esistenza.
Domani pomeriggio si va verso Pontedera. Incontrerò nella mia casa di Firenze Lorenza Caravelli, mio fratello Filippo Gatti ed Elisabetta Mandelli e andremo a Pontedera. L'Era dei Libri è il primo festival di letteratura indipendente che mi abbia ospitata quando uscì "Una storia ai delfini". Posso dire di avere avuto il mio primo incontro con i lettori, là. Anche a questo pensavo ieri in automobile, mentre qualche neuroni sciolto riordinava i personaggi del romanzo che ho appena finito di scrivere e riprenderò stasera: Pontedera, l'Era dei Libri, Valentina Filidei e Marina Sarchi. Quanto voglio bene a Marina Sarchi di Librialsole! Comunque. E' capitato tutto ciò che poteva capitare in questi anni, più o meno (faccio volentieri a meno di scoprire eventuali, ulteriori sviluppi negativi, mentre resto apertissima al bello e buono e piacevole), e domani ritornerò in una cittadina che mi conosce e mi ha sempre accolto con affetto. Alla presentazione, insieme a Eliana Liotta (direttore di OK Salute, RCS), vedrò volti noti, ma mi accorgerò anche di assenze che hanno detto più di qualsiasi stupido, vuoto, sterile discorso su amicizia e gratitudine. Porterò il mio corpo di oggi, le testa di domani, le emozioni fortissime e ormai libere che provo. E vedremo, con buona pace di chi vorrà evitare di esserci e ringraziamento da parte mia a chi verrà.
Chiudo, ora. Lo faccio con un pensiero slegato ma profondo. Oggi viene consegnato, in IEO a Milano, il premio di studio "Floriana Andolfi Diomelli": un senologo e un oncologo medico dediti all'attività clinica e di ricerca sul tumore al seno (due uomini, non protestate: per curriculum hanno vinto loro, e in IEO i medici sono donne in maggioranza; questo anno va così) riceveranno un importante riconoscimento in memoria di una donna cui ho voluto molto bene. Bravi. Sono fiera di voi, lo sarebbe anche Floriana.
A Mantova ho partecipato, rapita, all'incontro con Patrizia Valduga. E ho capito che qualche volta, nel mezzo di una vita, l'amore esiste. Forse si tratta di scoprirlo in una somiglianza di interessi e sensibilità. E in un miracolo di alchimia.
Capisco ora, da qualche mese, che per amarsi bisogna anche condividere un po'. Cultura, idee, profondità.
Insomma, questo è un ricordo di Giovanni Raboni nel giorno dell'anniversario della morte, con la voce meravigliosa di Patrizia Valduga. Ma Raboni può dirsi morto?
Ho promesso testimonianza da VeDrò 2009, approfitto di una pausa tra il lavoro del gruppo di cui faccio parte ("tutta salute") e la registrazione di una puntata di Omnibus su Walter Tobagi (si prospetta interessantissima, come fu interessante la puntata che girammo lo scorso anno su Enzo Tortora) per scrivere in libertà.
La prima giornata di VeDrò (lunedì 31 agosto) ha avuto sessioni plenarie bellissime: dopo l'apertura da parte di Benedetta Rizzo, quale migliore esordio che una lezione di Gian Arturo Ferrari sui libri? Spero di avere capacità descrittiva e tempo sufficienti per pubblicare presto una sintesi vera, comunque è stato interessante imparare che esistano due categorie di libri: quelli dell'editoria di progetto e quelli dell'editoria d'autore. Per intenderci, nell'editoria di progetto la "fabbricazione" del libro parte dall'editore che decide di produrre un libro (o una serie di libri) su scala industriale su un determinato argomento, propone l'idea all'autore e successivamente pubblica ciò che l'autore ha scritto. Un esempio di editoria di progetto che rappresenta attualmente il più grosso business editoriale del mondo è il cosiddetto ELT, cioé English Language Teaching: il numero di persone che desiderano o devono imparare l'inglese è altissimo, e questo si riflette sulla domanda e sulla produzione di libri. Nell'editoria d'autore invece i libri non si "fabbricano": l'autore scrive la propria opera, la propone all'editore che successivamente la pubblica. L'autore quindi è l'unico responsabile della scelta dell'argomento, dell'impostazione del manoscritto, senza che vi sia una decisione basata sul bisogno del pubblico.
E' chiaro che la lettura dell'editoria di progetto sia diversa da quella dell'editoria d'autore: l'editoria di progetto è guidata dalla domanda, dalle richieste e dal bisogno del pubblico quindi la lettura è finalizzata, l'editoria d'autore nasce dalla creatività dello scrittore quindi la lettura non è funzionale, è libera e "inutile". Da autore e lettore, ho un tremore incontrollabile alla mano quando scrivo la parola "inutile", per me l'inutilità della lettura è il bisogno maggiore da sempre. Comunque. Anche il mercato si differenzia molto: il mercato dell'editoria di progetto è in larga misura prevedibile, quello dell'editoria d'autore non lo è affatto. A proposito di mercati del libro, quelli più grandi al mondo sono otto e includono l'Italia al settimo posto.
Parliamo di lettori. Esiste un paradosso tutto italiano. Il mercato italiano è, come dicevo qui sopra, enorme: siamo i settimi nel mondo, e il consumo culturale è conseguentemente elevatissimo. Però i lettori rappresentano solo il 38% della popolazione adulta, con lo 0.4% di lettori fortissimi (oltre 20 libri all'anno), l'1.1% di lettori forti (11-20 libri all'anno), il 6.5% di lettori medi (6-10 libri), il 15.2% di lettori deboli (3-5 libri) e il 14.8% di borderline (1-2 libri). Queste percentuali sono calcolate sulla popolazione generale, se vediamo le percentuali stabilite all'interno del gruppo "lettori" vediamo che i lettori fortissimi rappresentano l'1%, i lettori forti il 3%, i medi il 17% e i deboli il 40%. Tutto ciò che per dire che poche persone leggono, il consumo culturale è di una piccolissima minoranza che, a quanto pare, legge tutto ciò che viene venduto.
La parte conclusiva dell'intervento di Ferrari ha riguardato gli ebook. Credo avremo modo di discuterne qui nel blog. Il feticismo del libro, della carta da annusare e portarsi dietro per leggere e rileggere mi riguarda senz'altro, tuttavia aspetto con ansia che i dispositivi per la lettura degli ebook raggiungano livelli tecnologici e di accessibilità ai testi degni dell'attuale standard degli USA; sono assolutamente favorevole alla lettura sui supporti ebook. Possiedo un paio di dispositivi che mi seguono in borsa, anche se il miraggio (che diverrà oggetto concreto nelle mie mani quanto prima: ad aprile avevo chiesto a una persona di acquistare per me un ebook in Oriente ma ho certezza che vivrò aspettando, quindi la mia ferma risoluzione è agire in proprio) è il Kindle 2. Oh, quanto mi lascio affascinare dalla tecnologia quando si parla di scrittura! La magia dell'acquisto d'impulso (la mia vita è impulso continuo) è uno degli aspetti più belli dell'ebook, anche se dovremo aspettare un po' per eguagliare la meraviglia americana del "sono connesso ovunque, mi viene in mente un libro e click, lo compro".
A conclusione di questo breve e impreciso report (stanno accendendo i riflettori per Omnibus), una considerazione a margine sul numero esiguo dei lettori: Ferrari ha concentrato l'attenzione sull'estrema difficoltà di estendere alle classi socio-culturali meno sviluppate del nostro Paese la lettura e, conseguentemente, la cultura, attribuendo a retaggi atavici di arroccamento dei "colti" sul proprio stato elitario la causa delle percentuali deludenti di lettura nella popolazione generale. Condivido quasi interamente: siamo nel 2009 e ancora vediamo scrittori che storcono il nasino quando si tratta di coinvolgere la gente nella cultura, tentare di offrire a tutti strumenti per appassionarsi e migliorare se stessi. Detesto lo snobismo, e quando si tratta di lettura e cultura lo trovo segno di profonda povertà morale (ignoranza, anche in chi esibisce preparazione enorme). Tuttavia, esiste anche il tratto genetico che rende alcuni lettori forti e fortissimi e altri medi o deboli: si nasce forti lettori, difficilmente si diventa. E' importante capire quanto sia possibile incrementare l'interesse per la lettura nelle persone non geneticamente predisposte a essa.
Da domani a VeDrò. Proverò a raccontare, e se le mie (scarse) abilità tecnologiche lo permetteranno pubblicherò immagini e brevi video. Ecco di seguito il comunicato stampa.Potete trovare il programma di VeDrò qui: http://www.vedro.it/
"Tornano a Dro, in Trentino, dal 30 agosto al 2 settembre 2009, i protagonisti più giovani della vita del Paese sollecitati dal pensatoio VeDrò di Enrico Letta, Annamaria Artoni, Giulia Bongiorno e Luisa Todini. Circa 450 persone, tutte nate negli anni '60 e '70, tra cui professori universitari, imprenditori, scienziati, liberi professionisti, giovani impegnati a vario titolo nella politica, artisti, giornalisti, scrittori, registi ed esponenti dell’associazionismo. Il meeting è stato pensato per discutere dell’Italia del futuro. I temi caldi di questa edizione sono una ricerca sui nuovi lavori, le anomalie del sistema finanziario, l'etica degli affari e l'Italia di oggi vista dal cinema.
Dal mondo dell'impresa arriveranno i leader di Google Italia, Trenitalia, Autostrade. Saranno presenti inoltre l'economista Oscar Giannino, gli scrittori Folco Terzani, Antonio Scurati e Giampaolo Pansa e il giornalista Filippo Facci. Un appuntamento esclusivo, per il taglio generazionale e per l'assoluta trasversalità (politica, culturale, professionale, religiosa), che riunisce giovani di belle speranze e la futura classe dirigente del nostro Paese".
“VeDro' e' un'occasione straordinaria di riflessione e lavoro concreto. Ciò che faremo del nostro futuro dipende dal nostro impegno di oggi, soprattutto dai contenuti culturali che vorremo approfondire, discutere, estendere alla società.” Afferma Maria Giovanna Luini, scrittrice e senologa all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. “Scienza e letteratura, i due mondi solo apparentemente distanti che sono la mia vita, trovano nel lavoro a VeDrò opportunità di studio critico ed effetto reale sulla politica e sulla società.”
Ultimi commenti